Troppo enciclopedismo non farà un buon liceo Giorgio Rembado Sussidiario.net mercoledì 24 marzo 2010 La recente diffusione della prima stesura delle Indicazioni nazionali per i licei offre agli “addetti ai lavori” l’opportunità di verificare la rispondenza tra gli ordinamenti rinnovati e gli strumenti operativi per la loro attuazione.
Ma fino a che punto le scelte metodologiche e culturali delle Indicazioni sono coerenti con le finalità innovative del Regolamento per i licei? Se, inoltre, il Regolamento disciplina i percorsi liceali per il raggiungimento del Profilo educativo e culturale dello studente, entro che limiti le Indicazioni si rivelano all’altezza di questo scopo? La sfida sottesa alla ratio del Regolamento di riordino dei Licei è finalizzata a introdurre un vero e proprio ripensamento del rapporto tra i processi di apprendimento e di insegnamento.
In realtà, però, le Indicazioni non recepiscono ancora del tutto questa sfida, poiché in esse si rileva una esplicita insistenza su ciò che lo studente dovrà sapere e saper fare, dunque sulla prescrittività dei contenuti.
Nonostante il fatto che nel dibattito attuale si registri l’urgenza di definire gli standard formativi di riferimento per la valutazione e la certificazione delle competenze (basti pensare al documento relativo all’Obbligo di istruzione, in cui, a partire dalle competenze, vengono declinate le abilità/capacità e le conoscenze), le Indicazioni per i licei affrontano diversamente la questione, in quanto mescolano abilità/capacità, conoscenze e competenze.
Un caso a sé è rappresentato dal testo relativo alle Lingue Comunitarie, che si differenzia in virtù di un “illustre precedente”, in quanto fa esplicito riferimento alla struttura del Quadro Comune Europeo di Riferimento per le Lingue.
Occorre a questo punto ricordare che, secondo il Regolamento, le Indicazioni nazionali dovrebbero raggiungere un duplice scopo: da un lato, declinare i risultati di apprendimento in conoscenze, abilità e competenze in modo coerente con le linee di tendenza in Europa; dall’altro lato, assicurare il riordino dei percorsi liceali con la piena attuazione dell’autonomia.
Ma l’introduzione del Coordinatore della Commissione ministeriale, che ha elaborato le Indicazioni, rimanda a dichiarazioni programmatiche che, pur trovando ormai da tempo un significativo consenso, vengono in parte disattese: l’enciclopedismo tipico dei vecchi Programmi lascia ancora delle tracce evidenti e i quadri di riferimento adottati dalle rilevazioni nazionali e dalle indagini internazionali sugli apprendimenti degli studenti non sono ancora pienamente assunti.
Si privilegiano, infatti, elenchi di contenuti che ci riconducono alla vecchia tradizione dei Programmi ministeriali e che tradiscono non solo il nomen, ma anche l’assunto delle Indicazioni nazionali, che dovrebbero consistere nella determinazione degli obiettivi da lasciare poi alla autonoma programmazione dell’attività delle scuole.
Molto, allora, resta da fare per rendere le Indicazioni nazionali uno strumento vero di attuazione del Regolamento, in modo particolare in merito ai seguenti aspetti: una declinazione delle competenze, delle abilità/capacità e delle conoscenze non a scopo prescrittivo, ma con funzione di indirizzo all’azione delle istituzioni scolastiche, specialmente mirata alla loro valutazione e certificazione; la coerenza dell’impianto concettuale del primo biennio con gli assi culturali dell’Obbligo di istruzione e con le competenze chiave di cittadinanza; la sottolineatura della valenza formativa riconosciuta alla didattica laboratoriale per tutte le discipline; l’insistenza sulla multidisciplinarità dei percorsi formativi finalizzati alla costruzione delle competenze, proprio in quanto strutture complesse. Si eviterebbe così il rischio di affidare alle scuole medesime il compito di ricavare i descrittori delle competenze dal testo delle Indicazioni così come oggi è strutturato e di riprodurre il fenomeno dell’autoreferenzialità, dell’incertezza e della mancata trasferibilità e riconoscibilità dei crediti formativi anche al di fuori dell’ambito nazionale.
Ma tutto questo ci auguriamo possa essere affidato ad una revisione del testo che tenga conto del dibattito che sicuramente la bozza attuale provocherà.
