Essere “in rete” è un modo di abitare il mondo e di organizzarlo.
La sfida della Chiesa non deve essere quella di come “usare” bene la rete, come spesso si crede, ma come “vivere” bene al tempo della rete.
Internet è una realtà destinata a essere sempre più trasparente e integrata rispetto alla vita, diciamo così, “reale”.
Questa è la vera sfida: imparare a essere wired, connessi, in maniera fluida, naturale, etica e perfino spirituale; a vivere la rete come uno degli ambienti di vita.
È evidente, dunque, come la rete con tutte le sue “innovazioni dalle radici antiche” ponga alla Chiesa una serie di questioni rilevanti di ordine educativo e pastorale.
Tuttavia vi sono alcuni punti critici che riguardano la stessa comprensione della fede e della Chiesa.
La logica del web ha un impatto sulla logica teologica? Certamente internet comincia a porre delle sfide alla comprensione stessa del cristianesimo.
Quali sono i punti di maggiore contatto dialettico tra la fede e la rete? Proverò quindi a individuare questi punti critici per avviare una loro discussione alla luce anche di palesi connaturalità come anche di evidenti incompatibilità.
La “navigazione”, in generale, è oggi una via ordinaria per la conoscenza.
Capita sempre più spesso che, quando si necessita di una informazione, si interroghi la rete per avere la risposta da motori di ricerca quali “Google”, “Bing” o altri ancora.
Internet sembra essere il luogo delle risposte.
Esse però raramente sono univoche: la risposta è un insieme di link che rinviano a testi, immagini e video.
Ogni ricerca può implicare un’esplorazione di territori differenti e complessi dando persino l’impressione di una certa esaustività.
Digitando in un motore di ricerca la parola God oppure anche religion, spirituality, otteniamo liste di centinaia di milioni di pagine.
Nella rete si avverte una crescita di bisogni religiosi che la “tradizione” religiosa soddisfa a fatica.
L’uomo alla ricerca di Dio oggi avvia una navigazione.
Quali sono le conseguenze? Si può cadere nell’illusione che il sacro e il religioso siano a portata di mouse.
La rete, proprio grazie al fatto che è in grado di contenere tutto, può essere facilmente paragonata a una sorta di grande supermarket del religioso.
Ci si illude dunque che il sacro resti “a disposizione” di un “consumatore” nel momento del bisogno.
In questo contesto occorre però considerare qualcosa di estremamente interessante: il possibile cambiamento radicale nella percezione della domanda religiosa.
Una volta l’uomo era saldamente attratto dal religioso come da una fonte di senso fondamentale.
L’uomo era una bussola, e la bussola implica un riferimento unico e preciso: il Nord.
Poi l’uomo ha sostituito nella propria esistenza la bussola con il radar che implica un’apertura indiscriminata anche al più blando segnale e questo, a volte, non senza la percezione di “girare a vuoto”.
L’uomo però era inteso comunque come un “uditore della parola”, alla ricerca di un messaggio del quale sentiva il bisogno profondo.
Oggi queste immagini, sebbene sempre vive e vere, “reggono” meno.
L’uomo da bussola prima e radar poi, si sta trasformando in un decoder, cioè in un sistema di decodificazione delle domande sulla base delle molteplici risposte che lo raggiungono.
Viviamo bombardati dai messaggi, subiamo una sovrainformazione, la cosiddetta information overload.
Si può evitare, certo, ma occorre ormai molta “buona educazione”, capacità di selezione che non è per nulla scontata.
Il problema oggi non è più quello di reperire il messaggio di senso ma di decodificarlo, di riconoscerlo sulla base delle molteplici risposte che si ricevono.
La grande parola da riscoprire, allora, è una vecchia conoscenza del vocabolario cristiano: il “discernimento”.
Le domande radicali non mancheranno mai, ma oggi sono mediate dalle risposte che si ricevono e che richiedono il filtro del riconoscimento.
La risposta è il luogo di emersione della domanda.
Tocca all’uomo d’oggi, dunque, e soprattutto al formatore, all’educatore, dedurre e riconoscere le domande religiose vere a partire dalle molte risposte che lui si vede offrire continuamente.
È un lavoro complesso, che richiede una grande preparazione e una grande sensibilità spirituale.
È dunque necessario oggi educare le persone al fatto che ci sono realtà e domande che sfuggono sempre e comunque alla logica del “motore di ricerca”, e che la “googlizzazione” della fede è impossibile perché falsa.
È certamente da privilegiare invece la logica propria dei motori semantici verso i quali ci stiamo muovendo e che aiutano l’uomo a porre domande.
