Cattolici soci fondatori di un Paese unito

Pedofilia, il perdono non evita la giustizia Venerati e cari Confratelli, «voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: “Abbà! Padre!”.
Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio.
E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria» (Rom 8, 15-17).
È questa la rivelazione formidabile che riguarda l’umanità.
La Chiesa infatti, germogliando nel grembo del Cenacolo, e sospinta dal fervido fuoco della Pentecoste, apre le porte e va incontro agli uomini di tutti i tempi perché ha una notizia da porgere a tutti.
Non è − lo sappiamo − un’idea, un codice, una sapienza umana o una nuova gnosi: ha un volto e un nome, ha uno sguardo che accende la vita, è parola che risuona e suscita speranza.
È la Persona viva e palpitante, umanissima e divina, di Cristo.
Egli è il Salvatore, Colui che redime l’uomo dal peccato, radice di ogni male, e lo restituisce al Padre nell’abbraccio rinnovatore del suo Spirito.
È il Liberatore da ogni schiavitù, la Verità di Dio e dell’uomo, la Via che conduce al cielo – Egli che è il Cielo – la Vita che il cuore dell’uomo desidera, e ricerca a volte per strade sbagliate.
Egli è la felicità piena che non viene meno anche a fronte dei nostri tradimenti.
Davanti al suo volto, il credente si sente come trafitto da un pianto e da un incanto che non riesce pienamente a descrivere: l’incanto è provocato dalla bellezza che scorge in quello sguardo d’amore, il pianto invece lo prende alla gola per la consapevolezza pungente della propria povertà.
È pianto di rammarico ma anche di gioia: sa che Cristo, nonostante tutto, non rinuncerà ad amarlo.
Come gli Apostoli di allora, anche noi, cari Confratelli, vogliamo uscire da questo cenacolo con passo umile e spedito, confermati dalla luce dello Spirito che è in noi e ispira la nostra stessa Assemblea; vogliamo andare incontro al mondo contemporaneo con rinnovata fiducia per annunciare non una dottrina nostra che possiamo ritagliare secondo i tempi, ma il Signore Gesù che è «lo stesso ieri e oggi e per sempre!» (Eb 13, 8).
Per la missione ricevuta e della quale siamo gioiosamente responsabili, intendiamo dire all’uomo contemporaneo, talora frastornato e triste, che nessuno è orfano, che non si tratta di una scintilla che nel buio si accende per subito spegnersi; che nessuno è capitato per caso in un cosmo senza destino.
Vogliamo dire, senza presunzione o arroganza ma con la convinzione e la simpatia dei messaggeri, che tutti siamo pellegrini verso la Patria vera – la vita eterna − dove vedremo il Dio dell’Amore amato faccia a faccia, nella beatificante comunione di tutti i viventi.
È questo il tesoro della Chiesa, e di questo tesoro siamo debitori verso il mondo.
«Lo Spirito dimora nella Chiesa e nei cuori dei fedeli come in un tempio – dice il Concilio Vaticano II – e in essi prega e rende testimonianza della adozione filiale.
Egli guida la Chiesa verso tutta intera la verità, la unifica nella comunione e nel servizio […].
Con la forza del Vangelo la fa ringiovanire, la rinnova continuamente e la conduce alla perfetta unione con lo Sposo.
Infatti, lo Spirito e la Sposa dicono al Signore Gesù: Vieni!» (Lumen Gentium, 4).
La Chiesa non porta avanti se stessa, ma serve l’uomo con la simpatia di Dio: la sua prossimità agli uomini là dove sono, la condivisione delle loro ansie e speranze, è segno di una presenza, anzi di una compagnia più alta e consolante.
Sperimenta così Gesù nella duplice fedeltà a Dio e all’uomo.
Questa è la missione della Chiesa, il suo statuto, la sua perenne bellezza.
È dentro a questa verità ospitale e luminosa che la Chiesa guarda a se stessa e al mondo, riconoscendo luci ed ombre.
Nella misura in cui il suo sguardo è fisso sul volto del Signore, qualsiasi ruga e qualsiasi opacità acquistano il loro vero rilievo, disvelano la loro autentica serietà, sollecitano ad una proporzionata assunzione di responsabilità.
«Per crucem ad lucem»: così avevamo interpretato – all’avvio del Consiglio Permanente del settembre scorso – i primi passi dell’anno pastorale che va ora concludendosi, alla luce cioè di una regola – incontrovertibile, eppure consolante – della vita cristiana (cfr Prolusione al Consiglio Permanente della CEI, 21 settembre 2009).
Ebbene, a me pare che, nell’arco dei mesi successivi, mai in realtà ci si sia allontanati dal solco di quelle parole: per crucem ad lucem.
Veniamo infatti da una stagione particolarmente carica di sofferenza e di pena.
Naturalmente ci guardiamo dal lasciarci catturare dal pessimismo, restando per noi vincolante l’indicazione secondo cui ogni vero discepolo di Cristo può aspirare ad una cosa sola, ossia a condividere la sua passione, senza rivendicare altre ricompense o gratificazioni (cfr Mc 10, 39-40).
Così preferiamo considerare le nostre tribolazioni intrecciate a quelle che attraversano il popolo a noi affidato, le stesse a cui faceva riferimento Benedetto XVI nella celebrazione eucaristica presieduta a Torino: «Sì, la vita porta ad affrontare molte difficoltà, molti problemi, ma è proprio la certezza che ci viene dalla fede, la certezza che non siamo soli, che Dio ama ciascuno senza distinzione ed è vicino a ciascuno con il suo amore, che rende possibile affrontare, vivere e superare la fatica» quotidiana (Omelia in Piazza San Carlo, 2 maggio 2010).
1.
Salutiamo anzitutto con viva cordialità il Nunzio apostolico in Italia, l’Arcivescovo Giuseppe Bertello, che amabilmente è già qui tra noi e la cui parola avremo a breve il piacere di ascoltare.
Onoriamo con gioia il dovere dell’ospitalità dando il benvenuto ai confratelli Vescovi che qui rappresentano le Conferenze episcopali di numerosi Paesi, ringraziandoli fin d’ora per il dono della loro presenza e della loro parola.
Avviando questi lavori assembleari vogliamo in primo luogo accogliere i Presuli che nell’ultimo periodo sono entrati a far parte della nostra Conferenza.
Confidiamo sul loro impegno e chiediamo al Signore abbondanza di grazie per il loro ministero.
Mi riferisco a: – S.E.
Mons.
Giovanni D’Ercole, Vescovo ausiliare de L’Aquila; – S.E.
Mons.
Gianfranco Agostino Gardin, Arcivescovo – Vescovo di Treviso; – S.E.
Mons.
Lucio Lemmo, Vescovo ausiliare di Napoli; – S.E.
Mons.
Vincenzo Pisanello, Vescovo di Oria; – S.E.
Mons.
Calogero Peri, Vescovo di Caltagirone; – S.E.
Mons.
Valentino Di Cerbo, Vescovo di Alife – Caiazzo.
Un particolare saluto di riconoscenza ed affettuosa vicinanza desideriamo rivolgere ai Confratelli che di recente hanno lasciato il governo pastorale, e che in altro modo ora continuano a lavorare con noi per il bene delle nostre Chiese.
Si tratta di: – S.E.
Mons.
Benito Cocchi, Arcivescovo di Modena – Nonantola; – S.E.
Mons.
Luciano Giovannetti, Vescovo di Fiesole; – S.E.
Mons.
Eugenio Binini, Vescovo di Massa Carrara – Pontremoli.
Grata memoria desideriamo fare dei fratelli Vescovi che recentemente hanno concluso la loro esistenza terrena.