La coerenza tra intenti programmatici fondativi del Regolamento e Indicazioni nazionali è, a nostro avviso, la principale garanzia per la riuscita del riordino dei licei e per il loro significativo ammodernamento, dentro al solco della migliore tradizione culturale della nostra scuola.
Meno Stato, più autonomia e più sapere, così cambiano i licei Giorgio Chiosso l Sussidiario.net giovedì 18 marzo 2010 Sono state rese note le Indicazioni sugli obiettivi specifici di apprendimento per i licei.
Ora si apre la discussione con il mondo della scuola: un confronto ad ampio raggio che coinvolge scuole, associazioni, accademie e enti di ricerca.
Giorgio Chiosso, pedagogista e docente all’Università di Torino, fa parte del gruppo tecnico di lavoro che lunedì ha consegnato le Indicazioni al ministro Gelmini.
Professore, quali sono i criteri che hanno fatto da guida al vostro lavoro? Penso di poter dire che il principale criterio che ha orientato la stesura delle Indicazioni è stato quello della coerenza con il principio dell’autonomia delle scuole.
È un aspetto finora poco sottolineato da quanti in questi giorni hanno commentato i documenti provvisori resi noti dal Ministero.
Questa è la scelta e al tempo stesso la novità strategica delle Indicazioni.
Non più i Programmi prescrittivi dall’A alla Z secondo una pedagogia ministeriale che, nel trascorrere delle stagioni politiche, è di volta in volta cambiata, ma la semplice indicazione di ciò che non si può non insegnare e non sapere per essere un cittadino italiano ed europeo consapevole.
Detta così sembra semplice.
Lo Stato ha fatto «marcia indietro»? Lo Stato non ha una sua pedagogia.
Spetta alle scuole tradurre in processi di apprendimento e in azioni educative i nuclei essenziali e irrinunciabili fissati dalla Indicazioni.
È su questa base che ogni studente è tenuto ad acquisire le proprie conoscenze e a maturare le competenze personali.
Dico competenze personali perché le competenze non possono essere definite una volta per tutte, ma rappresentano una laboriosa conquista personale rispetto alle conoscenze acquisite.
Qusto per quanto riguarda l’autonomia.
E poi? Il secondo criterio è quello della essenzialità e della irrinunciabilità delle conoscenze.
Nelle Indicazioni non c’è tutto quello che le scuole debbono fare: se così fosse saremmo nella logica dei Programmi tradizionali.
Le Indicazioni segnalano ciò è irrinunciabile secondo una logica inclusiva e non esclusiva.
Intorno al nucleo essenziale spetta infatti ai collegi dei docenti e ai singoli insegnanti – anche in relazione alle quote di flessibilità previste dagli orari – articolare i percorsi scolastici integrando la parte essenziale con altre conoscenze in modo adeguato e coerente con il Profilo in uscita previsto per ciascun liceo.
Qual è il valore aggiunto di questo approccio? Questa impostazione – che anche in questo caso non mi pare sia stata finora colta in tutta la sua densità – assegna agli insegnanti una grande responsabilità culturale ed educativa.
Spetta a loro compiere le scelte più idonee per far crescere gli alunni sul piano culturale, nel senso critico, aiutandoli a diventare persone capaci di capire e non solo di ripetere.
C’è bisogno dunque non solo di docenti «tecnici esperti», ma anche docenti capaci di stimolare le capacità personali e promuovere cultura.
Come dobbiamo orientarci nei documenti? Sono fruibili da un vasto pubblico.
Mi pare molto importante segnalare lo stile con cui le Indicazioni sono state elaborate e scritte.
Non più di due pagine per ciascuna disciplina, con l’impiego di un vocabolario alla portata di tutti, senza specialismi e senza i gergalismi tipici di una certa letteratura ministeriale. Mi sento di poter dire che dalle Indicazioni viene una lezione di chiarezza, semplicità, trasparenza.
Ognuno ha ovviamente il diritto di esprimere consenso o dissenso, ma nessuno può lamentare oscurità, ambiguità o indeterminatezza.
Si è molto discusso in questi giorni se la scansione cronologica prevista dalle Indicazioni non rischi di esagerare sul versante della contemporaneità.
Insomma, è sempre il ’900 a far discutere.
