L’intervista «Facendo lo stesso ragionamento la Corte di Strasburgo potrebbe chiedere agli inglesi di togliere la croce di San Giorgio dalla bandiera».
E perché? «Dice quella sentenza che la croce è un simbolo di parte.
E allora non dovrebbe stare non solo nelle aule ma nemmeno sul simbolo dell’unità nazionale.
Mi sembra francamente irragionevole».
Il professor Carlo Cardia insegna Diritto ecclesiastico all’Università di Roma Tre.
Negli anni si è occupato di tutte le questioni importanti nei rapporti fra Stato e Chiesa, dall’otto per mille alla revisione del Concordato, ed è stato autore della Carta dei valori, della cittadinanza e dell’immigrazione insieme al ministro Giuliano Amato.
L’ultimo nodo che ha affrontato è la sentenza con la quale la Corte europea dei diritti umani ha detto no al crocifisso nella aule scolastiche, perché lede la «libertà di religione degli alunni».
A questo tema il professor Cardia ha dedicato un libro «La questione del crocifisso e l’identità culturale e religiosa dell’Europa», che sarà presentato lunedì 26 aprile a Roma.
Professor Cardia, come considera quella sentenza? «Da rivedere anche per la sua forza espansiva nei confronti di altri Stati.
Non approfondisce la questione e la esamina da un punto di vista ideologico.
Così la Corte ha finito per rinnegare la sua stessa giurisprudenza, che aveva un orientamento consolidato».
Cosa diceva questo orientamento? «La Corte di Strasburgo è chiamata a pronunciarsi sulla base della Convenzione dei diritti umani del 1950.
Questo documento stabilisce che gli Stati europei sono “animati da uno stesso spirito e forti di un patrimonio comune di tradizioni e di ideali politici”.
In questo patrimonio un posto preminente lo occupano la tradizione cristiana ed i suoi simboli, come il crocifisso.
Negli anni la Corte, giustamente, ha più volte ricordato questo principio».
E invece stavolta? «Ha inspiegabilmente cambiato direzione.
Ha scelto un approccio vetero illuminista secondo il quale la formazione si deve svolgere in un vuoto culturale dove non esiste un passato né un futuro da costruire.
Da questo punto di vista la Corte ha parlato di una scuola italiana che non esiste».
Cosa intende? «Se una ragazza, in Italia, vuole andare a scuola con il velo islamico lo può fare.
C’è un atteggiamento tollerante nei confronti di tutti i simboli religiosi.
Ma questo la Corte non l’ha preso in considerazione.
E così è stato svilito il ruolo del crocifisso come simbolo dell’identità europea, trasformandolo in un simbolo di parte».
Saranno queste le motivazioni che l’Italia farà valere nel ricorso contro la sentenza? «Non mi occupo direttamente del ricorso anche se questo libro è il frutto di uno studio che riflette le posizioni del governo italiano e che sarà utilizzato per sensibilizzare sulla questione anche altri governi europei.
Nel mio lavoro ho cercato di evidenziare alcuni carenze nella sentenza della Corte».
Quali carenze? «La sentenza fa discendere l’obbligo del crocifisso nelle aule dallo Statuto albertino che nel 1848 stabiliva come quella cattolica fosse la sola religione di Stato.
È stato considerato come frutto del confessionismo di Stato».
E invece? «È un errore tecnico, quello Statuto era flessibile e dopo poco tempo il principio della religione di Stato cadde in disuso.
In realtà, la norma sul crocifisso è successiva.
C’erano già state le cosiddette leggi eversive, che sopprimevano alcuni enti religiosi.
Altro che Stato confessionale.
Per questo mi auguro una revisione della sentenza che tenga conto del valore storico e religioso che la croce ha per tutti i cristiani, cattolici, ortodossi e protestanti».
in “Corriere della Sera” del 22 aprile 2010
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