Domandiamo al Padre di ogni misericordia, che fedelmente hanno servito, di accoglierli nella pienezza della vita, mentre confidiamo sulla loro intercessione per noi e per il popolo a cui si sono dedicati.
Ecco i loro nomi: – S.E.
Mons.
Martino Gomiero, Vescovo emerito di Adria – Rovigo; – S.E.
Mons.
Piergiorgio Silvano Nesti, Arcivescovo emerito di Camerino – San Severino Marche; – S.E.
Mons.
Roberto Amadei, Vescovo emerito di Bergamo; – S.E.
Mons.
Carlo Chenis, Vescovo di Civitavecchia – Tarquinia; – S.E.
Mons.
Franco Gualdrini, Vescovo emerito di Terni – Narni – Amelia; – S.E.
Mons.
Vito De Grisantis, Vescovo di Ugento – Santa Maria di Leuca; – S.E.
Mons.
Andrea Cassone, Arcivescovo emerito di Rossano – Cariati; – S.E.
Mons.
Luigi Amaducci, Arcivescovo emerito di Ravenna – Cervia.
2.
La quaresima, la settimana santa e il tempo pasquale che abbiamo immediatamente alle spalle ci hanno aiutato non poco ad affrontare la vicenda della pedofilia e delle sofferenze ad essa connesse che anzitutto «vengono proprio dall’interno della Chiesa, dal peccato che esiste nella Chiesa» stessa (Benedetto XVI, Ai giornalisti nel volo Roma Lisbona, 11 maggio 2010).
Come discepoli del Signore, ci è stato chiesto di impegnarci anzitutto nella purificazione e nella penitenza, che è parola dura, prospettiva che si tende a scantonare.
Eppure, «sotto gli attacchi del mondo che ci parlano dei nostri peccati, vediamo che poter fare penitenza è grazia.
E vediamo che è necessario far penitenza, cioè riconoscere quanto è sbagliato nella nostra vita, aprirsi al perdono, prepararsi al perdono, lasciarsi trasformare» (Benedetto XVI, Omelia per i Membri della Pontificia Commissione biblica, 15 aprile 2010).
In altre parole, dovevamo vivere cristianamente la prova, dovevamo affrontare la sfida – pur se talora rappresentata come una generale e indistinta incolpazione – anzitutto nei termini di un esame di coscienza.
E perché non avessimo esitazione, Pietro si è messo avanti a noi e si è caricato, per primo lui, la croce.
Il Papa ci precede e con mano ferma e paterna non cessa di indicare alla Chiesa il proprio centro − Cristo −, a richiamarla con la parola e l’esempio, verso quella santità di vita che è vocazione di ogni battezzato e, innanzitutto, di ogni ministro di Dio.
Continuamente ci invita alla purificazione e alla conversione del cuore, ricordando con la sua chiara semplicità che «il vero nemico da temere e da combattere è il peccato, il male spirituale, che a volte purtroppo, minaccia anche i membri della Chiesa.
Viviamo nel mondo, ma non siamo del mondo (cfr Gv 17, 14).
Noi cristiani non abbiamo paura del mondo, anche se dobbiamo guardarci dalle sue seduzioni.
Dobbiamo invece temere il peccato […].
Perseguiamo insieme con fiducia questo cammino, e le prove, che il Signore permette, ci spingano a maggiore radicalità e coerenza” (Regina Caeli, 16 maggio 2010).
E che cosa dovevamo comprendere ancora meglio, aiutati magari da risultanze delle scienze psico-pedagogiche? Che le persone vittime di aggressione pedofilia portano a lungo le ferite interiori, che a volte, pur risalendo a molti anni addietro, restano ancora aperte.
Non dovevamo cioè esitare a riconoscere che gli abusi feriscono ad un livello personale profondo, per saper intuire quale fonte di disordine e di patimenti possa diventare una loro sottovalutazione.
In particolare, quando a prevaricare è un sacerdote, persona consacrata che ha una responsabilità educativa tutta speciale, della quale i ragazzi tendenzialmente si fidano.
Si spiega anche così il risentimento che emerge talora dopo decenni.
L’amarezza, quando non la rabbia, sono cioè in connessione con le attese tradite.
Ci si trova davanti a persone che chiedono principalmente di essere capite e accompagnate, con rispetto e delicatezza, lungo un itinerario paziente di recupero e di riconciliazione anzitutto verso se stesse e la loro storia.
Il nostro primo pensiero, la nostra prima attenzione è nei confronti delle vittime: ancora una volta esprimiamo a loro tutto il nostro dolore, il nostro profondo rammarico e la cordiale vicinanza per aver subito ciò che è peccato grave e crimine odioso.
Non genera in noi stupore il constatare come la sensibilità nei loro confronti sia cresciuta nel tempo: per la società in generale, ma anche per la comunità cristiana.
Così come c’è una consapevolezza più evoluta oggi per quel che riguarda il delitto di pedofilia, che può essere anche una patologia ed è certamente peccato terrificante.
Per questo, una persona che abusa di minori ha bisogno – ad un tempo – della giustizia, come della cura e della grazia.
Tutte e tre sono necessarie, e senza confusioni o mistificazioni tra loro.
La pena inflitta per il delitto non guarisce automaticamente né dà il perdono, come – all’inverso – il perdono del peccato non guarisce automaticamente la malattia né sostituisce la giustizia (cfr Benedetto XVI, Ai giornalisti cit.), e così la cura non sostituisce la pena, tanto meno può rimettere il peccato.
Queste evidenze sono oggi il frutto di una conoscenza più approfondita del dramma della pedofilia, che la Chiesa tuttavia in nessuna stagione ha inteso sottovalutare, sulla scorta del raggelante ammonimento del Vangelo: «Chi […] scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, gli conviene che gli venga appesa al collo una macina da mulino e sia gettato nel profondo del mare» (Mt 18, 6).
Ha infatti via via adeguato le disposizioni che andavano adottate alla sempre più avvertita conoscenza del fenomeno.
Le direttive chiare e incalzanti che da tempo sono impartite dalla Santa Sede confermano tutta la determinazione a fare verità fino ai necessari provvedimenti, una volta accertati i fatti.
L’episcopato italiano, dal canto suo, ha prontamente recepito tali disposizioni, intensificando lo sforzo educativo nei riguardi dei candidati al sacerdozio (cfr La formazione dei presbiteri nella Chiesa italiana, 2007) e  il rigore del discernimento servendosi anche delle migliori acquisizioni delle scienze umane, la vigilanza per prevenire situazioni non compatibili con la scelta di Dio e la dedizione al prossimo, una formazione permanente del clero adeguata alle sfide.
Siamo, in quanto Vescovi italiani, riconoscenti alla Congregazione per la Dottrina della Fede per l’indirizzo e il sostegno nell’inderogabile compito di fare giustizia nella verità, consapevoli che anche un solo caso in questo ambito è sempre troppo, specie se il responsabile è un sacerdote.
3.
Per gli incarichi che ha ricoperto e per la visione sempre lucida dei problemi che l’ha contraddistinto, Joseph Ratzinger ha svolto in questa presa di coscienza ecclesiale un ruolo costantemente propulsivo.
Intransigente con ogni sporcizia, egli ha propugnato erga omnes scelte di trasparenza e di pulizia.
Da lui la Chiesa ha imparato e impara a non avere paura della verità, anche quando è dolorosa e odiosa, a non tacerla o coprirla.
Questo, naturalmente, non significa che si debba subire – qualora ci fossero – strategie di discredito generalizzato o di destrutturazione ecclesiale.
E questo la comunità ecclesiale lo sa e lo vede; potremmo dire che l’ha sempre saputo, e per questo ha prontamente solidarizzato con lui di fronte alle insinuazioni assurde qua e là avanzate.