Era prevedibile.
Penso anche ad alcune annotazioni critiche circa le difficoltà a esplorare in modo adeguato la letteratura italiana contemporanea o alcune scottanti e delicate vicende della storia più recente.
Ma non dobbiamo dimenticare che il Novecento è «il secolo scorso» e che la scuola ha il dovere di esaminarlo criticamente, con la problematicità delle questioni aperte e adottando gli stessi strumenti metodologici impiegati per indagare altri momenti della nostra storia.
Anche sul Risorgimento, per fare un solo esempio, c’è un dibattito aperto, ma nessuno si sognerebbe di sostenere che la diversità di interpretazioni è di ostacolo all’insegnamento scolastico.
Le Indicazioni sottendono una precisa idea di liceo.
Quale? Per noi il liceo è la scuola che preferenzialmente – ma non esclusivamente – fornisce una cultura di accesso universitario.
Abbiamo interpretato quest’idea in senso ampio, perché da un lato ci siamo ricollegati alla storia della tradizione liceale italiana, centrata sul liceo classico, ma dall’altro l’abbiamo innovata, evitando di restarne prigionieri.
In caso contrario avremmo detto che il liceo classico è la scuola dell’eccellenza, e che gli altri licei vengono di conseguenza.
No: la licealità è una ma declinata in modi diversi.
Basta vedere le Indicazioni: italiano, storia, filosofia e lingua straniera sono uguali per tutti i licei.
Una delle parole chiave più controverse della riforma è quella delle competenze.
Anche lei vi ha fatto cenno all’inizio.
Qual è la sua opinione? Penso che questa parola sia ormai abusata.
Preferisco partire dal concetto del sapere.
La scuola ha come scopo di fornire il sapere, che poi si traduce in competenza nella misura in cui è un sapere che ciascuno personalizza.
Non immagino un concetto di competenza oggettivistico, con un’autorità che definisce le competenze per tutti.
Lo Stato ha l’obbligo di definire le cose irrinunciabili perché Tizio sia una persona che ragiona con la sua testa.
La competenza deve essere una conseguenza del sapere, una rielaborazione e una traduzione personale della capacità di apprendere.
Inoltre è una nozione che può presentare dei rischi.
E il primo di questi è senz’altro un eccesso di proceduralismo: che facilita forse il lavoro degli insegnanti, ma che rappresenta certamente una delle tante forme dell’anticultura di oggi.
I licei ancora al bivio tra passato e finte riforme Claudio GentiliIl Sussiduiario.net La prima stesura delle Indicazioni nazionali per i licei ha ricevuto sui media apprezzamenti estesi e non scontati.
Molti di questi apprezzamenti nascono dalla percezione di una forte inversione di tendenza rispetto alla progressiva affermazione, negli anni ’70, di una pedagogia che si proponeva di non imporre regole e non dare nozioni.
Una pedagogia secondo cui il bambino non deve imparare a memoria le tabelline e le date della storia, non deve studiare la grammatica e l’analisi logica.
Insomma in poche parole le Indicazioni nazionali sembrano rispondere in modo convincente a chi chiede una scuola più seria, più rigorosa, con insegnanti preparati e più autorevoli.
Personalmente non sono così ottimista.
La prima stesura delle Indicazioni nazionali, se risponde in modo convincente all’esigenza di andare oltre il metodologismo e un certo linguaggio astruso che ha caratterizzato molti documenti ministeriali, sembra fare una scelta manichea.
Privilegia le conoscenze sulle competenze.
Indica chiaramente le conoscenze su cui basare le competenze, ma non individua un indirizzo chiaro (paradigmatico anche se non prescrittivo) intorno alle competenze da raggiungere.
Su questi aspetti condivido le osservazioni critiche formulate da Giorgio Rembado, da Luisa Ribolzi e da Tiziana Pedrizzi.
Il limite più evidente di queste Indicazioni nazionali è immaginare che si possa tornare ai tempi in cui Berta filava e così superare la dilagante ignoranza dei “nativi digitali”.
Magari.
Ma non penso che sia possibile tornare alla vecchia e cara scuola dove al centro vi erano le discipline rigorosamente insegnate ad una élite di studenti con famiglie acculturate alle spalle.
