Arturo Paoli: “Aspetto che torni il cardinal Borromeo”

L’intervista Bianchi i capelli, candidi, un’aureola di pudicizia.
Fratel Arturo, una volta circumnavigato il mondo, nel tascapane una bussola che oscilla fra il Golgota e il sepolcro vuoto, ha ritrovato la via di casa, in Lucchesia, assaporando, riassaporando, «il privilegio della radice».
Qui è nato novantotto anni fa, qui – nel villaggio di San Martino in Vignale cosparso di cipressi – attende il Natale.
Svelando una disposizione fanciullesca, la stessa irradiata da un laico come Franco Lucentini quando, accostando il Vangelo di Luca, ammirerà la capacità di ricordare «con un minimo di parole» un «fatto semplicissimo» eppure prodigioso, «il fatto che il Natale fosse di notte».
Fratel Arturo ha allargato la tenda sulle colline intorno a Lucca nel 2006.
In dicembre, quando si festeggia il beato Charles de Foucauld, il fondatore dei Piccoli Fratelli di Gesù.
Quest’uomo così tenace, così mansueto, diverrà uno di loro, esaurita la stagione nella Gioventù di Azione Cattolica, a cavallo fra Anni Quaranta e Cinquanta.
Scoprendosi «sradicato», non «disoccupato», nella scia di Carlo Carretto, come lui testimone di una Chiesa profetica («obbediente al “sabato” disobbedendo “alla pratica del sabato”») che confliggeva con la Chiesa politica di Luigi Gedda, Comitati civici e dintorni.
Nel 1953, Arturo Paoli andrà in esilio, fra le zolle dell’America Latina in cui, dopo il noviziato nel deserto algerino, lascerà orme profonde, tra i poveri, con i poveri, per i poveri, ispirando la teologia della liberazione (il suo Dialogo della liberazione si riverbererà nella Teologia della liberazione di Gustavo Gutiérrez, come si rammenta in Ne valeva la pena , il saggio-biografia di Silvia Pettiti per le Edizioni San Paolo fresco di stampa).
«Parola della nostra liberazione».
Arturo Paoli, ogni domenica, suggella vigorosamente il Vangelo.
Oggi l’omelia ruota intorno a un verbo greco «intraducibile», che il sacerdote «spezzerà», offrendolo nella sua filologica possanza: «Cristo è Colui che reagisce visceralmente – misericordioso fin nelle viscere – alla miseria dell’uomo».
Cristo che sconvolge la Storia abitandola…
Fratel Arturo, c’è chi La ricorda professore di greco nel liceo «Machiavelli» di Lucca, il Suo liceo…
«Sin da piccolo fu chiara la mia inclinazione agli studi.
Figlio, non a caso, di un signor lettore, ancorché facesse l’artigiano.
In casa i classici non mancavano, da Dostoevskij a Manzoni, l’amatissimo Don Lisander».
«I promessi sposi»…
«Ossia la Storia scritta dagli umili, dagli umili felicemente stravolta.
Il Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola si serve prodigiosamente di loro».
Per contrasto, rispetto alla sua coraggiosa parabola, come non riandare al pavido Don Abbondio? «Non è onesto parlare del mio mondo, non è prudente.
Chi sono io per giudicare? E comunque: nei Promessi sposi c’è don Abbondio e c’è il cardinal Borromeo.
Come non rimpiangerne la statura alla luce di quel che accade?».
A che cosa pensa? «Ai cardinali italiani recentemente creati.
Hanno dato scandalo.
Avevano appena giurato di esaltare, di nobilitare la Chiesa, e già sedevano a pranzo con l’attuale presidente del Consiglio, una figura indegna, nella dimensione privata come in quella pubblica».
Forse andrebbe riscoperta la vita di Gesù.
Da Mauriac a Ratzinger in molti si sono provati a scriverla.
Quale predilige? «I Vangeli».
Nuovo e Vecchio Testamento: i passi che più La interpellano, La scuotono? «Nel Nuovo, Matteo 16, 1-4, là dove Cristo sferza i farisei e i sadducei: “Sapete dunque interpretare l’aspetto del cielo e non sapete distinguere i segni dei tempi?”.
Nel Vecchio, Geremia: “Mi hai sedotto, Signore, ed io mi sono lasciato sedurre”».
Quando fu sedotto? «Intorno ai vent’anni.
Decisivo l’incontro con Giorgio La Pira, sarà lui a svelarmi i sentieri della mistica».
A proposito: Lucca è la città di santa Gemma Galgani…
«Ma per me, soprattutto, della beata Elena Guerra, la religiosa incardinata nello Spirito, l’ànemos che rinnova la Terra».