Da Prefetto della Dottrina della Fede, e con l’avallo di Giovanni Paolo II, ha operato per introdurre importanti cambiamenti nelle procedure sanzionatorie, con regole uniformi sia per quel che concerne la responsabilizzazione delle Diocesi sia per quanto riguarda la competenza del governo centrale, prevedendo anche, caso per caso, la rinuncia alla prescrizione (cfr  Sacramentorum sanctitatis tutela, del 30 aprile 2001).
Nello spirito di una corretta e concreta cooperazione, si è inoltre stabilito di dare sempre seguito alle disposizioni della legge civile, e per i casi più gravi si è scelta la via di una rapida dimissione dallo stato clericale, come si legge nella «Guida alle procedure di base riguardo alle accuse di abusi sessuali» della medesima Congregazione.
Anche senza ulteriori dichiarazioni, è questa la direttiva di riferimento più aggiornata, esplicita ed autorevole a cui ci atteniamo per il nostro discernimento di Vescovi, in ordine a qualsiasi intervento da condursi con determinatezza e tempestività.
Da Pontefice, ha condannato ripetutamente e con forza gli abusi sui minori, adottando un metodo scrupoloso di vigilanza, e incontrando in più occasioni gruppi di vittime.
Ha più volte raccomandato ai sacerdoti le esigenze della vita ascetica e, seppur con intendimenti più ampi, ha indetto l’Anno Sacerdotale.
La Lettera che nel marzo scorso egli ha indirizzato ai cattolici d’Irlanda è, per forza e coerenza interna, un testo unico nel suo genere che si è − non a caso − imposto all’attenzione del mondo, veemente e sereno ad un tempo, senza margini all’incertezza o alle minimizzazioni.
Insomma, le azioni di Benedetto XVI sono eloquenti almeno quanto le sue parole.
Noi Vescovi sappiamo di dover ringraziare il Papa per quanto ha fatto e sta facendo in ordine all’esemplarità della Chiesa e dei suoi ministri.
Egli è il Pastore all’altezza delle sfide, che affronta con credibilità e lucidità questo tempo difficile; è il maestro che parla della verità di Dio e rivela il giusto rispetto per la verità sugli uomini; è il testimone della carità, come della trasparenza che la carità esige.
Non c’è cedevolezza in lui nei riguardi di pressioni esterne, ma un’assunzione di responsabilità proporzionata al suo mandato.
Pur vivendo oggi in regime di libertà, esistono tuttavia «forme sottili di dittatura: un conformismo in base al quale diventa obbligatorio pensare come pensano tutti, agire come agiscono tutti.
E le sottili aggressioni contro la Chiesa, o anche quelle meno sottili, dimostrano come questo conformismo possa realmente essere una vera dittatura.
Per noi vale questo: si deve obbedire più a Dio che agli uomini» (Benedetto XVI, Omelia per i Membri…, cit.).
Che egli obbedisca a Dio, e viva la sua missione in una intimità speciale con il Signore, noi non abbiamo dubbi.
Egli stesso confidava ad un gruppo di Confratelli del Sud-America: «Sento che il centro e la fonte del ministero petrino sono nell’Eucaristia» (Discorso ai Vescovi della regione Norte 2 del Brasile, 16 aprile 2010).
Noi pure verifichiamo nell’Eucaristia quotidiana lo sguardo di fede che si deve al Papa, lì soprattutto alimentiamo il nostro vincolo di comunione con lui, lì rafforziamo il nostro affetto e la nostra preghiera per lui.
Al termine dell’incontro conviviale con il Collegio Cardinalizio, in occasione del quinto anniversario della sua elezione, egli confidava che «sente molto fortemente di non essere solo».
Sì, possiamo dire che, nel nostro piccolo, noi non lo lasciamo solo: questa peraltro è la condizione perché noi, a nostra volta, non siamo soli.
E non lo lasciano solo neppure le nostre comunità che almeno in due momenti – il 19 aprile e il 16 maggio – hanno voluto anche dimostrarlo pubblicamente.
Abbiamo ancora negli occhi il grande abbraccio con cui il laicato cattolico italiano, riempiendo Piazza San Pietro, ha inteso esprimere il proprio amore per il Papa: c’era soprattutto la gente semplice, in particolare si sono viste moltissime famiglie, giovani e meno giovani, che dalle varie regioni, anche lontane, dell’Italia si erano messe in strada, affrontando − dov’era necessario − dei sacrifici, per vedere il Papa, per stare un po’ con lui, per pregare insieme a lui e per lui, per le intenzioni del suo cuore di pastore universale.
Nessuna esibizione, ben inteso, ma un gesto consapevole e grato, e per questo anche festoso, come di figli con il padre.
A vedere le cose nella loro luce, com’è congeniale ai discepoli del Risorto, si è trattato di un evento di grazia, di una nuova incursione dello Spirito, dell’emergere ancora una volta di quel senso di Dio che torna a palpitare nel cuore dell’umanità, nonostante il secolarismo e la marginalizzazione della trascendenza.
Siamo per questo riconoscenti al nostro laicato che ha rilanciato in avanti una tensione spirituale che da sempre attraversa il cattolicesimo italiano.
Così come siamo grati alle molteplici Aggregazioni che la CNAL esprime come provvidenziale organo di conoscenza e di comunione.
Vogliamo anche dire che contiamo su ciascuna persona e ciascuna aggregazione per il compito di tessitura in atto nelle nostre Chiese.
4.
Dicevamo prima che c’è un’evoluzione rassicurante a proposito della sensibilità con cui generalmente si valuta il fenomeno della pedofilia, arrivando sempre più spesso a porre seri interrogativi circa la spersonalizzazione cui è soggetta l’infanzia nella rete del web come nella pubblicistica corrente, in ampi segmenti della comunicazione pubblicitaria come in taluni programmi televisivi.
E circa l’ipocrisia con cui spesso si giustifica ogni abuso, o si coprono inconfessabili scelte di svago e di turismo.
Possiamo noi forse dimenticare le segnalazioni allarmate di confratelli Vescovi dell’Estremo Oriente in merito al commercio obbrobrioso di cui anche nostri connazionali si rendono colà responsabili? Possiamo forse non ripetere l’allarme, da noi già lanciato, sulle multinazionali della pornografia che sono in agguato dietro l’adozione, in se stessa positiva per la televisione, del digitale terrestre? Senza qui evocare le posizioni estreme di chi nel mondo occidentale vorrebbe dare addirittura dignità politica alla pratica pedofila, si deve pur dire che ci si muove dentro ad una più generale contraddizione culturale ed etica.
C’è oggi infatti una esasperazione indubitabile circa la dimensione della sessualità, contrassegnata da una pervasività addirittura ossessiva, che non può – a lungo andare – non produrre effetti indesiderati sugli atteggiamenti delle persone, in particolare quelle psicologicamente più fragili ed esposte.
Operare perché le persone diventino vieppiù fragili significa sfrangiare e indebolire la società intera.
Qual è lo scopo? L’opinione pubblica come le famiglie devono sapere che noi Chiesa faremo di tutto per meritare sempre, e sempre di più, la fiducia che generalmente ci viene accordata anche da genitori non credenti o non frequentanti.
Non risparmieremo attenzione, verifiche, provvedimenti; non sorvoleremo su segnali o dubbi; non rinunceremo a interpretare, con ogni premura e ogni scrupolo necessari, la nostra funzione educativa.
Il mistero incomprimibile insito in ogni persona, sacrario inviolabile e vocazione alla trascendenza, è la bussola che ci guida, la regola che deve sempre condurci.
Qui è la nostra missione, rispetto alla quale non possiamo distrarci né deludere.