La sfida sottesa alla ratio del Regolamento di riordino dei licei è un’altra: introdurre un vero e proprio ripensamento del rapporto tra i processi di apprendimento e di insegnamento.
Passare da una didattica basata sulle discipline e sull’insegnamento a una didattica basata sulle competenze realisticamente acquisibili dalla maggioranza degli studenti e sull’apprendimento.
È una rivoluzione copernicana che molti sistemi educativi in Europa hanno affrontato con coraggio e con successo.
Si chiama riforma dell’insegnamento e chiama in causa una profonda trasformazione culturale del ruolo dell’insegnante.
Non ha niente a che vedere con la becera trasformazione del docente in “facilitatore” e in “assistente sociale”.
Non rinuncia al rigore del sapere e alla trasmissione di generazione in generazione del patrimonio della cultura di cui la scuola – e non Internet – è detentrice.
La didattica per competenze è molto diversa da una didattica basata esclusivamente sulle discipline insegnate in forma cattedratica e nozionistica ignorando i risultati di apprendimento.
Non che le discipline vengano meno.
È evidente che le discipline sono la base del “Lego della conoscenza”.
Ma i singoli mattoni del “Lego” (le discipline) concorrono a costruire il “castello dell’apprendimento” (le competenze effettivamente possedute dagli studenti).
Il limite della didattica disciplinarista è proprio l’incapacità di integrazione delle discipline tra di loro e l’individualismo pedagogico.
La prima stesura delle Indicazioni nazionali per i licei sembra puntare in modo squilibrato esclusivamente sulla trasmissione delle conoscenze, esemplificate da materie, testi e programmi e trascurare la più ampia prospettiva educativa che si fa carico della persona e del suo apprendimento, mettendo lo studente in rapporto con le sue potenzialità di evoluzione, richiamando la pluralità delle intelligenze, l’intreccio inevitabile di conoscenze, abilità e qualità personali, i saperi messi al lavoro in campi spesso lontani dall’ambiente scolastico.
D’altro canto è acclarato nelle migliori esperienze internazionali che si apprende meglio integrando le diverse discipline, trattando problemi, collegando i saperi attraverso gli organizzatori concettuali.
Tempo, energia e misura ad esempio si possono apprendere solo integrando sul piano metodologico le diverse discipline scientifiche.
Probabilmente però dietro la soluzione adottata dalla prima stesura delle Indicazioni nazionali per i licei c’è una fuorviante identificazione tra il concetto di competenza e quello di abilità.
Ho cercato di argomentare questa fondamentale differenza in alcuni testi a cui mi permetto di rimandare (“Scuola ed Extrascuola”, Ed.
La Scuola, 2002 e “Umanesimo tecnologico e istruzione tecnica”, Ed.
Armando, 2007).
La lingua italiana per alcuni aspetti è ambigua e ci soccorre l’inglese: competenza è la sintesi di knowledge (conoscenze), skills (abilità), habits (qualità umane, abiti mentali).
Nelle migliori ricerche internazionali la competenza non è una specie, ma un genere di cui la conoscenza è una fondamentale componente, ma che privilegia l’integrazione delle discipline, sviluppandone il potenziale di apprendimento.
In Italia hanno sviluppato interessanti ricerche in questo campo Guasti, Tagliagambe e Margiotta.
E sul piano operativo la Regione Lombardia con applicazioni davvero innovative nel campo dei percorsi triennali di istruzione e formazione professionale.
Più di recente l’Ufficio scolastico regionale della Puglia ha avviato un interessante programma di formazione degli insegnanti basato sul rapporto che intercorre tra le discipline e le competenze.
Noto due rischi che dovrebbero essere evitati.
Innanzitutto la rinuncia all’innovazione didattica in nome di una conservazione del primato esclusivo delle discipline.
E per questo auspico che nella stesura finale delle Indicazioni nazionali si tenga in maggiore considerazione il raccordo tra le diverse aree disciplinari e le competenze da raggiungere descritte in modo non generico.
Ma vi è anche un altro rischio.
Quello di cambiare tutto perché tutto resti come prima limitandosi a chiamare le discipline “competenze” e riproducendo quindi i limiti del cognitivismo.
Fa parte di questo rischio il maldestro tentativo di trasformare l’EQF (European Qualification Framework) in una sorta di nuovo curricolo.
