Il dialogo “Lei ha scritto un libro di recente”.
“Sì, un viaggio nella modernità.
Temo che, se avrà voglia di leggerlo, non sarà d’accordo su molte cose”.
“Non ne sia così sicuro: tra un credente come me e un non credente come lei i punti d’incontro sono molti, l’abbiamo già verificato”.
“È vero – ho risposto – lei però me ne ha proposto uno, la Resurrezione, che ha più l’aria d’una sfida che di un terreno d’incontro.
Chi come me non crede nell’oltremondo, tantomeno crede nella Resurrezione di Gesù e nella nostra.
Lei però vede nel Resurrecturis il fulcro della sua vita spirituale.
Può spiegarmene la ragione? In fondo si tratta di un miracolo.
Pensavo che lei fosse piuttosto scettico sui miracoli”.
“La Resurrezione del Cristo non è un miracolo.
Il Dio che attraverso il Figlio ha assunto natura umana, dopo la morte sulla croce riassume la sua natura divina e immortale”.
“Capisco.
Ma la Resurrezione dei morti? Quello è un miracolo”.
“È un mistero, un mistero della fede.
Lei mi ha chiesto perché rappresenta, per me e per tutta la comunità dei fedeli, il fulcro della nostra vita.
Cercherò di spiegarlo.
La Resurrezione dei morti è un fatto storicamente positivo.
Lo Spirito risorge in tutti noi.
Risorge ogni giorno, risorge quando preghiamo, quando ci comunichiamo mangiando il pane e bevendo il vino del Signore, quando risorgono in noi la carità e la speranza del futuro, quello terreno e quello extraterreno.
La storia del mondo non sarebbe quella che è se la speranza non alimentasse i nostri sforzi e la carità non illuminasse la nostra vita quotidiana.
La Resurrezione dello Spirito è la fiamma che spinge le ruote del mondo.
Lei può immaginare un mondo senza carità e senza speranza?”.
“Non lo immagino infatti.
Ma speranza e carità illuminano anche la vita dei non credenti o almeno di molti di essi.
Noi non abbiamo bisogno della fede, l’amore del prossimo, secondo me, deriva da un istinto che opera in ciascuno di noi.
È l’istinto della vita, l’istinto della socievolezza, l’istinto della sopravvivenza della specie”.
“Lei pensa che quell’istinto sia sempre presente in ogni individuo?”.
“Penso che sia sempre latente, ma sempre in contrasto con l’amore di sé.
La vita non è che un eterno contrasto tra questi due elementi.
La natura umana poggia sulla dinamica di questi due elementi”.
“Ogni volta che l’amore del prossimo vince sull’egoismo dell’amore di sé, quello è il momento in cui lo Spirito risorge.
Il fatto che lei lo chiami istinto non cambia la tessitura della vita: per me è la Resurrezione”.
“Ma non la Resurrezione dei morti”.
“Quello è un mistero della fede, un di più che ci aiuta.
Io non lo chiamo miracolo, lo chiamo necessità.
La necessità di vivere con carità e speranza”.
“Cardinal Martini lei ha conosciuto il teologo Hans Küng? Conosce la sua teologia?”.
“Eravamo tutti e due nel Concilio Vaticano II.
Abbiamo la stessa età, eravamo molto giovani allora, della stessa età di papa Wojtyla.
Poi l’ho incontrato varie volte, abbiamo discusso spesso, abbiamo un buon rapporto”.
“Küng fa un’affermazione molto netta nel suo ultimo libro.
Dice che la fede illumina la vita ma che per raggiungere la fede occorre una condizione preliminare: bisogna innanzitutto amare la vita.
Amarla d’un amore profondo.
L’amore per la vita è una condizione non sufficiente ma necessaria per la maturazione della coscienza.
Lei è d’accordo con questa posizione?”.
“Sì, sono d’accordo con Küng.
Penso anch’io che bisogna amare profondamente la vita per essere poi illuminati dalla grazia e dalla fede”.
“Tutto sta nel capire che cosa s’intenda quando si dice “amare profondamente la vita””.
“Lei che cosa ne pensa? Che cosa vuol dire?”.
“Penso a un amore responsabile.
Penso a una vita che non umilii la vita degli altri, non le rechi danno ma anzi l’arricchisca di sentimenti e maturi l’umanità che è in ciascuno di noi”.
“Questo è anche il mio pensiero di cristiano.
L’amore per la vita concepito in questo modo è appunto la condizione necessaria anche se insufficiente che può condurre alla fede.
Oppure fermarsi a quella tappa iniziale”.