Sulla integrità dei nostri preti, del nostro personale religioso, dei nostri ambienti, noi non possiamo transigere perché essa sta al cuore delle nostre scelte di dedizione al Signore e di servizio ai fratelli.
E bisogna dire che i nostri sacerdoti, per come stanno in mezzo al popolo, per come operano, per come si spendono, sono la gloria della nostra Chiesa.
I casi di indegnità che fin qui sono emersi e – Dio non voglia – potranno ancora emergere, non possono oscurare il luminoso impegno che il clero italiano nel suo complesso, da tempo immemore, svolge in ogni angolo del Paese.
5.
Circostanza provvidenziale, nel nostro cammino, è stato l’Anno Sacerdotale, indetto a sorpresa dal Papa per il 150° anniversario della morte del Santo Curato d’Ars, e che si concluderà nel mese prossimo.
Dal 9 all’11 giugno infatti avrà luogo a Roma, da tutto il mondo, una grande convocazione di sacerdoti, una sorta di «cenacolo sacerdotale», dove non mancherà ovviamente la presenza del Santo Padre, e a cui sollecitiamo caldamente i nostri preti.
Pur scaturito da preoccupazioni squisitamente ecclesiali, questo Anno ha avuto una finalizzazione di carattere più plenario: contribuire a portare in luce, grazie alla via sacramentale, il misterioso disegno del Padre, fare di Cristo il cuore del mondo (cfr Benedetto XVI, Omelia per l’inaugurazione dell’Anno Sacerdotale, 19 giugno 2010).
Dapprima è stata l’occasione per ribadire che il punto di partenza del nostro interrogarci sul sacerdozio è la fede in Gesù Cristo, la cui novità non sta propriamente in qualche idea di moralizzazione o in una ideologia politica più convincente dell’altra, ma in una persona: il Dio che si fa uomo e attira l’uomo a sé.
Lo attira perché, nella potenza dello Spirito Santo, Gesù è l’Inviato del Padre per la salvezza dell’uomo stesso.
Gesù e la sua missione cioè sono totalmente relativi al Padre: «Il Figlio da se stesso non può fare nulla» (Gv 5,19).
Ma anche il sacerdote, a sua volta, non può «nulla» senza Gesù Cristo (cfr Gv 15,5).
Ed è precisamente questo «nulla», che i discepoli condividono con Gesù, ad esprimere in pari tempo la forza e la debolezza del ministero sacerdotale (cfr Benedetto XVI, All’Udienza del Mercoledì, 5 maggio 2010).
E qui si radica la consapevolezza da parte del sacerdote di agire in persona Christi Capitis, che non è una modalità per essere presente al posto di un assente: «Cristo non è mai assente, anzi è presente in un modo totalmente libero dai limiti dello spazio e del tempo, grazie all’evento della Risurrezione» (Benedetto XVI, All’Udienza del Mercoledì, 14 aprile 2010).
Il sacerdote cioè agisce non a nome proprio ma nella persona stessa di Cristo Risorto, che è il capo del corpo della Chiesa, e che si rende presente con la sua azione realmente efficace.
Grazie a questa presenza, il sacerdote fa quello che da solo non potrebbe fare, che lo supera e non è alla sua portata: consacrare il pane e il vino e rimettere i peccati.
Perciò il prete non è tale da se stesso né ad opera della comunità, ma solo per il sacramento, ossia da Dio.
Proprio questo non radicarsi in sé ma in Gesù Cristo diventa per lui il legame essenziale e personale, così come il donarsi agli altri diventa la sua auto-realizzazione e maturazione anche umana.
L’identità del sacerdote – tutta relativa a Cristo − è insomma costitutiva del suo essere interiore e ne nutre l’agire nel mondo.
Oltre a rinforzare la spina dorsale dell’identità, quest’Anno è stata l’occasione per precisare la logica che di fatto muove ogni sacerdote.
Occorre sempre di nuovo apprendere da Cristo ciò che conta; il personale baricentro infatti non è la propria soddisfazione umana: la vocazione è una dichiarazione d’amore e chiede una risposta d’amore.
Per questo al sacerdote è richiesto, attraverso una conversione continua, di stare con Lui e di camminare costantemente alla sua presenza: senza tale perno egli finisce per non resistere a lungo nel suo ministero, in particolare oggi, quando la pressione esterna è così tenace.
Se persevererà, però, egli sperimenterà sempre più che questo non mettere al centro se stesso è il fattore veramente liberante e gratificante (cfr Benedetto XVI, Omelia per la Beatificazione, 11 ottobre 2009).
Gli è richiesto come ad ogni cristiano, ma a lui in modo specialissimo perché pastore, di essere “nel” mondo ma non “del” mondo.
Se diventiamo del mondo, invero, con l’illusione di essergli più vicini, in realtà lo abbandoniamo e non lo serviamo.
Essere veramente nel mondo, infatti, richiede un’alterità, esige che siamo “davanti” al mondo con un volto e un dono da offrire.
Essere del mondo, invece, significa non avere più nulla da dire per la sua salvezza, e quindi – in fondo – non amarlo davvero.
Accogliere liberamente il dono del celibato e percorrerne il sentiero non implica alcuna mutilazione psicologica o spirituale, né tradisce visioni inadeguate o immature della sessualità umana.
In realtà, vissuto con lo sguardo fisso in Gesù e con cuore indiviso per il bene della comunità, il celibato richiesto dalla Chiesa latina è un’esperienza di amore realizzante che fa fiorire l’umanità del sacerdote e la trasforma in una dedizione incondizionata, che in maniera decisiva contribuisce alla responsabilità della comunione, alla possibilità dunque che i fratelli «si aggrappino alla cordata», in ultima istanza alla bellezza divina della Chiesa stessa.
«Di questo essere nell’“insieme della cordata” fa parte anche il non comportarsi da padroni della Parola di Dio, il non correre dietro un’idea sbagliata di emancipazione.
L’umiltà “dell’essere con” è essenziale per l’ascesa» (Benedetto XVI, Omelia per la XXV Giornata cit.), come è essenziale per saper promuovere in mezzo al popolo di Dio l’atteggiamento proprio dei costruttori della Chiesa, secondo l’ideale del Concilio Vaticano II.
Proprio in questo orizzonte, guardando con affetto e stima i nostri sacerdoti, noi sentiamo di dover far nostra l’esortazione di Benedetto XVI ai Vescovi portoghesi, là dove diceva: nell’Anno Sacerdotale che volge al termine «riscoprite, cari Fratelli, la paternità episcopale soprattutto verso il vostro clero.
Per troppo tempo si è relegata in secondo piano la responsabilità dell’autorità come servizio alla crescita degli altri, e, prima di tutti, dei sacerdoti» medesimi (Discorso all’Episcopato del Portogallo, Fatima, 13 maggio 2010).
Dopo aver rilevato «l’ermeneutica della continuità» che caratterizza, oltre che la Chiesa, anche il sacerdozio cattolico (cfr Discorso al Convegno promosso dalla Congregazione per il clero, 12 marzo 2010), Benedetto XVI ha in più occasioni indicato una serie di Santi quali modelli per i sacerdoti di oggi.
Nell’800, ad esempio, Torino fu una fucina fulgida di tali vocazioni, basti citare san Giovanni Bosco, o san Leonardo Murialdo, oppure san Giuseppe Cottolengo (cfr All’Udienza del Mercoledì, 28 aprile 2010), la cui opera il Papa stesso ha visitato nel corso del recente viaggio nel capoluogo piemontese.