Con lo scopo di promuovere in Europa l’apprendimento permanente, l’EQF, approvato dalla Commissione Europea nell’aprile 2008, è una tassonomia che parte dal livello 1 (la licenza elementare) e arriva al livello 8 (il dottorato).
È un modo per rendere trasparenti e trasferibili diplomi, qualifiche e lauree, sapendo quali competenze corrispondono ai diversi titoli di studio.
Ma l’EQF non è un nuovo curricolo né manda in soffitta le discipline, ma verifica le competenze associandole non solo al profitto scolastico, ma anche alle pratiche professionali.
In campo scolastico il concetto di competenza ha un valore tecnico (di assimilazione di procedure) ma ne ha anche uno eminentemente formativo, legato alle diverse formae mentis (H.
Gardner), agli atteggiamenti cognitivi, alla valenza critica e riflessiva dei saperi.
La didattica per competenze e l’integrazione delle discipline comportano la fine dell’enciclopedismo, cioè della pretesa di riempire di nozioni la testa degli studenti.
Gli studi di Edgar Morin, soprattutto il suo libro Una testa ben fatta, hanno ampiamente dimostrato l’esigenza che i vari tipi di scuola non si limitino ad accumulare negli studenti un insieme di conoscenze disciplinari separate, poco approfondite e per nulla interrelate, ma a fornire loro i saperi critici per continuare ad apprendere.
Nessuno ovviamente vuole che, per evitare il rischio della testa piena prepariamo un menu didattico talmente lontano dal rigore del sapere disciplinare da assicurare ai nostri ragazzi una testa vuota.
Le Indicazioni nazionali fanno dunque benissimo a ribadire l’importanza del sapere disciplinare, ma questo sapere disciplinare deve potersi arricchire per diventare competenza misurabile.
La competenza è conoscenza applicabile, trasferibile, operativa.
Si ha competenza nell’applicare e nel rendere produttivi i saperi: sviluppare competenze critiche è anche aiutare i ragazzi a scoprire quello che emerge dall’intersezione dei vari saperi, tra scienza e storia, tra scienza e arte, tra matematica e filosofia.
Il concetto di competenza non è un concetto “mercantile”, ma è il superamento della frantumazione e della separazione /gerarchizzazione dei saperi.
Ci soccorre ancora una volta la migliore ricerca internazionale sulle competenze che ha trovato una efficace applicazione negli indicatori OCSE-PISA (tanto indigesti non solo per i nostri studenti ma per tanti nostri insegnanti).
È auspicabile che la versione definitiva delle Indicazioni nazionali tenga adeguatamente conto di questi indicatori nel descrivere le competenze che uno studente liceale deve possedere ai vari livelli.
Ricordo che il cardine della rilevazione OCSE-PISA, assunto per indicare le competenze in lettura, matematica e scienze, è il concetto di literacy, termine con il quale l’OCSE indica l’insieme delle conoscenze e delle abilità possedute da un individuo e la sua capacità di utilizzarle.
La literacy scientifica è definita dall’OCSE come: “L’insieme delle conoscenze scientifiche di un individuo e l’uso di tali conoscenze per identificare domande scientifiche, per acquisire nuove conoscenze, per spiegare fenomeni scientifici e per trarre conclusioni basate sui fatti riguardo a temi di carattere scientifico, la comprensione dei tratti distintivi della scienza intesa come forma di sapere e d’indagine propria degli essere umani, la consapevolezza di come scienza e tecnologia plasmino il nostro ambiente materiale, intellettuale e culturale e la volontà di confrontarsi con temi legati alle scienze, nonché con le idee della scienza, da cittadino che riflette”.
Quella matematica viene presentata come “la capacità di un individuo di identificare e di comprendere il ruolo che la matematica gioca nel mondo reale, di operare valutazioni fondate e di utilizzare la matematica e confrontarsi con essa in modi che rispondono alle esigenze della vita di quell’individuo in quanto cittadino che riflette, che s’impegna e che esercita un ruolo costruttivo”.
Infine la literacy in lettura è “la capacità di un individuo di comprendere, di utilizzare e di riflettere su testi scritti al fine di raggiungere i propri obiettivi, di sviluppare le proprie conoscenze e le proprie potenzialità e di svolgere un ruolo attivo nella società”.
La matematica, così come l’italiano, è una disciplina i cui contenuti sono funzionali anche all’apprendimento di altre discipline.