“Una tappa imperfetta? Non perfettamente matura”? Capii che gli costava molto rispondere a questa mia domanda.
Poi disse con un soffio di voce: “Una stilla di divino c’è in ogni uomo.
Siamo le foglie dissimili di un unico albero.
Non spetta a me distinguere le foglie meglio riuscite.
Cristo ha detto: non giudicate”.
Pioveva a scroscio fuori dalla finestra.
Portarono le pillole per il cardinale e una tazza di tè per me.
Le tendine sui vetri erano orlate con un ricamo che mi ricordò la mia casa di bambino e l’immagine di mia madre.
Le preghiere che mi faceva recitare la sera prima del sonno.
Pensai che i credenti, quelli veri, erano rimasti un po’ bambini, ma poi scacciai subito quel pensiero.
Ti senti superiore? Mi dissi.
Sei polvere e polvere tornerai, perciò lui ha ragione: non giudicare.
Gli dissi: “Alla Resurrezione non credo, ma credo nel Golgota”.
“Stavo appunto per domandarglielo.
Mi dica”.
“Credo nel Golgota perché lì fu celebrato il sacrificio di un giusto, di un debole, di un povero.
Quel sacrificio si ripete ogni giorno ed è il vero ed unico peccato del mondo: il sacrificio, la sopraffazione, l’umiliazione del povero, del debole, del giusto.
Il Golgota raffigura il peccato del mondo”.
Il cardinale mi guardò come si guarda un catecumeno, uno sguardo che mi parve una carezza.
Notai che aveva un tic frequente all’occhio sinistro, spesso lo chiudeva ma quando lo riapriva era ancor più espressivo dell’altro.
Credo fosse l’effetto della sua sindrome parkinsoniana, la stessa malattia di papa Wojtyla.
Poi mi disse: “Sì, il Golgota rappresenta il peccato del mondo.
A volte la Chiesa si occupa di troppi peccati e non tutti nella Chiesa sanno e sentono che quello è il solo, vero peccato: la sopraffazione, l’umiliazione, il disconoscimento del proprio simile tanto più se è debole se è povero se è escluso.
E se è un giusto.
Uno che non farebbe mai cose che umiliano la dignità della persona.
Il Golgota dovrebbe essere l’inizio di un percorso penitenziale che dura tutta la vita”.
Questa frase mi colpì; non avevo pensato ad un percorso penitenziale.
Chi era coinvolto in quel percorso di penitenza? Glielo chiesi.
Rispose: “Tutto il mondo”.
“Ma il vostro Cristo non era venuto per annunciare la salvezza? Un patto rinnovato tra il Signore e gli uomini?”.
“Appunto.
Portò la consapevolezza del peccato che era stato commesso e la necessità di espiarlo attraverso la penitenza”.
“In un altro nostro incontro lei mi parlò della necessità per la Chiesa di rivisitare il sacramento della confessione.
C’è un nesso fra quel suo desiderio e quanto mi ha appena detto?”.
“La confessione dev’essere per i cristiani l’inizio di un percorso penitenziale che dura tutta la vita.
Se il peccato è quello che abbiamo definito come il vero peccato del mondo, l’espiazione non richiede soltanto il risarcimento materiale del danno; l’espiazione comporta molto di più: comporta la rieducazione del peccatore, la scoperta da parte sua di una vita diversa.
È la scoperta della gioia e del gaudio che quella vita nuova e diversa si effonde nella sua anima”.
“Cardinale, ha presente il romanzo Resurrezione di Tolstoj?”.
“Ha ragione di richiamarlo.
Quel romanzo racconta esattamente questo percorso.
Il protagonista era un ricco e giovine signore che approfitta e stupra una minorenne.
Passano gli anni e alla fine il protagonista ha perso tutto il suo patrimonio ed è condannato e deportato in Siberia, ma nella sua coscienza si è fatta strada la sofferenza per quanto ha commesso e la necessità di espiarlo.
Quando l’espiazione tocca il culmine la sua anima si apre alla consolazione e alla gioia”.
“Lei ha richiamato Tolstoj; anche Manzoni racconta un processo analogo e la gioia che viene dall’espiazione”.
“L’Innominato, il suo pentimento, l’affanno di espiare e la pace dell’anima che provoca l’espiazione”.
“La pedofilia è uno di quei peccati?”.
Non avevo ancora introdotto quel tema, mi pareva che fosse imbarazzante per un porporato affrontarlo in un colloquio con chi fa professione di giornalismo.
Ma in un certo senso era lui che mi ci aveva portato.