Com’è noto, egli ha inteso per l’occasione unirsi «con particolare intensità» ai tanti pellegrini che dal 10 aprile hanno voluto raggiungere quella città per venerare la sacra Sindone, singolare «icona scritta col sangue, sangue di un uomo flagellato, coronato di spine, crocifisso e ferito al costato destro […] da un colpo di lancia romana» (Alla Venerazione della Sindone, 2 maggio 2010).
«Icona del Sabato santo», l’ha chiamata ancora il Papa, «icona del mistero», icona «dell’impensabile», icona di quella «solidarietà più radicale» che Cristo ha realizzato, condividendo con noi «non solo il nostro morire, ma anche il nostro rimanere nella morte».
La sacra Sindone – ha aggiunto ancora il Papa – «si comporta come un documento fotografico, dotato di un positivo e di un negativo.
E in effetti è proprio così […] l’Amore è penetrato “negli Inferi”: anche nel buio estremo della solitudine umana più assoluta noi possiamo ascoltare una voce che ci chiama e trovare una mano che ci prende e ci conduce fuori […].
Nell’ora dell’estrema solitudine non saremo mai soli” (ib).  Passio Christi.
Passio hominis  recitava il motto di questa decima Ostensione torinese.
Consolante il concorso di pellegrini – ben oltre i due milioni – che ha contrassegnato l’iniziativa promossa con grande cura dal nostro confratello cardinale Severino Poletto.
La Chiesa, che «con occhio d’aquila» sa spingersi e ghermire la luce inaccessibile del mistero divino, è ancora una volta quella vissuta dalla gente del popolo.
Ed è per lo più questa Chiesa, assunta e testimoniata dai fedeli semplici, a sottolineare con grande persuasività la dimensione propria dell’incarnazione.
6.
È noto a tutti i Confratelli come in questa Assemblea episcopale si dovranno valutare – e, nel caso, approvare – gli Orientamenti pastorali per il decennio 2011-2020 che già si era deciso di incentrare sulla dimensione educativa.
Non c’è chi non possa cogliere come in questo tipo di scelta la Chiesa italiana intenda continuare, nonostante la complessità dei problemi in parte anche accennati, a interpretare la propria missione senza complessi e senza menomazioni.
Non solo: riteniamo come Chiesa che, se c’è da percorrere un confronto e  uno scambio sinergico con la comunità civile e le sue diverse istituzioni, non si possa optare per un’incombenza di scarso momento, ma ci si debba orientare senz’altro verso un orizzonte cruciale della vita di oggi.
La sfida educativa è cimento adeguato.
Peraltro, osservava il Papa lo scorso anno, l’educazione è «un’esigenza costitutiva e permanente della vita della Chiesa» (Discorso all’Assemblea della CEI, 28 maggio 2009), tant’è che si può, senza nulla forzare, leggere sotto questa angolatura diversi momenti del nostro recente impegno come Conferenza: si pensi al convegno «Testimoni digitali» sul rapporto tra i cattolici e il nuovo ambiente mediatico segnato dal web, o alla lettera Annuncio e catechesi per la vita cristiana pubblicata in occasione del quarantesimo anniversario del «Documento base sul Rinnovamento della catechesi».
Si pensi soprattutto al documento della nostra Conferenza Per un Paese solidale.
Chiesa italiana e Mezzogiorno, nel quale si mette in evidenza che il fattore principale dello sviluppo anche socio-economico sono la persona umana, la sua vitalità e le relazioni sociali che la contraddistinguono.
La stessa Settimana sociale, in calendario per il 14-17 ottobre prossimo a Reggio Calabria, sul tema: «Cattolici nell’Italia di oggi: un’agenda di speranza», ha uno spiccato risvolto educativo.
Ovvio che alla luce della scelta che stiamo per compiere circa la colorazione del prossimo decennio, si dovrà nel prossimo futuro evitare con cura di perdersi in eccessive frammentazioni e privilegiare invece lo sforzo di confluenza dei singoli momenti verso un ideale di sintesi, a servizio di un’autentica humanitas.
Ben sappiamo che educare è aiutare l’altro a introdursi in modo critico e responsabile alla realtà intera.
Di questa realtà ognuno è parte integrante e irripetibile.
I giovani «sentono l’esigenza di accostarsi ai valori autentici quali la centralità della persona, la dignità umana, la pace e la giustizia, la tolleranza e la solidarietà.
Ricercano anche, in modi a volte confusi e contradditori, la spiritualità e la trascendenza, per trovare equilibrio e armonia» (Benedetto XVI, Saluto al Concerto per il V anniversario di Pontificato, 29 aprile 2010).
Ma questo impegna noi adulti a superare incertezze e reticenze, per recuperare una nozione adeguata di educazione che si avvicini alla paideia, cioè ad un processo formativo articolato ma mai evasivo rispetto alla verità dell’essere, ad una capacità di distinguere ciò che è bene da ciò che è male, ad una concreta disciplina dei sentimenti e delle emozioni.
Bisogna, in altre parole, che si affermi una generazione di adulti che non fuggano dalle proprie responsabilità perché disposti a mettersi in gioco, a onorare le scelte qualificanti e definitive, a cogliere – loro per primi – la differenza abissale tra il vivere e il vivacchiare.
Se per un istante si pone mente infatti agli episodi di certa cronaca scolastica o a taluni fatti di violenza che si verificano purtroppo anche in famiglia come nei piccoli centri, venendo magari facilmente liquidati come raptus mentre con ogni evidenza si tratta anzitutto di vistosi deficit nella filiera educativa, allora si comprende come si sia oramai in una situazione in cui il vuoto di valori sfocia immediatamente, senza più stadi intermedi, nel disagio se non nella disintegrazione sociale.
Guai però se in simili contesti, che sembrano in espansione, vengono ipotizzate risposte semplicemente disciplinari o emergenziali; la sfida educativa non ammette surrogati: se va disertata è la comunità che – a segmenti – si decompone.
Come dire che l’impegno volto all’educare – di cui gli Orientamenti pastorali per il prossimo decennio dovranno essere una declinazione esemplare – è qualcosa di decisivo sotto il profilo non solo evangelico e dunque ecclesiale, ma anche storico, sociale e politico.
7.
C’è all’orizzonte un evento di cui si sta discutendo, a tratti anche animatamente, e che ci interessa molto da vicino.
È il 150° anniversario dell’Unità d’Italia.
Che sia un appuntamento che merita di essere avvertito, già s’è cercato di dirlo nell’incontro – uno dei primi su questo tema a livello nazionale – che ha avuto luogo a Genova il 3 e 4 maggio scorso anche in preparazione alla Settimana Sociale di ottobre.
Per l’occasione, mi ero permesso di assicurare che come Chiesa non risparmieremo energie morali né culturali al fine di partecipare al significativo anniversario, giacché questa è la condizione per poter a nostra volta chiedere che esso sia da tutti vissuto con lo sguardo rivolto in avanti, e per questo – se uniamo fedeltà e riforme – in grado di aiutare i cittadini e le famiglie, le associazioni e le istituzioni che in questa stagione si stanno spendendo per la ripresa del Paese.
Non dunque una celebrazione lasciata ai margini, quasi un atto dovuto staccato dalla vita comunitaria e dagli sforzi che essa richiede, ma collocata dentro a questo fluire, come a rinvigorirlo, assegnando freschezza e luminosità ai traguardi comuni da conseguire.
Questo è dunque il nostro augurio: il dibattito che prenderà vita scaturisca da una coscienza storica avvertita, in grado di far confluire e infine ragionevolmente comporre in una cornice più ampia i punti di vista, le sensibilità, le esperienze.
L’unità del Paese resta una conquista e un ancoraggio irrinunciabili: ogni auspicabile riforma condivisa, a partire da quella federalista, per essere un approdo giovevole, dovrà storicizzare il vincolo unitario e coerentemente farlo evolvere per il meglio di tutti.
