Io sono con te

Nella Nazareth di duemila anni fa.
Una madre e un figlio.
Giocano, sorridono, si guardano, si abbracciano.
Guido Chiesa, dopo una serie, pur breve, di film politicamente e socialmente impegnati, torna al cinema con Io sono con te, per raccontare la storia di Maria e del figlio Gesù.
Un lavoro pensato, voluto a tutti i costi.
Abbiamo visto in anteprima il film che sarà in concorso al Festival del cinema di Roma e la sensazione è quella che sia frutto di una sua esigenza spirituale vera.
“Nicoletta Micheli, mia moglie e autrice, insieme a me, della sceneggiatura – ci dice il regista – si è dovuta interrogare, diventando madre, su tanti nuovi problemi e sentimenti.
Ci siamo così imbattuti nella lettura dei Vangeli dell’infanzia:  ai nostri occhi, all’epoca di non credenti, è stata una sorta di epifania.
Mi sono accorto, a posteriori, che molti vivono il confronto con il religioso come se fosse qualche cosa di magico, di evanescente, non legato alla realtà quotidiana e concreta delle nostre vite.
All’inizio, ho lavorato alla sceneggiatura più con un’adesione di tipo razionale, come se fosse un percorso intellettuale, emotivo.
Alla fine è diventato un cammino di fede e tutto si è ricomposto”.
L’intervista Perché questo film è così importante per la sua vita e per quella di molti? Perché, semplicemente, propone un modello di relazione madre-figlio, genitori-bambini, che è universale.
Io sono con te riguarda tutti, sia che siamo genitori, sia che siamo figli, perché tutti siamo stati piccoli.
Ho cercato di rivolgermi a tutti, senza distinzione di cultura, di fede, privilegiando una prospettiva femminile e proponendo un modello positivo fondato sull’amore e la fiducia.
Fin dalle prime immagini, si percepisce come tutto sia spoglio, essenziale:  non ci sono angeli, comete, voci dall’alto, miracoli.
Perché? Il soprannaturale non è visibile, non può essere affrontato con i nostri strumenti di pensiero, la nostra logica, la ragione.
Il mistero trascende i limiti, per noi, non può essere rappresentato.
Però è accettabile e comprensibile.
Ho voluto spogliare tutto il racconto dell’infanzia da una possibile e pericolosa rappresentazione magica.
Mi sono interrogato e concentrato sul ruolo centrale di Maria, della Madre, ossia il ruolo della donna e della maternità.
Eppure, in alcune immagini, si avverte la forza straordinaria e speciale del rapporto d’amore tra questa Madre e il Figlio.
Il Vangelo è anche un modello antropologico e pedagogico universale e straordinario, perché fondato sull’amore positivo, sulla fiducia.
In un’epoca in cui siamo circondati da messaggi di pessimismo, di disperazione – spesso anche legittimi – è da lì che bisogna ripartire:  da una madre e un figlio.
L’amore può davvero cambiare le cose.
L’essenzialità scarna del contesto richiama in qualche modo la lezione cinematografica del Vangelo pasoliniano.
È d’accordo? Pasolini, lo dice lui stesso, cercava disperatamente Gesù e lo faceva da non credente.
Soffriva di questa sua ricerca, ha sofferto fino alla fine.
Per me è esattamente l’opposto:  sono un credente che cerca di andare verso tutti, chi crede e chi no.
Nel tentativo di convincere che il Vangelo non parla di magie, ma di cose molto concrete.
La grande sfida del cristianesimo, oggi la grande sfida nel messaggio di Benedetto XVI, è questo tentativo di armonizzare, in ogni contesto di vita, la ragione e la fede.
Si è confrontato con qualche Vangelo cinematografico, prima di iniziare le riprese? Ho visto tutti i film su Maria.
Ho visto soprattutto ciò che non mi piaceva, i film in cui Maria è costretta nell’immagine di una pia donna, sottomessa e dimessa in un angolo.