Infatti rispose senza esitazione.
“La pedofilia è il più grave dei peccati, non umilia soltanto la persona e il debole, ma viola addirittura l’innocente.
Aggiungo: nei casi che si sono verificati nella Chiesa i colpevoli sono addirittura sacerdoti e vescovi che hanno come primo compito quello di educare i giovani e i giovanissimi e quindi debbono frequentarli per adempiere il loro magistero.
Ci può essere peccato più grave di questo?”.
“La Chiesa però condanna il peccato ma perdona il peccatore.
Non c’è contraddizione? Il Papa ha assunto un atteggiamento assai rigoroso in questi ultimi mesi e ha anche imposto un criterio di trasparenza invitando i vescovi e i parroci a informare l’autorità giudiziaria distinguendo il reato dal peccato.
Vorrei capire se tutto ciò rappresenta un’innovazione del diritto canonico”.
“Non mi occupo di diritto canonico perché in questo caso ha ben poco rilievo.
Quanto alla denuncia del reato all’autorità giudiziaria, direi che si tratta di un atto assolutamente dovuto, la pedofilia è un grave reato in tutti i codici del mondo e va perseguito.
Ma, trattandosi di solito di persone avanti negli anni, è lecito prevedere che la pena inflitta dall’autorità giudiziaria avrebbe un’esecuzione relativamente breve.
Comunque non è quello il punto.
Ritorno al tema della penitenza e dell’espiazione.
Si perdona il peccatore che compia un percorso penitenziale che durerà quanto dura la sua vita terrena.
L’espiazione dev’essere così intensa da colmare quell’anima e da farle assumere il compito di risarcire chi ha subito il sopruso.
Dico risarcire ma non mi riferisco a risarcimenti materiali che pure sono dovuti.
Mi riferisco a un rapporto di anime.
L’anima del peccatore non avrà altro fine che redimersi, risarcire i sentimenti violati, risorgere.
Solo in quel modo ritroverà la pace e la gioia”.
Aveva parlato tutto d’un fiato gesticolando e agitandosi sulla sua poltrona; anche la voce era salita di tono, tanto che poi si abbandonò affannato e socchiuse per un momento gli occhi.
Il suo assistente, un giovane prete con un volto intelligente e modi pieni di premura, fece capolino per la seconda volta: quella pausa nella nostra conversazione lo aveva forse allarmato.
“Forse è stanco”, dissi, ma a quel punto il cardinale fece un gesto per dire che non era affatto stanco e voleva continuare.
Gli chiesi se c’erano stati nella storia della Chiesa dei santi che prima erano stati peccatori.
“Molti” rispose.
“Il fatto più significativo della loro vita è stata appunto la loro conversione dal peccato alla grazia della fede insieme all’inizio di quel percorso penitenziale che li ha accompagnati fino alla morte”.
Gli chiesi qualche nome.
“Gliene dico uno per tutti, il fondatore della nostra Compagnia, Sant’Ignazio.
Lo ha raccontato lui stesso, peccò a lungo e fortemente, per dirla con Lutero; la sua conversione fu totale, la sua espiazione lunghissima, accompagnata da un amore per la vita e per le opere tra le quali appunto la fondazione d’una Compagnia che dopo quattrocent’anni è ancora uno dei pilastri della nostra Chiesa”.
Era passata più di un’ora e capii che il nostro incontro si avviava alla fine ma avevo ancora molte cose da chiedere.
In particolare c’era un tema che mi stava a cuore: il rapporto tra la missione pastorale della Chiesa e la sua organizzazione istituzionale e gerarchica.
Insomma la Chiesa come missione e la Chiesa come centro di potere.
“Ricorda, cardinal Martini? Lei mi raccontò, in un nostro precedente incontro, che all’inizio del Conclave che elesse cinque anni fa l’attuale Pontefice lei ricordò ai suoi confratelli riuniti nella Sistina che il Conclave doveva eleggere il Vescovo di Roma.
Il Papa infatti ha quella funzione in quanto Vescovo di Roma e tale deve sempre rimanere.
Lei non mi spiegò allora il senso di quel suo discorso, vuole dirmelo adesso?”.
“Il senso può risultare oscuro per chi non opera nella Chiesa e per la Chiesa, ma per noi è chiarissimo.
I Vescovi sono i successori degli apostoli e ad essi Gesù dettò una sola missione: andate e predicate alle genti la verità e la carità, diffondete il Verbo, indicate la via.
Questa è la missione dei Vescovi, pastori di anime.