Per parte nostra, crediamo meriti attenzione l’appunto di chi annota che l’anniversario è significativo non perché l’Italia sia un’invenzione di quel momento, ossia del 1861, ma perché in quel momento, per una serie di combinazioni, veniva a compiersi anche politicamente una nazione che da un punto di vista geografico, linguistico, religioso, culturale e artistico era già da secoli in cammino.
A nessuno è certamente ignoto che cosa comportò il realizzarsi del disegno di uno Stato finalmente unitario per la Chiesa cattolica, cioè per quella realtà storico-religiosa che, rappresentata dalla barca di Pietro, assai presto approdò alla foce del Tevere, nella capitale dell’impero.
E lì, sulla tomba di Pietro, stabilì la cattedra del primato espandendosi via via nelle terre vicine e lontane, mentre altri Apostoli raggiungevano nuove comunità e nazioni della terra.
Certamente la Pentecoste, dunque l’impulso universale dato al Vangelo di Cristo, precede la nascita della Chiesa di Roma, ma «il nome di Roma appare nelle intenzioni divine», dirà in un memorabile discorso, all’indomani del primo centenario dell’unità, Giovan Battista Montini, se è vero com’è vero che Pietro ha fatto di Roma il cardine del suo ministero e che Paolo, in una visione notturna, riceve dal Signore un preciso ammonimento: «Coraggio… è necessario che tu dia testimonianza anche a Roma» (At 23,11) (cfr Roma e il Concilio, Campidoglio, 10 ottobre 1962).
La storia che seguì è a tutti nota, come tutti conoscono le annose traversie che si è soliti condensare nella «questione romana».
Si potrebbe dire, tuttavia, che mai come in quella stagione la Provvidenza guidò gli eventi.
È vero: a nessun altro popolo è stato domandato, in termini storici, ciò che è stato richiesto al popolo italiano.
Ma anche nessun altro popolo ha ricevuto, in termini spirituali e culturali, quello che ha ricevuto e riceve l’Italia.
Il Presidente Napolitano, nel telegramma che mi ha inviato per il convegno genovese, non ha esitato a riconoscere «il grande contributo che la Chiesa e i cattolici hanno dato, spesso pagandone alti prezzi, alla storia d’Italia e alla crescita civile del Paese».
8.
Di fronte a tante obiezioni e a talune polemiche che ci rincorrono come italiani, verrebbe da dire: accettiamoci, amici, per quello che siamo, a partire dalla nostra geografia e dalla nostra storia, dalla nostra tradizione e dalla nostra cultura.
È saggio confrontarsi con gli altri, è bene cercare di imparare da tutti, ma è sciocco illudersi che l’emancipazione coincida con la fuga da se stessi, immaginarsi nelle condizioni altrui.
Osservava qualche settimana fa lo stesso Presidente della Repubblica: «È giusto ricordare i vizi d’origine e gli alti e bassi di quella costruzione, mettere a fuoco le incompiutezze dell’unificazione […] e riportare in luce filoni di pensiero e progetti che restarono sacrificati nella dialettica del processo unitario» (Intervento per il 150° anniversario della Partenza dei Mille, 5 maggio 2010).
Confrontiamoci, dunque, da persone adulte, in un dialogo sereno e intelligente con la consapevolezza che la verità giova al Paese.
Se oggi si ringrazia Iddio per l’assetto conseguito e la pacificazione ormai raggiunta, non si può espungere quello che, nella religione, si presenta come un elemento connaturato al nostro umanesimo e concorre a definire la nostra missione nel mondo.
Ben lo esemplificano da una parte i nostri missionari e dall’altra le nostre forze di pace presenti in diverse zone del pianeta.
La sfida semmai è come continuare a farne, nella modernità, un coefficiente di creatività e di sviluppo.
La questione in particolare dei rapporti tra Stato e Chiesa, e di conseguenza l’esplicazione di una autentica laicità, è stata per noi italiani una vicenda forse un po’ più complessa che per altri, costata dibattiti e lacerazioni che hanno tormentato le coscienze più vigili; ma oggi − per i termini in cui è definita (cfr Accordo tra la Santa Sede e la Repubblica italiana di modifica al Concordato Lateranense, 18 febbraio 1984) − essa si presenta come un approdo di generale soddisfazione.
Superare le contrapposizioni che residualmente affiorano significa accettare che l’unità non ha rappresentato il prevalere di un disegno politico su altri disegni; certo anche questo è avvenuto, ma è stata soprattutto il coronamento di un processo ardito e coerente, l’approdo ad un risultato assolutamente prezioso, che impone tuttavia a ciascuna componente un’autocritica onesta e proporzionata alla quota di fardello caricato − magari involontariamente − sul passo comune.
È «l’interiore unità» e la consistenza spirituale del Paese ciò che a noi Vescovi oggi preme, e il servizio a cui in umiltà intendiamo applicarci, per il bene comune.
Certi che i credenti in Cristo continueranno a sentirsi, oggi come ieri, oggi come nel 1945 all’uscita dalla guerra, oggi come nel 1980, nella fase più acuta del terrorismo, sentirsi – dicevo – tra i soci fondatori di questo Paese.
Desideriamo, per la nostra parte, contribuire a far sì che i 150 anni dall’unità d’Italia si trasformino in una felice occasione per un nuovo innamoramento dell’essere italiani, in una Europa saggiamente unita e in un mondo equilibratamente globale.
L’Italia contenta di sé, cerca spontaneamente di superarsi e di stringere relazioni mai anonime con tutti.
Bisogna per questo alimentare la cultura dello stare insieme, decidere di volersi reciprocamente più bene.
Niente, nel bagaglio che ci distingue, può essere così incombente da annullare il nostro vincolo nazionale.
Occorre, nello stesso tempo, essere lucidi quanto allo «strumento» moderno dello Stato che, per i compiti oggi esigiti, va non solo preservato ma affinato e reso sempre più efficiente.
Per questo servono visioni grandi per nutrire gli spiriti, vincendo paure o resistenze, e recuperando il gusto di pensarci come un insieme vivo e dinamico, consapevole e grato per la propria identità, e per questo accogliente e solidale con quanti approdano con onestà e impegno alla ricerca di un futuro più umano.
La sentenza, emessa il 3 novembre scorso dalla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo, a proposito dell’esposizione del Crocifisso nelle scuole italiane, non poteva essere accolta che con lo stupore dell’incredibilità.
Confidiamo in una lungimirante rettifica in sede di ricorso nel prossimo mese di giugno, in forza anche delle ragioni che in modo autorevole e competente sono state espresse in diverse sedi, essendosi trattato di un pronunciamento che non solo contraddice la giurisprudenza consolidata della stessa Corte, ma trascura del tutto – fino a negarle – le radici iscritte nelle costituzioni, nelle leggi fondamentali sulla libertà religiosa e nei concordati della stragrande maggioranza dei Paesi membri.
C’è da dire che la presenza del Crocifisso nei luoghi pubblici risale, per l’Italia, alla stagione risorgimentale e non certo come fatto confessionale ma come elemento fondato sulla tradizione religiosa e sui sentimenti del popolo italiano.
La discussa sentenza è con ogni evidenza il frutto di un malinteso senso della laicità; è segnale del tentativo di affermarsi di un’interpretazione della laicità stessa preclusiva del fatto religioso, che verrebbe relegato nel privato, avendo negata ogni visibilità sociale, quale presunto fattore di divisione.
Ossia tutto il contrario di ciò che positivamente il Crocifisso è: guardandolo, infatti, vediamo «quanto grande è la dignità umana e il valore dell’uomo» (Benedetto XVI, All’Udienza del Mercoledì, 10 febbraio 2010).
