Parlare oggi dei preti

Tre impasse   In numerose pubblicazioni, interventi e manifestazioni contemporanee a proposito del presbiterato, colpiscono tre silenzi od omissioni: l’isolamento del soggetto interessato, il (falso) dibattito fra sacerdozio e presbiterato e il problema della mancanza di preti.
Dobbiamo esaminarli.
  L’isolamento come promozione   In pieno XVI secolo, quando la Scuola di Meaux, intorno al suo vescovo Briçonnet, studiava i ministeri dei preti insistendo sui loro tradizionali ruoli di pastori di un popolo e predicatori della Parola, le Chiese della Riforma conferivano ai loro animatori gli stessi titoli di “pastore” e di “predicante”.
Per mascherare questa concorrenza, la Sorbona favorì un altro approccio, ma a prezzo di una mutilazione.
Infatti, l’espressione di Rm 1,1: “Paolo…
prescelto per il Vangelo di Dio” fu amputato delle parole “per il Vangelo di Dio”.
Non restò che il “prescelto”.
Il prete diventò un “prescelto”, un “separato”, ma da cosa? Dal mondo, come un monaco, dalla sua stessa comunità da cui lo distinguevano lo stile di vita e la quotidiana ascesi del celibato.
Il progetto era nobile.
Era una reazione contro evidenti abusi di un clero poco formato (o molto letterato), pletorico e molto viaggiatore.
Le conseguenze di questa separazione furono evidenti.
Resta però da chiedersi quale ne fu il prezzo.
Questa posizione favorì decisamente lo stabilirsi di un clero come “primo ordine del Regno”.
Esso traeva la sua identità dalla propria sacralizzazione, in competizione con la nobiltà (che sottrasse le alte cariche e le finanze della Chiesa) e il terzo stato.
Due secoli dopo, le conseguenze furono drammatiche e in alcune regioni così dette scristianizzate, esse non sono ancora cessate.
Soprattutto, questa posizione prolungava la separazione medioevale fra eucarestia (che diventa il Corpo reale) e la Chiesa (società del Corpo mistico), separazione che portava all’allontanamento dei preti dal loro popolo, della Chiesa dalla Città.
Non è quindi da criticare tanto la separatezza dei preti quanto il modo di viverla, cioè i postulati impliciti che la orientano.
Osserviamo infatti che i vangeli non parlano mai del posto, né della posizione dei discepoli, ma parlano invece molto del loro comportamento: la povertà (Mc 6,8), l’umile servizio (Gv 13, 15-17), in una parola il rifiuto del potere (Lc 22, 24-27).
L’identità del prete non sta nel mettersi su di un piedistallo, ma nasce da una fraternità condivisa.
Da quel messaggio, la storia ha derivato un ordine di potenti specialisti, capi solitari della comunità.
L’uso non percepito, né criticato della categoria del sacro ha sovvertito quello della santità.
La santità distingue per unire: l’Assolutamente Altro fa un’alleanza.
Il sacro divide per regnare: esso comanda al profano.
Una cosa buona della secolarizzazione è che ci chiede di fare la distinzione.
Ora, in margine al Concilio Vaticano II, ecco un manifesto che propone una sessione per i preti.
Sei foto, tra le quali le inevitabili mani del prete che innalza l’ostia (chi fa la promozione dell’altro?): nessun esponente del popolo di Dio, nessun laico…
Sì, una donna…
che serve a tavola.
Di qui la domanda: per che popolo questi uomini sono preti? Di chi sono i pastori? È il prete “in sé”, come nel XVI secolo, automobile e computer in più, che stia in città o in campagna, in Africa o a Tokyo…
Prete standard, anonimo insomma.
Si pensa forse, costruendo simili individui, di far venir voglia a qualcuno di diventare prete? Non sarebbero che identità nomadi, collegate mediante reti, ma non legate sacramentalmente a un presbiterio.
Ci si accorge che al primo posto è lo statuto quando si nominano giovani quadri del sacro? La cosa è molto mondana…
ed è una ripresa del potere.
Il prete si ritrova scaraventato di fronte alla sua comunità, senza più legami fraterni.
Disincarnato, dunque sacralizzato.
La Chiesa perde il suo carattere di comunione di Chiese per ergersi in un grande insieme universale.
  Sacerdotale o presbiterale?   Gli anni che hanno seguito il Concilio hanno visto un acceso dibattito sulla natura del sacramento dell’ordine.
Come spesso accade, le posizioni conflittuali sono state alimentate dall’esagerata contrapposizione di due parole: il “sacerdotale” e il “presbiterale”.
Il termine ‘sacerdotale’ si rifaceva al concilio di Trento e alla dimensione sacrificale della messa.
Presbiterale sottolineava la novità dei preti del Nuovo Testamento (che ne parla poco, ad eccezione della lettera agli Ebrei) e del loro ministero pastorale.
A dire il vero, questa contrapposizione che il Vaticano II non aveva eliminato collegando i due aspetti, aveva già un suo punto d’equilibrio in Eb 13,20: “(Dio) ha fatto tornare dai morti colui che, in virtù del sangue di un’eterna alleanza, è diventato il grande pastore delle pecore”.
Sotto il dibattito teorico si celano in realtà due concezioni dei ministeri o, più esattamente, due diversi approcci.
L’uno cerca di mantenere la visione di un prete “a parte”, che esercita un potere chiaramente identificabile ed è costituito uomo del sacro.
L’altro vede i preti come più fraterni (ciò che non esclude in ogni caso il gusto del potere), mescolati al loro popolo col quale lavorano in comune.
Certo, si tratta solo di immagini, ma potenti.
All’intento metafisico della prima si contrappone la volontà di incarnazione della seconda.
