Il carcere non solo non è un luogo di redenzione ma può imbarbarire persino persone lontane da una mentalità criminale.
Lo scoprirà tragicamente il protagonista di Cella 211 del regista spagnolo Daniel Monzón.
Campione d’incassi in patria e vincitore di otto premi Goya (i maggiori riconoscimenti del cinema iberico), il film racconta una vicenda ad alta tensione, dura, che non risparmia nulla quanto a crudezza sia d’immagini che di linguaggio.
Il genere carcerario, esplorato da diverse angolature dal cinema statunitense, diventa dunque terreno di riflessione anche per produzioni europee, che si propongono al pubblico con un buon livello qualitativo, mostrando peraltro una notevole originalità stilistica e narrativa.
Così, dopo l’apprezzato Il profeta del francese Jacques Audiard – storia di un fragile diciottenne che nel carcere compirà il suo cammino di formazione criminale – arriva sugli schermi italiani un altro film sull’universo carcerario, che ne ricalca il concetto di fondo: il recupero di un uomo condannato difficilmente passa dalla cella di una prigione.
Al suo primo incarico come secondino in un penitenziario di massima sicurezza, per fare buona impressione su colleghi e superiori, Juan Olivier si presenta al lavoro il giorno precedente l’ingresso in servizio.
Mentre è in visita al braccio con i detenuti più pericolosi, rimane vittima di un incidente: un pezzo di intonaco staccatosi dal soffitto in ristrutturazione lo colpisce alla testa.
Nel tentativo di rianimarlo, i due colleghi che lo accompagnano usano la brandina della cella 211, al momento vuota.
Ma proprio in quel momento esplode una rivolta e i due secondini lo abbandonano lì per mettersi in salvo.
Una volta ripresosi, Juan, si trova inghiottito dagli accadimenti.
Ha la prontezza di farsi credere un detenuto e di accattivarsi le simpatie del violento boss Malamadre, superbamente interpretato da Luis Tosar, promotore della ribellione.
In un imprevisto capovolgimento di ruolo, la giovane guardia proverà a fare il doppio gioco nel tentativo di salvarsi e riabbracciare la moglie incinta.
Ma gli eventi prenderanno una piega diversa, il suo destino seguirà un’altra strada.
E Juan si ritroverà suo malgrado dall’altra parte, persino a lottare con impensabile ferocia per una causa che solo poche ore prima non poteva apparirgli più distante.
Raccontando la vicenda di Juan, Cella 211, tratto dall’omonimo romanzo di Francisco Pérez Gandul, affronta argomenti sociali rilevanti – denuncia le precarie condizioni di vita nelle carceri, la violenza delle istituzioni – e, nel caso specifico, la difficile gestione di questioni politico legate al terrorismo dell’Eta.
Tutto ciò viene mostrato senza alcuna indulgenza, accentuando le debolezze del sistema.
Tuttavia non sono questi gli aspetti più intriganti del film, che ha i suoi punti di forza nella carica drammatica della narrazione e nello sviluppo delle dinamiche relazionali dei protagonisti.
Monzón – cui va dato atto di aver impresso una cifra stilistica originale alla pellicola, superando i cliché di genere – ha definito la storia una tragedia.
Una tragedia legata al fato, ovvero a quel qualcosa di imprevedibile e improvviso che può cambiare e sconvolgere per sempre la vita di ciascuno.
Quel fato che beffardamente fa incrociare le strade di uomini diversi per indole, estrazione e comportamenti come Juan (certo non idealista) e Malamadre, e che li porta a condividere un’esperienza terribilmente nuova per il primo, replicata ma con implicazioni inattese per il secondo.
Ne nascerà un’improbabile amicizia, ambigua quanto breve.
A colpire è il cambiamento interiore cui è costretto Juan, travolto da eventi che si era illuso di poter in qualche modo controllare nonostante tutto, e che si troverà suo malgrado a camminare lungo il confine improvvisamente impalpabile tra ciò che riteneva giusto e ciò che non gli appare più tale.
Compiere una scelta di campo diverrà più semplice di quanto avesse presupposto.
Da aspirante servitore della legge si troverà, con le mani sporche di sangue, a combattere per una giustizia diversa.
E in questo viaggio verso l’abisso – che lascia però intravedere bagliori di verità – non si riesce a non provare un po’ di empatia verso quest’uomo ferito al quale il destino nega persino l’unica drammatica via d’uscita per non precipitare nell’abisso.
Si prova compassione forse perché in lui in qualche modo si riconosce la fragilità umana che si evidenzia nei momenti più terribili e di inattesa sofferenza.
Quando, in una situazione estrema, il dolore rischia di trasformarsi in odio, l’odio in vendetta e la vendetta in cieca violenza.
di Gaetano Vallini (©L’Osservatore Romano – 17 aprile 2010)
News
- GESU’ CRISTO RE DELL’UNIVERSO
- Tomáš Halík, Il sogno di un nuovo mattino. Lettere al papa.
- XXXIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO
- padre Rinaldo Paganelli (1955-2024) Profilo bio-bibliografico
- Simposio Internazionale di Catechetica. La dimensione educativa della catechesi
- Global RE© September - October 2024
- Vademecum 2024-2025
- XXXII DOMENICA TEMPO ORDINARIO
- XXXI DOMENICA TEMPO ORDINARIO
- 1° CORSO DI FORMAZIONE per Équipe, Operatori Pastorali ed Educatori