Le difficoltà di lettura, scrittura e analisi quantitativa influiscono di solito negativamente sulle capacità di studio, approfondimento e aggiornamento delle persone e costituiscono il maggiore rischio di insuccesso, scolastico e professionale.
Rilevo l’urgenza di definire gli standard formativi di riferimento per la valutazione e la certificazione delle competenze.
Rientra in questo percorso la necessità di realizzare attorno all’espressione “competenza” uno sforzo di sintesi dei diversi approcci culturali, che abbandoni una volta per tutte il vecchio preconcetto idealista che vuole la scuola legata all’otium e ben lontana dal negotium.
Se Leibniz sosteneva che “la cultura libera dal lavoro”, Spinoza replicava che “ogni uomo dotto che non sappia anche un mestiere diventa un furfante”.
Le Indicazioni “parlano” finalmente una lingua diversa, ora i prof sapranno usarla? Feliciana Cicardi Il Sussidiario .net Sulla scia dei Regolamenti arrivano al grande pubblico e agli addetti ai lavori le “Indicazioni” per i nuovi licei.
La bozza – perché di ciò si tratta – è suddivisa nelle Indicazioni relative alle varie discipline.
Le quali Indicazioni constano di due/tre cartelle relative ad ogni singola disciplina.
Nessuna pletora quindi, ma una presentazione sintetica di un profilo generale e delle relative competenze disciplinari.
Prendendo in esame il testo relativo alla lingua e letteratura italiana si scopre che in un piccolo spazio testuale si possono rinvenire interessanti e necessari punti di attenzione afferenti alle conoscenze/competenze che strutturano la generale competenza linguistica.
Una prima gradita novità è costituita dalle due sezioni in cui è presentata la disciplina: “lingua” e “letteratura”.
Ma sono molti gli elementi di positività incontrabili nel documento.
Innanzitutto si intravede una continuità con le Indicazioni del 2007 relative al 1° ciclo di istruzione, una continuità rinvenibile nella correttezza con cui è disegnata la lingua e nella evidenziazione delle competenze linguistiche.
Infatti, al di là delle modalità testuali di presentazione, si riscontra nelle Indicazioni per il 1° ciclo ed in quelle per i licei una griglia strutturata su conoscenze, abilità e competenze riscontrabili in entrambi i documenti.
Ciò ovviamente non deve far pensare che nei vari segmenti scolastici si debbano proporre gli stessi contenuti e le stesse conoscenze, solo un po’ più approfondite.
Si sa per quanto tempo il segmento della scuola secondaria di 2° grado abbia lanciato i suoi “J’accuse” ai segmenti scolastici precedenti lamentando che il primo compito della scuola secondaria superiore fosse quello di colmare e recuperare le lacune presenti nei saperi degli studenti.
La questione va guardata da un’altra ottica.
Le conoscenze e i saperi non vanno riproposti ciclicamente nei vari segmenti scolastici, cerchi concentrici che allargano il loro raggio nello svolgersi del tempo scolastico: esiste una progressione nell’analisi degli “oggetti” disciplinari ed un incremento di processi e strategie cognitive perché si produca negli studenti un apprendimento significativo, cioè fatto proprio e rigiocato in situazioni varie.
Va da sé che le competenze, che per definizione sono in fieri, vanno potenziate ed irrobustite via via che si sale nell’età scolare (un piccolo suggerimento.
Sarebbe utile esplicitare nel documento le competenze essenziali che costituiscono la competenza linguistica generale: competenza testuale, competenza pragmatica, ecc.).
La continuità tra il 1° ciclo e i licei è data anche dagli elementi con cui è presentato e proposto l’oggetto “lingua”.
La lingua è descritta a tutto tondo nei suoi elementi costitutivi.
Non solo le sue strutture e le sue regole sono oggetto di analisi e conoscenza (la tanto vituperata grammatica) ma i meccanismi che governano la lingua proposti come oggetto di conoscenza ma anche come competenza d’uso della lingua stessa.
Si intravedono in filigrana elementi offerti dalla sociolinguistica, dalla pragmatica, dalla storia della lingua e dalla testualità.
Si fa ricorso a quelle che fino a non molto tempo fa venivano definite le abilità linguistiche sul versante della fruizione e della produzione: ascoltare, leggere, parlare, scrivere).