Non le pare sfumato lo Spirito conciliare? Tra le pagine desuete, non risaltano forse i documenti del Vaticano II? «La decadenza della Chiesa è visibilissima.
Due costituzioni andrebbero, fra le altre, riscoperte o scoperte: la Lumen Gentium , ovvero l’urgenza di annunciare il Vangelo a ogni creatura, e la Gaudium et spes, che invita a scommettere su un ”uomo integrale”».
Maritain…
«Ecco.
Maritain.
L’umanesimo integrale.
Il cristianesimo è veramente un umanesimo.
Il Vangelo non è metafisico.
Bisognerebbe finalmente affrancarsi da certa teologia che lo contraddice.
Da Maritain approdando a un filosofo cruciale come Lévinas.
Per capire che la filosofia dell’essere è obsoleta, che occorre pronunciare il “tu”, andare verso l’Altro».
Il suo Papa? «Giovanni XXIII.
Ha messo l’autorità papale al giusto posto.
Il pontefice come presidente dell’episcopato mondiale.
Umilmente in ascolto, favorendo la collegialità».
Montini La inviterà a pregare di non diventare mai vescovo…
« E’ il Papa della Populorum progressio, la maggiore enciclica della nostra età.
Il suo limite: affidarsi oltremodo alla Curia».
Preti di oggi, preti di ieri…
«La loro formazione.
Urge una svolta culturale, in chiave psicoanalitica.
Non da oggi Jung è tra i miei autori.
I suoi archetipi, aperti a tutte le esperienze dello spirito».
C’era una volta il catechismo…
«E c’è ancora.
Ma se non si afferrano i segni dei tempi, nulla potranno le pandette della fede di fronte all’uomo che quotidianamente mi si presenta, arido o drammaticamente problematico».
Negli Anni Trenta la laurea.
«Alla Cattolica, con una tesi su Romanticismo e medioevo nella poesia di Carducci.
L’avevo definita a Pisa con Attilio Momigliano, nel frattempo costretto dalle leggi razziali a lasciare la cattedra.
Era agnostico, eppure un manzoniano fanatico, nonché ammiratore dei mistici medioevali, protagonisti di un corso indimenticabile».
Carducci poeta…
«Non il mio poeta.
Di Carducci, ad attrarmi, era la vastissima cultura europea, la francese e la tedesca in particolare, onorate di un dialogo al massimo grado».
I suoi poeti? «Leopardi e Manzoni.
L’anima tormentata di Leopardi.
Come non specchiarvisi in gioventù? E il Dante del Purgatorio: perché umanissimo, noi, ciascuno di noi, che camminiamo per la strada…».
Lucca, la Toscana, gli scrittori non difettano, da Pea a Tobino…
«Di Tobino ho l’opera omnia, libro dopo libro.
Ma più viva in me è la letteratura latinoamericana.
In vetta Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez.
L’ho conosciuto in Colombia, ne ho apprezzato l’affabilità.
Il suo capolavoro depista e disarma lo sguardo rapinoso dell’Europa sul Nuovo Mondo: esistiamo e non esistiamo, sappiamo sognare e, quindi, non saremo, infine, mai umiliati».
Era colma, questa mattina, la chiesa secentesca di San Martino in Vignale.
Come raramente succede di vedere.
Perché all’altare c’era, c’è, un uomo di Parola.
Ascoltandolo, dividendo a pranzo il pane con lui (che indossa un tovagliolo su cui ne è ricamato il nome, Arturo), interrogandolo, si dìssipa la profezia di Julien Green: quando il segno lasciato dal Crocifisso sul muro si stingerà sino a svanire, la casa, la casa nostra, la casa di tutti, crollerà.
Nella navata filtra un raggio di sole.
Il toscano Piero Calamandrei vi avrebbe riconosciuto l’«oro di noi poveri», l’oro dello spirito.
*Arturo Paoli è nato a Lucca il 30 novembre 1912.
Allievo di Momigliano, si è laureato con una tesi su Carducci.
Sacerdote dal 1940.
Giusto tra le Nazioni.
Nel 2006, il presidente Ciampi lo ha insignito della medaglia d’oro al valore civile per meriti durante la  esistenza.
Vive a San Martino in Vignale, sulle colline lucchesi.
Le opere.
E’ appena uscito, di Silvia Pettiti, «Arturo Paoli.
“Ne valeva la pena”» (San Paolo, pp.
233, 16).
Tra gli altri titoli: «Svegliate Dio» (La Collina), «Il cuore del regno» (Dissensi), e «Il sacerdote e la donna» (Marsilio) in “La Stampa” del 23 dicembre 2010

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