9.
Puntando al futuro, ci sono due realtà che giudichiamo fondanti e sono infatti strutturalmente strategiche.
Anzitutto, la famiglia fondata su quel bene inalterabile che è il matrimonio tra un uomo e una donna, che va difeso – come bene ha fatto la Corte Costituzionale con l’importante sentenza resa nota il 14 aprile scorso – e continuamente preservato quale crogiuolo di energia morale, determinante nel dare prospettive di vita al nostro presente.
Eppure l’Italia sta andando verso un lento suicidio demografico: oltre il cinquanta per cento delle famiglie oggi è senza figli, e tra quelle che ne hanno quasi la metà ne contemplano uno solo, il resto due, e solamente il 5,1 delle famiglie ha tre o più di tre figli.
Sembra inutile evocare scenari preoccupanti, e certo non incoraggiante è ripetere previsioni peraltro già note sotto il profilo sociale e culturale.
Urge una politica che sia orientata ai figli, che voglia da subito farsi carico di un equilibrato ricambio generazionale.
Ci permettiamo di insistere con i responsabili della cosa pubblica affinché pongano in essere iniziative urgenti e incisive: questo è paradossalmente il momento per farlo.
Proprio perché perdura una condizione di pesante difficoltà economica, bisogna tentare di uscirne attraverso parametri sociali nuovi e coerenti con le analisi fatte.
Il quoziente familiare è l’innovazione che si attende e che può liberare l’avvenire della nostra società.
Da parte nostra ci impegniamo affinché nella pastorale familiare, e in quella volta alla preparazione al matrimonio, si operi per radicare ancor più la coscienza dei figli come doni che moltiplicano il credito verso la vita e il suo domani.
L’altro perno essenziale è dato dal lavoro, che è la risorsa, anzi la quota parte minima di capitale fornita dalla società a ciascun cittadino, in particolare ai giovani alla ricerca del primo impiego, perché possano inserirsi e, trovando senso in ciò che fanno, sentirsi utili quali attori di crescita e di sviluppo.
È questo lavoro che spesso oggi latita, creando situazioni di disagio pesante nell’ambito delle famiglie giovani e meno giovani, in ogni regione d’Italia, e con indici decisamente allarmanti nel Meridione.
Il lavoro, in sostanza, è tornato ad essere, dopo anni di ragionevoli speranze, una preoccupazione che angoscia e per la quale chiediamo un supplemento di sforzo e di cura all’intera classe dirigente del Paese: politici, imprenditori, banchieri e sindacalisti.
La Chiesa – come si sa – fa tutto ciò che può inventando anche canali nuovi di aiuto, senza che i precedenti siano nel frattempo messi fuori uso, ma è ovviamente troppo poco rispetto ai bisogni.
Il protrarsi della crisi economica mondiale si sta rivelando sorprendentemente tenace, come dimostrano gli esiti cui è pervenuto qualche Paese della stessa Unione Europea.
I provvedimenti ultimamente adottati in sede comunitaria hanno da un lato − pare − arrestato lo scivolamento verso il peggio, dall’altra però stanno imponendo nuove ristrettezze a tutti i cittadini.
Dinanzi a questo scenario non possiamo da parte nostra non chiedere ai responsabili di ogni parte politica di voler fare un passo in avanti, puntando come metodo ad un responsabile coinvolgimento di tutti nell’opera che si presenta sempre più ardua.
I ruoli sono assegnati dalla libera determinazione dei cittadini, ma il concorso delle volontà in vista di risultati più efficaci è un obiettivo che va saggiamente e tenacemente perseguito.
Lo pretende il rispetto che si deve ai cittadini.
È noto infatti che, se non mancano gli indici che danno ragionevolmente concretezza a previsioni anche ottimiste, nelle pieghe di questa evoluzione molti sono in sofferenza.
Si dice, tra l’altro, che l’uscita dalla crisi non significherà nuova occupazione, il che pare una ragione decisiva per procedere, senza ulteriori indugi, a riforme che producano crescita, mettere il più possibile in campo risorse che finanzino gli investimenti, in altre parole potenziare le piccole e medie industrie, metterle in rete anche sul piano decisionale, qualificare il settore della ricerca e quello turistico, potenziare l’agricoltura e l’artigianato, sveltire la distribuzione, facilitare il mondo cooperativistico.
Bisogna cioè rinforzare i soggetti che meglio esprimono le qualità del territorio e più possono assorbire e rimotivare leve del lavoro.
Grande vicinanza e considerazione vogliamo esprimere alle Forze dell’ordine e alle Autorità inquirenti per la formidabile azione di contrasto che stanno svolgendo contro le cosche malavitose e la loro pervasiva ramificazione su tutto il territorio nazionale e oltre.
I risultati importanti che a ripetizione si stanno ottenendo, e che mettono a frutto una perizia e una disponibilità al sacrificio meritevoli di ogni encomio, se da una parte ci dicono quanto il malaffare sia radicato nel nostro Paese, dall’altra ci avvertono che il male, anche quello più organizzato, non è imbattibile.
Il rinnovamento morale che continua a generarsi dalle comunità cristiane, e che espone talora i Confratelli del Meridione quale bersaglio di facinorosi, ha tutto il nostro incoraggiamento e il nostro sostegno.
Parimenti sentiamo di dover esprimere, come Pastori, viva partecipazione al lutto per la morte di due militari caduti in un proditorio attentato mentre svolgevano il loro servizio per la sicurezza e la pace della popolazione afgana.
A loro, come alle loro famiglie e ai loro compagni di missione, assicuriamo il nostro affetto e la nostra preghiera.
Venerabili Padri, termino qui il mio dire, ringraziando per il fraterno ascolto e invitandoci a tenere lo sguardo aperto sull’insieme del mondo che sta oggi nuovamente trattando sulla non proliferazione delle armi nucleari, e dunque sugli scenari più ampi in cui pure la Chiesa è presente e gli uomini sono spesso in sofferenza per i diritti fondamentali calpestati, la libertà di coscienza conculcata, l’ingiustizia eretta a sistema.
La situazione in atto nella Thailandia non può non preoccuparci.
Anche i cattolici sono troppo spesso in grande tribolazione, fino ad essere – come in Iraq – vittime di una «pulizia confessionale» intollerabile che va arginata e superata.
Noi ci sentiamo in comunione con tutti, e invitiamo le nostre Chiese a respirare al ritmo del mondo, per saperlo sorprendere ad ogni varco in cui è possibile intessere colloqui di amicizia e di salvezza.
Ci assista nei nostri lavori lo Spirito Santo, lo chiediamo per l’intercessione di Maria, «cuore spirituale» della comunità cristiana (Benedetto XVI, Regina Caeli, 9 maggio 2010), invocata in questo mese di maggio in ogni santuario e capitello delle nostre contrade, e per l’intercessione dei Santi nostri protettori e patroni delle nostre Diocesi.
Grazie.
Angelo Card.
Bagnasco  Zamagni: il federalismo è cattolico Applicare subito il quoziente familiare e creare nuova occupazione con l’impresa sociale.
Per l’economista Stefano Zamagni, docente e presidente dell’Agenzia delle Onlus, le riflessioni del cardinale Bagnasco offrono diversi spunti per una politica di riforme.
A partire dal federalismo, che sturzianamente è nel dna dei cattolici.
La crisi ha creato un’emergenza lavoro senza precedenti, destinata ad acuirsi perché la ripresa rischia di tradursi in una crescita senza occupazione.
Il cardinale indica la via di una rete di piccole e medie imprese e del sostegno alle cooperative.
Che ne pensa? La Chiesa italiana ha offerto un contributo eccezionale ai disoccupati e conosce bene la realtà.