È il caso di Wolfram|Alpha, un “motore computazionale di conoscenza”, cioè un motore che interpreta le parole della domanda, e propone direttamente una sola risposta.
Visto che, al momento, l’unica lingua che comprende è l’inglese, è interessante notare che la risposta alla domanda Does God exist? (Dio esiste?) sia: “Mi dispiace, ma un povero motore computazionale di conoscenza, non importa quanto potente possa essere, non è in grado di fornire una risposta semplice a questa domanda”.
Lì dove “Google” va a colpo sicuro fornendo centinaia di migliaia di risposte indirette, Wolfram|Alpha fa un passo indietro.
Ovviamente la sua è una risposta scritta da una persona, che avrebbe potuto scrivere anche semplicemente “sì” o “no”.
Qual è il migliore, dunque? Difficile da dire.
Forse una via di mezzo.
La differenza chiara però è che un motore “sintattico”, quale è “Google”, analizza le parole al di fuori del contesto nel quale vengono utilizzate.
La ricerca semantica tenta invece di interpretare il significato logico delle frasi, analizzando il contesto.
Il modo in cui si pone la domanda può influenzare l’efficacia della risposta, e dunque essa deve essere ben posta.
La ricerca di Dio è sempre semantica e il suo significato nasce e dipende sempre da un contesto.
Cominciamo a comprendere come la rete “sfidi” la fede nella sua comprensione grazie a una “logica” che sempre di più segna il modo di pensare degli uomini.
Esploriamo alcuni territori facendo alcuni esempi.
Il primo potrebbe essere quello dell’Ecclesiologia, visto che la rete crea communities.
Non è possibile immaginare una vita ecclesiale essenzialmente di rete: una “Chiesa di rete” in sé e per sé è una comunità priva di qualunque riferimento territoriale e di concreto riferimento reale di vita.
L'”appartenenza” ecclesiale rischierebbe di essere considerata il frutto di un “consenso”, e dunque “prodotto” della comunicazione.
In questo contesto i passi dell’iniziazione cristiana rischiano di risolversi in una sorta di “procedura di accesso” (login) all’informazione, forse anche sulla base di un “contratto”, che permette anche una rapida disconnessione (logoff).
Il primo ordine di interrogativi nasce dal fatto che internet permette il collegamento diretto col centro delle informazioni, saltando ogni forma di mediazione visibile.
Qualcuno, per fare un esempio concreto, potrebbe chiedersi: perché devo leggere la lettera del parroco se posso realizzare la mia formazione attingendo materiali direttamente dal sito della Santa Sede? Molti, del resto già, grazie alla televisione, ben conoscono il volto del Santo Padre, ma non riconoscerebbero il vescovo della propria diocesi.
Ma esiste una problematica più profonda di questa, legata al riconoscimento dell’autorità “gerarchica”.
La rete, di sua natura, è fondata sui link, cioè sui collegamenti reticolari, orizzontali, L’unica gerarchia è data dalla popolarità del page rank.
La Chiesa vive di un’altra logica, differente da questa, e cioè quella di un messaggio donato, cioè ricevuto, che “buca” la dimensione orizzontale.
Non solo: una volta bucata la dimensione orizzontale, essa vive di testimonianza autorevole, di tradizione, di Magistero: sono tutte parole queste che sembrano fare a pugni con una logica di rete.
In fondo potremmo dire che sembra prevalere nel web la logica dell’algoritmo page rank di “Google”.
Sebbene in fase di superamento, esso ancora oggi determina per molti l’accesso alla conoscenza.
Esso si fonda sulla popolarità: in “Google” è più accessibile ciò che è maggiormente linkato, quindi le pagine web sulle quali c’è più accordo.
Il suo fondamento è nel fatto che le conoscenze sono, dunque, modi concordati di vedere le cose.
Questa a molti sembra la logica migliore per affrontare la complessità.
Ma la Chiesa non può sposare questa logica, che nei suoi ultimi risultati, è esposta al dominio di chi sa manipolare l’opinione pubblica.
L’autorità non è sparita in rete, e anzi rischia di essere ancora più occulta.
E infatti la ricerca oggi si sta muovendo nella direzione di trovare altre metriche per i motori di ricerca, che siano più di “qualità” che di “popolarità”.
Ma il terzo e più decisivo e generale momento critico di questa orizzontalità è l’abitudine a fare a meno di una trascendenza.
Il punto di riferimento delle dinamiche simboliche dello spazio digitale non è più un’alterità trascendente, ma sono io.