Ho voluto abbandonare un’iconografia della Madonna intesa in quel senso.
Anche il mondo ebraico circostante è particolare:  policromo, arcaico.
Ho restituito il colore – la terra, il sangue, il deserto, le vesti – i volti e gli ambienti, che ho recuperato in Tunisia, cercando di rappresentare l’ambiente più attendibile in cui è avvenuta la nascita di Gesù.
Fin dalle prime immagini la giovanissima Maria – che ha il volto berbero e sconosciuto di Nadia Khlifi da piccola e di Rabeb Srairi da adulta – si dimostra (anche se per la verità in modo del tutto implausibile) insofferente alle imposizioni rituali e cultuali, a ogni forma di sopraffazione.
Il suo atteggiamento è molto attuale.
Perché al legalismo rituale oggi si è sostituita l’interferenza medica.
Tutto ciò che riguarda la femminilità e l’intimità della donna, a cominciare dal parto, è stato violato dalla medicina e dai medici, che s’intromettono violando il ruolo della donna.
Nessuna, tra le grandi religioni, ha alla sua origine un parto come quello di Maria, che è sola dinanzi al mistero della sua maternità.
Capisce che la relazione col Figlio è simbiotica, intima, privata:  sono soli, isolati nella grotta.
Anche Giuseppe fa un passo indietro.
È un modello di paternità meno focoso, meno aggressivo, più umile.
Ma non si tira indietro quando è necessario proteggere la famiglia.
Il parto di Gesù, in ogni film, è un momento delicatissimo.
Pudicamente, in quel momento difficile, mi allontano.
Il dolore occupa uno spazio di primo piano nel film.
Un anziano pastore profetizza:  “Il dolore che tentate di risparmiare oggi al bambino, sarà uno scandalo per molti.
Ma non avete paura  per  quello  che  dovrà  subire in futuro?”.
Maria risponde con un sorriso aperto, innocente, bellissimo.
Perché? Perché si mette totalmente nelle mani di Dio.
Maria è umile, risponde semplicemente:  che cosa posso fare io, così piccola, indifesa, sola? Dio mi chiede di avere misericordia, di volergli bene, di proteggerlo, di amarlo.
Questo io faccio.
Non posso avere paura di quello che mi chiede.
Soltanto quando non troverà più il Figlio dodicenne, quando intuirà che la libertà di Gesù non si può condizionare e fermare, Maria capirà fino in fondo.
In quel momento  una  spada  le  trafigge  il cuore.
Si è chiesto come reagiranno i non credenti e i cattolici alla visione del film? L’ateo sarà colpito dall’aspetto femminile che ho voluto evidenziare, dalla pedagogia evangelica, dalla moralità del racconto.
Al mondo cattolico chiedo soltanto di capire il mio sincero tentativo.
Io non ho voluto fare scandali con il mio film.
Il vero scandalo è il cristianesimo, Cristo è lo scandalo per la società del suo tempo, la sua croce è lo scandalo per tutta l’umanità.
Maria, nelle ultime immagini, è una donna assai anziana, che confessa:  “Non possiamo capire cosa è stato, se non torniamo all’inizio”.
Spero, come Maria, che tutti riescano a riflettere sulla madre e il padre che abbiamo avuto, perché è da lì che veniamo, da loro abbiamo avuto la vita.
E sui genitori che a nostra volta siamo stati.
Il Vangelo ci dice tutto su questo rapporto.
Perché Maria sente la necessità di raccontare questo inizio? Non bastava raccontare la Passione e la Resurrezione? Perché gli Evangelisti sentono la necessità di raccontare la storia di Maria e della nascita di Gesù? Io tento di dare una risposta, raccontando la storia di una donna che ha veramente cambiato per sempre il volto dell’umanità e il posto della donna nella società.
Maria sente l’esigenza di raccontare perché è l’unica che sa degli inizi, e vuole che non li dimentichiamo.
(©L’Osservatore Romano – 31 ottobre 2010)

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