Le rappresentazioni, in questo caso, agiscono con forza.
Manifestamente, la linea “sacerdotale” sta tornando alla ribalta.
Ma sotto la copertura della pietà e di una teologia vagamente riferita al Vaticano II, costituisce un tentativo di restaurare uno stile particolare di presenza nel mondo attuale.
E la cosa è tanto più problematica, in quanto deve affrontare la diminuzione del numero dei preti.
  La mancanza di preti   Quando si parla del clero, torna sempre in ballo la mancanza di preti (non si parla mai dei diaconi o dei laici impegnati).
In questo si vede il declino della Chiesa.
Le cifre sono note, ma che significano? Una mancanza si valuta in rapporto a un’organizzazione e non solo numericamente! Il criterio di valutazione deriva dal numero di campanili, cioè dalla suddivisione del territorio in parrocchie.
Una struttura storicamente contingente diventa la norma per un giudizio sulla vitalità della Chiesa.
Dovremo pur un giorno considerare l’impatto del sistema parrocchiale sulla concezione del ministero presbiterale.
Canonicamente indipendente, fondamentalmente centripeta, una parrocchia trasforma il suo pastore nel capo della sua organizzazione e del suo funzionamento.
Come un contadino, il parroco coltiva sulle sue terre quello che vuole e che gli sembra conveniente.
Così i ministeri si ritrovano identificati con altrettante circoscrizioni quasi indipendenti.
Non basta diminuire il numero delle parrocchie e ingrandire il loro ambito; il prete diventerebbe solo più centralizzatore, a patto che avesse le capacità di comandare su uno spazio così grande.
Certo, ci sono dei laici che lo aiutano, ma come assistenti, intermediari o delegati, senza una vera responsabilità, poiché la grandezza del territorio considerato richiede operatori stabili che ne possano conoscere le componenti.
Lavorare con dei laici presuppone una scala di grandezza che favorisca un impegno con la piena conoscenza del terreno.
Bisogna cambiare dunque il funzionamento della parrocchia.
E per questo si richiede di vedere con altro occhio i ministeri dei preti.
È questo rinnovamento che si nasconde dietro la questione del numero: la mancanza non è una fatalità, ma l’occasione per creare un nuovo tipo di funzionamento adatto a questo tempo.
Parlare oggi dei preti di Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers Non c’è Chiesa senza preti”.
La famosa frase di San Girolamo suona come uno slogan.
Infatti, non dice niente sul numero di preti richiesto, sui ministeri da assolvere, né sul loro comportamento.
Uno slogan impedisce di porsi domande: quella frase serve a bloccare le ricerche sulle nuove maniere di esercitare il presbiterato o di porre i preti davanti ai nuovi ministeri, sul diaconato e sulle cariche ricoperte dai laici.
È una frase conservatrice.
I problemi attuali non riguardano tanto la necessaria esistenza dei preti quanto la natura e le forme dei loro servizi – che non è affatto la stessa cosa.
Trascurare le condizioni di esercizio dei ministeri per attaccarsi al solo fatto che esistano, fa sì che si passi dal plurale usato dal Vaticano II (“i preti”) a uno strano singolare (“il prete”), quindi a conservare un’unica forma.
Non molto tempo fa IL ministero s’identificava col solo ministero di parroco o viceparroco, al punto che al cappellano di un liceo e di un movimento poteva essererivolta questa domanda: “Quando entrerà nel ministero?”.
Questa estrema semplificazione deriva in gran parte dal regime dei benefizi legati a un territorio, la parrocchia, e sancito in modo definitivo dal concilio di Trento che, avendo un gran bisogno di ristabilire un ordine e una disciplina allentati, doveva anche confrontarsi con le comunità della Riforma.
La crisi protestante è passata come pure il mondo contadino del XVI secolo.
I problemi attuali sono molto diversi! Le cautele del concilio di Trento venivano da una lunga evoluzione.
Le lettere paoline menzionano numerosi incarichi nelle Chiese (per es.
Ef 4,11).
Anche se gli esegeti divergono sul significato da dare a ogni funzione e anche sul loro contenuto, due punti sono però certi: innanzitutto, che molti titoli (servi, collaboratori, custode, pastore ecc.) non hanno, in se stessi, originariamente una valenza religiosa, e poi che effettivamente esisteva una pluralità di servizi.
Progressivamente, questa diversità si riduce al solo presbiterato, così che gli incarichi diventano degli scalini per avanzare di grado verso l’ordinazione a prete.
Ostiario, esorcista, lettore, accolito e perfino diacono fino al Vaticano II sono incarichi che servono da preparazione verso un sacerdozio che, di fatto, ha confiscato tutte le funzioni – quindi il potere – nella comunità che è diventata la parrocchia.
Numerose contingenze storiche, finanziarie, materiali hanno favorito questo accentramento.
Ma, dal momento che il Vaticano II stabilisce il diaconato permanente e riconosce esercizi ministeriali da affidare a battezzati, per es.
i ministeri istituiti, si può dire che queste contingenze sono condizionanti in modo definitivo? È possibile oggi esaminare i ministeri dei preti senza riorganizzare la realtà degli altri ministeri, compreso quello del vescovo? Tra il presbiterato e l’episcopato, il Medio Evo vedeva una distinzione legata più al governo che al sacramento, dato che i due ministeri avevano lo stesso potere di consacrare l’eucarestia.
Ritornando alla sacramentalità della Chiesa ed affermando la natura sacramentale dell’ordinazione a vescovo, il Vaticano II apre nuove prospettive, più vicine alle origini del cristianesimo che a un sistema scolastico dipendente in gran parte da un particolare momento culturale.


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