Io sono al centro del mio mondo virtuale che diventa l’unico spazio di realtà, pur non essendo in grado di soddisfare la mia ricerca di verità.
Tuttavia, nonostante i tre ordini di problemi qui illustrati, esiste anche un aspetto importante sul quale riflettere, e che appare oggi di grande importanza: la società digitale non è pensabile e comprensibile solamente attraverso i contenuti trasmessi, ma soprattutto attraverso le relazioni: lo scambio dei contenuti avviene all’interno delle relazioni.
È necessario dunque non confondere “nuova complessità” con “disordine”, e “aggregazione spontanea” con “anarchia”.
La Chiesa è chiamata ad approfondire maggiormente l’esercizio dell’autorità in un contesto fondamentalmente reticolare e dunque orizzontale.
Appare chiaro che la carta da giocare è la testimonianza autorevole.
Oggi l’uomo della rete si fida delle opinioni in forma di testimonianza.
Facciamo un esempio: se oggi voglio comprare un libro o farmi un’opinione sulla sua validità vado su un social network come aNobii o visito una libreria on line come Amazon o Internetbookshop e leggo le opinioni di altri lettori.
Questi pareri hanno più il taglio delle testimonianze che delle classiche recensioni: spesso fanno appello al personale processo di lettura e alle reazioni che ha suscitate.
E lo stesso accade se voglio comprare una applicazione o un brano musicale su iTunes.
Esistono anche testimonianze sulla affidabilità delle persone nel caso in cui esse sono venditrici di oggetti su eBay.
Ma gli esempi si possono moltiplicare: si tratta sempre e comunque di quegli user generated content che hanno fatto la “fortuna” e il significato dei social network.
La “testimonianza” è da considerare dunque, all’interno della logica delle reti partecipative, un “contenuto generato dall’utente”.
La Chiesa in rete è chiamata dunque non solamente a una “emittenza” di contenuti, ma soprattutto a una “testimonianza” in un contesto di relazioni ampie composto da credenti di ogni religione, non credenti e persone di ogni cultura.
È chiamata dunque – scrive Benedetto XVI – a “tener conto anche di quanti non credono, sono sfiduciati ed hanno nel cuore desideri di assoluto e di verità non caduche”.
È su questo terreno che si impone l’autorità della testimonianza.
Non si può più scindere il messaggio dalle relazioni “virtuose” che esso è in grado di creare.
Si comprende bene che uno dei punti critici della nostra riflessione è in realtà il concetto di “dono”, di un fondamento esterno.
La rete per la Chiesa è sempre e comunque “bucata”: la Rivelazione è un dono indeducibile e l’agire ecclesiale ha in questo dono il suo fondamento e la sua origine.
Ma è il concetto stesso di “dono” che oggi sta mutando.
La rete è il luogo del dono, infatti.
Concetti come file sharing, freeware, open source, creative commons, user generated content, social network hanno tutti al loro interno, anche se in maniera differente, il concetto di “dono”, di abbattimento dell’idea di “profitto”.
(©L’Osservatore Romano – 25 aprile 2010) Dal 22 al 24 aprile a Roma la Conferenza episcopale italiana ha organizzato un convegno sul tema “Testimoni digitali.
Volti e linguaggi nell’era crossmediale”.
Pubblichiamo uno stralcio dell’intervento di uno dei relatori.
L’avvento di internet è stato, certo, una rivoluzione.
E tuttavia è necessario subito sfatare un mito: che la rete sia un’assoluta novità del tempo moderno.
Essa è una rivoluzione, certo, ma che potremmo definire “antica”, cioè con salde radici nel passato.
Internet replica antiche forme di trasmissione del sapere e del vivere comune, ostenta nostalgie, dà forma a desideri e valori antichi quanto l’essere umano.
Quando si guarda alla rete occorre non solo vedere le prospettive di futuro che offre, ma anche i desideri e le attese che l’uomo ha sempre avuto e alle quali prova a rispondere, e cioè: connessione, relazione, comunicazione e conoscenza.
Sappiamo bene come da sempre la Chiesa abbia nell’annuncio di un messaggio e nelle relazioni di comunione due pilastri fondanti del suo essere.
Internet non è, come spesso si legge, un semplice “strumento” di comunicazione che si può usare o meno, ma un “ambiente” culturale, che determina uno stile di pensiero e contribuisce a definire anche un modo nuovo di stringere le relazioni.
E la Chiesa è naturalmente presente lì dove l’uomo sviluppa la sua capacità di conoscenza e di relazione.
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