L’emergenza non è dovuta solo alla crisi, che l’ha accentuata, bensì alla terza rivoluzione industriale infotecnologica.
Che ci ha portati da un mercato del lavoro costruito sul modello piramidale a uno a clessidra, dove le aziende in gara sui mercati globali scelgono personale molto specializzato oppure poco formato.
E al massimo assorbiranno il 70% della forza lavoro italiana, a meno che si decida di abbassare i salari.
In questo quadro occorre che la politica sostenga i giovani e i lavoratori con livello medio di istruzione.
In quali forme? Ad esempio sostenendo cooperative e imprese sociali che possono lavorare nel mercato dei servizi alla persona oppure piccole imprese.
Per fare questo, lo dice bene Bagnasco, occorre uno sforzo bipartisan.
Per esempio, per completare la riforma del libro primo e titolo secondo del Codice civile che regolamenta l’impresa sociale.
Era già avviata, poi si è arenata in Parlamento.
E con l’istituzione di una borsa sociale per finanziare cooperative e imprese con capitali privati sganciandoli, in questa fase di tagli della spesa pubblica, dalle convenzioni con l’ente locale.
Questi provvedimenti a sostegno di domanda e offerta, con pochi investimenti farebbero ripartire la crescita con occupazione.
Le misure assistenzialistiche ai poveri sono invece poco efficaci.
Per uscire dal «suicidio demografico» il presidente della Cei chiede di introdurre il quoziente familiare.
È possibile? Certo, anzi bisogna chiedere di più.
Posso in parte condividere le critiche degli oppositori di questa rivoluzione fiscale.
Vi sono soluzioni in teoria meno costose per l’erario per diminuire le tasse al soggetto produttore di reddito con figli a carico quali detrazioni fiscali e controlli rigidi.
Ma questo in Italia non è sostenibile perché richiederebbe contribuenti molto onesti e nuove assunzioni di controllori, oggi impossibili.
Allora applichiamo subito il quoziente familiare se vogliamo dare una prospettiva al Paese.
Ma è condizione necessaria, non ancora sufficiente.
Che cosa manca? Studi economici dimostrano che la natalità nel Belpaese cresce se si aumenta il reddito dei genitori con il quoziente e si ripensano gli orari produttivi di madri e padri in base alle esigenze famigliari.
Anche questo richiede scelte bipartisan.
Italia unita valore irrinunciabile per la riforma federale.
Una nuova organizzazione dello Stato aiuterà lo sviluppo? Sono per il federalismo solidale, a patto che non diventi una scusa per frenare il federalismo.
Ha ancora una volta ragione il presidente della Cei, noi cattolici siamo soci fondatori dello Stato unitario.
Ma il federalismo è nel nostro dna, basta pensare a don Sturzo.
Dovremmo trovare la forza di guidare la riforma federale con la solidarietà e la sussidiarietà, che abbiamo introdotto soprattutto noi nella nuova Costituzione nel 2001.
È questa l’unica speranza di sviluppo per il 33% degli italiani che vive nel Mezzogiorno.
La Chiesa e l’orizzonte della speranza Impegni ai quali non si può venir meno Densa, come sempre, la prolusione del cardinale Angelo Bagnasco alla 61ª Assemblea Generale della Cei.
Le parole che egli ha pronunciato si muovono tutte nell’orizzonte della speranza: non la speranza, a volte dolce, ma ingenua di chi cerca di rimuovere le sofferenze del presente, augurando a sé e agli altri un generico futuro “migliore”, ma la speranza cristiana, di chi sa che sperare in modo autentico significa mettere alla prova se stessi con un serio e fiducioso operare nel mondo.
Molteplici i temi trattati nella prolusione.
A molti apparirà predominante, e non a torto, quello della pedofilia, affrontato dal cardinale in modo limpido ed esplicito e soprattutto in stretta connessione con le indicazioni che provengono dagli insegnamenti e dalle indicazioni pastorali del Papa.
Il tema è conturbante, ma la Chiesa non deve esitare ad affrontarlo; non è del mondo che il cristiano deve aver paura, ma del peccato e delle sue tragiche conseguenze, nella consapevolezza che la più autentica risposta che è possibile dare al peccato, cioè la penitenza, appartiene anche essa all’ordine della grazia.
Più che sulla pedofilia, sembra però opportuno soffermarsi oggi su altri due temi, non perché siano più rilevanti di questo, ma perché in essi, più ancora che in quello della pedofilia, siamo messi in grado di percepire la specificità dell’approccio ecclesiale a questioni che possiedono una rilevanza non solo antropologica, ma più spiccatamente “civile”; questioni, cioè, per le quali alcuni potrebbero pensare che un intervento da parte della Chiesa debba essere ritenuto inessenziale, se non addirittura superfluo.
Non è così.
La prima questione è quella demografica.
Il presidente della Cei non rinuncia ai toni che gli sono propri, caratterizzati da una pacata fermezza.
Ma non è possibile sottovalutare la forza di un’affermazione che egli fa, quella secondo la quale l’Italia sta andando «verso un lento suicidio demografico».
All’affermazione seguono le cifre che le danno sostanza: oltre il cinquanta per cento delle famiglie oggi è senza figli; tra quelle che ne hanno, la metà ha un figlio solo; solo il cinque per cento delle famiglie con prole ha tre o più figli.
Il cardinale non usa molte parole per spiegare il significato antropologico di questi dati: se viene meno la coscienza del valore che ha l’aver figli viene inevitabilmente meno la percezione del valore della vita stessa.
I figli, dice Bagnasco, sono «doni che moltiplicano il credito verso la vita e il suo domani»; essi sono, in altre parole, il segno che la vita ha un senso e che ha un senso lottare per darle un senso.
Il necessario e doveroso impegno dello Stato nel sostegno delle famiglie non va visto quindi solo in chiave economico-politica, ma in un orizzonte più ampiamente antropologico.
L’altra grande questione affrontata è quella dell’ormai prossimo anniversario dell’unità d’Italia: un tema sul quale, dice il presidente della Cei, è doveroso confrontarsi «da persone adulte».
Che l’ unità del Paese sia una conquista irrinunciabile è un dato acquisito, così come è da ritenere acquisito che l’unità non vada interpretata come il prevalere di un progetto su altri progetti, ma come il «coronamento di un processo», di un lungo processo nazionale, culturale, artistico, e soprattutto religioso; un processo di cui i cattolici sono stati protagonisti, al punto da poterli qualificare – con un’ espressione a suo modo ardita – «tra i soci fondatori di questo Paese».
Anche le questioni più laceranti che hanno tormentato tante coscienze nel corso del processo risorgimentale sono ormai ricomposte: l’esplicita citazione dei nuovi accordi concordatari tra Stato e Chiesa del 1984 serve a sottolineare come, anche in questo ambito, la «pacificazione» sia ormai completamente raggiunta.
Tutte queste osservazioni, avverte però il cardinale, vanno intese non come rivolte verso il passato, ma come aperte al futuro, perché il nostro «stare insieme» si radichi sempre di più nella volontà di «volersi reciprocamente più bene».
Questo è il grande insegnamento, nello stesso tempo “politico” e “meta-politico” che, tramite le parole di Bagnasco, la Chiesa rivolge a tutti i cittadini: il nostro vincolo nazionale non si fonda su meri interessi, o su accordi politico-procedurali, né meno che mai sulla condivisione di sentimenti nazionalistici o narcisistici.
Esso si fonda sulla consapevolezza che esiste un bene comune di noi italiani, un bene che va costantemente promosso attraverso riforme concrete e intelligenti.
A questo impegno i cattolici non vogliono, né possono venir meno.
Francesco D’Agostino

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