Sia nel parlato che nello scritto si sottolinea che lo studente “nella produzione personale dovrà saper variare l’uso della lingua a seconda dei diversi contesti e scopi comunicativi, compiendo anche le adeguate scelte retoriche pragmatiche e ampliando contestualmente il proprio lessico” (Indicazioni).
In una società in cui la lingua in generale, ma ancor più nei giovani, è stereotipata, usata in contesti comunicativi monotipo che non sono primariamente quelli scolastici – anzi ben distanti dall’articolazione testuale usata nella scuola – è importante il suggerimento che la scuola presenti situazioni e prodotti linguistici che superino lo “scolastichese”, attraverso l’analisi dei vari fenomeni linguistici ma, anche e soprattutto, attraverso l’uso reale della lingua in contesti diversificati, pena una nuova “grammatica” pesante fatta di “nozioni” sui fenomeni linguistici.
Lo studente deve presentarsi come produttore consapevole di lingua quale strumento per comunicare, per relazionarsi, per conoscere gli altri e per conoscere sé.
Non a caso tra gli obiettivi specifici di apprendimento del primo biennio si trova l’indicazione secondo cui “nell’ambito della produzione orale si darà rilievo al rispetto dei turni verbali, all’ordine dei turni e alla concisione ed efficacia espressiva” (Indicazioni).
Viene auspicato anche lo sviluppo della competenza testuale attiva e passiva attraverso la proposta di esercitazioni che esplicitino tale competenza: “riassumere, titolare, parafrasare, variare i registri e i punti di vista”.
Tenendo presente che negli ultimi decenni il “testo” nel 1° ciclo è stato proposto come oggetto linguistico di analisi quasi autoptica, soffocando con l’eccesso di analiticità il piacere di incontrare un testo e in misura ahinoi molto minore la capacità di fare propri e quindi usarli i meccanismi linguistici per comprendere e produrre testi comunicativamente efficaci e ben confezionati.
La storia insegna.
Non si deve ripetere l’errore di proporre sotto nuove vesti un nozionismo linguistico, anziché sviluppare negli studenti il piacere di usare la lingua come strumento principe per conoscere il mondo e porsi nel mondo.
In nome dell’autonomia viene lasciata alle singole scuole e ai singoli docenti la scelta di una didattica adeguata ed efficace perché i ragazzi raggiungano obiettivi e competenze proposte dalle Indicazioni.
Il Prof.
Giorgio Chiosso su queste pagine richiama che il rispetto dell’autonomia «assegna agli insegnanti una grande responsabilità culturale ed educativa.
Spetta a loro compiere le scelte più idonee per far crescere gli alunni sul piano culturale, nel senso critico, aiutandoli a diventare persone capaci di capire e non solo di ripetere.
C’è bisogno dunque non solo di docenti “tecnici esperti”, ma anche docenti capaci di stimolare le capacità personali e promuovere cultura».
Ciò comporta che i docenti individuino metodologie e prassi didattiche adeguate allo scopo formativo e culturale della scuola e della singola disciplina.
In fondo si richiede una revisione della professionalità dei docenti.
Chi insegna agli insegnanti a promuovere apprendimento? All’uscita dei Nuovi Programmi per la scuola elementare del 1985 fu attivato dal ministero un Piano Pluriennale di aggiornamento per i Nuovi Programmi.
Durò cinque anni, tanti quante erano le aree disciplinari di cui erano composti i programmi, ed ogni insegnante ebbe modo di rivisitare teoria e pratica delle singole discipline.
I tempi sono mutati, nel frattempo è stato introdotto il criterio dell’autonomia, oggi si parla di “indicazioni”.
Ma il bisogno di rivedere le conoscenze e le azioni didattiche relative ad una disciplina resta.
Il primo elemento, le conoscenze disciplinari derivanti dalle nuove teorie e ricerche, dovrebbe essere appannaggio delle università.
La metodologia e la didattica disciplinare può essere messa in discussione, rivista ed attualizzata nell’efficacia in luoghi che consentano un confronto.
Il primo di questi luoghi può essere il dipartimento disciplinare presente nei singoli istituti scolastici che magari si strutturano in rete.
Altre sedi possono essere le associazioni disciplinari ed altro ancora.