Ma Gesù sapeva anche che quella missione doveva essere racchiusa entro una guaina che ne proteggesse l’essenza e la preservasse nel corso dei secoli e dei millenni.
Quella che lei chiama istituzione è appunto la guaina organizzativa, le Congregazioni, la Curia, la finanza, i tribunali ecclesiastici.
Servono a preservare la missione pastorale che rappresenta l’essenza della Chiesa”.
“Il Papa è il Vescovo di Roma ed è il capo della missione pastorale e dell’istituzione.
E così?”.
“Il Papa è il Vescovo che siede sulla sedia che fu di Pietro.
La missione pastorale è il suo compito prevalente.
Il fatto che sia anche un teologo o un diplomatico o un organizzatore è secondario.
È e dev’essere soprattutto un pastore di anime che esercita quella vocazione insieme a tutti gli altri Vescovi”.
“Tuttavia per gran parte della sua storia la Chiesa è stata soprattutto dominata dal potere dell’istituzione, i Papi sono stati dei capi di Stato e perfino dei guerrieri.
Il potere temporale ha soverchiato la missione pastorale”.
“Non penso che l’abbia soverchiata, ma certo spesso è accaduto che il potere e la sua conservazione abbiano avuto un’importanza eccessiva e la missione pastorale ne abbia subito i contraccolpi”.
“È ancora così anche oggi?”.
“Questi difetti sussistono ancora, il potere temporale, in altre forme, è ancora una tentazione all’interno della Chiesa.
Ma quello che noi chiamiamo il popolo di Dio, i fedeli, il clero con cura di anime, le associazioni e il volontariato cattolico, costituiscono la vera guaina di custodia della nostra essenza”.
“Le faccio un’ultima domanda perché sto abusando del suo tempo.
La Chiesa per compiere la sua missione deve avere contatti con i poteri pubblici che incontra nel suo cammino.
Talvolta incontra regimi di dittatura e tirannide, altre volte regimi democratici.
Sono forme politiche indifferenti per la Chiesa oppure essa è chiamata a fare una scelta tra di loro?”.
“La Chiesa deve fare una scelta anche se deve includere sistemi politici estranei alla sua concezione.
Anzi è proprio nei territori dove la libertà e l’eguaglianza sono negate che la testimonianza della Chiesa diventa preziosa.
Ma per me non c’è dubbio: la Chiesa che rivendica la libertà religiosa, per ciò stesso condivide principi di libertà, di eguaglianza, di inclusione, di rispetto della dignità delle persone.
Questi principi valgono, debbono valere, anche all’interno della Chiesa dove il Papa esercita la sua missione insieme all’Episcopato e al popolo di Dio, nelle varie forme conciliari che la nostra organizzazione prevede”.
L’incontro era finito.
Il giovane sacerdote era rientrato per aiutare il cardinale ad alzarsi.
Io gli dissi: “La prossima volta voglio vederla saltare alla corda”.
Mi guardò sorridendo e disse: “Torni presto”.
Poi mi accarezzò il viso con un tocco leggero.
Feci altrettanto con lui.
Eravamo tutti e due un po’ commossi.
Fuori continuava a piovere.
in “la Repubblica” del 13 maggio 2010 QUANDO fissammo la data del nostro incontro il cardinale Carlo Maria Martini mi disse che il tema sul quale desiderava si svolgesse la conversazione era la Resurrezione.
Ne rimasi un po’ stupito e anche preoccupato; gli feci osservare che su quell’argomento avremmo avuto assai poco da dirci.
Se c’è un punto sul quale il non credente non ha alcuna possibilità di contatto con un cristiano doc come Martini è proprio quello.
Ma il cardinale insistette.
“Vedrà – mi disse – avremo tutti e due molte idee da scambiarci su quell’argomento.
Del resto la Resurrezione è da tempo il fulcro della mia vita e ho molta voglia di discuterne con lei”.
Ci siamo incontrati il 10 maggio scorso a Gallarate, nella casa di riposo della Compagnia di Gesù dove Martini alloggia da qualche anno dopo i mesi passati a Gerusalemme.
In due anni questa è la terza volta che vado a trovarlo.
Nel frattempo ci siamo scritti e sentiti, ormai siamo in confidenza.
Io gli voglio bene e credo che me ne voglia anche lui.
Il tempo, è vero, passa con grande rapidità, ma lui non mi è parso cambiato.
La voce si è affievolita, quella sì, è meno sonora o io son più duro d’orecchio; abbiamo avvicinato di più le poltrone sulle quali eravamo seduti.
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