Si tratta di far uscire dalla autoreferenzialità strutture culturali ed associative perché si pongano come obiettivo una rivisitata competenza metodologica e didattica dei docenti, di primo pelo o di lungo corso.
Sono solo alcune idee.
Chi ha stilato le Indicazioni dovrebbe anche pensare di creare le condizioni perché queste non rimangano lettera morta sulla carta, ma reale occasione per rendere la scuola luogo di cultura e di crescita di sé per i ragazzi e, perché no, luogo in cui il docente possa trovare soddisfazione nell’efficacia culturale e formativa del suo agire professionale.
Per insegnare con libertà e autonomia ci vogliono ancora Dante e Manzoni Luca Serianni il sussidiario.net martedì 6 aprile 2010 Per comprendere la bozza di Indicazioni destinate ai licei, conviene spendere qualche parola sui criteri che hanno guidato la loro stesura.
Un programma efficace deve prima di tutto essere scritto in forma chiara; porsi degli obiettivi concreti e ragionevoli (anche esemplificando, quando sembri opportuno farlo); sottolineare quali sono i capisaldi irrinunciabili, pur nell’ovvia e doverosa riaffermazione della libertà di ciascun insegnante e dei margini d’autonomia delle singole scuole.
Il programma di italiano è lo stesso per tutti i tipi di liceo, nella convinzione che l’acquisizione piena e consapevole della lingua nazionale e il contatto non episodico con i grandi autori letterari siano obiettivi comuni.
In particolare: a) Si dà fondamentale rilievo all’addestramento linguistico, che non può ammettere né smagliature a livello elementare (ortografia) né approssimazioni per quanto riguarda la padronanza del lessico astratto e la capacità di strutturare l’argomentazione con una sintassi adeguata.
Allo scopo si menziona esplicitamente nel profilo generale la pratica del riassunto, comunemente disattesa ma decisiva per misurare il grado di comprensione di un testo dato, la capacità di individuarne le informazioni salienti, l’abilità di riscrittura.
È importante altresì far conseguire allo studente la coscienza della storicità della lingua italiana e la consapevolezza del suo attuale statuto sociolinguistico.
b) Nella letteratura, si punta sulla lettura diretta dei testi rispetto allo svolgimento astratto del percorso storiografico.
Nel biennio l’esigenza fondamentale è quella di suscitare nell’alunno il piacere della lettura attraverso un efficace ventaglio di testi moderni e contemporanei, italiani e stranieri, ma anche proponendo il contatto con un grande classico (epica e Promessi Sposi).
Nel triennio, si conferma essenziale il percorso storico, ma con la rinuncia a un enciclopedismo che si rivelerebbe velleitario: sia se si volessero passare in rassegna tutti gli autori e le correnti di un certo significato culturale e storico; sia se, dei massimi, si pretendesse di trattare non solo i capolavori, ma anche le opere secondarie (raccomandabili, dunque, per Boccaccio solo il Decameron; per Ariosto solo l’Orlando Furioso; in compenso quei testi capitali andranno letti senza fretta, con attenzione anche alle scelte linguistiche e stilistiche e senza rinunciare alla salutare pratica della parafrasi, che rappresenta il primo, necessario, livello di una qualsiasi explication du texte).
Da questi presupposti appare naturale confermare l’importanza di Dante, anche dal punto di vista identitario: i 25 canti previsti come lettura minima nel corso del triennio rappresentano per lo studente un impegno che non può essere sottovalutato e, per il docente, una scommessa sulla grandezza artistica dell’Alighieri e sulla sua attualità anche per le giovani generazioni.
Sarà inutile ribadire che, per il molto che non viene esplicitato, l’insegnante potrà e dovrà operare sue personali scelte, tenendo conto sia del tipo di scuola (l’Alberti, per esempio, avrà particolare spazio, anche come scrittore, nel Liceo artistico), sia della classe, sia della sua personale idea di letteratura e delle sue propensioni di studioso o di lettore.
Quanto al latino, il programma è fortemente differenziato nei tre licei che ne prevedono lo studio.
In ogni caso si introduce il principio che la versione, nel suo assetto tipico, cioè come un brano estratto da un contesto imprecisato e munito solo del nome dell’autore, non rappresenta l’unico modello di esercitazione scritta.
Nei licei classico e scientifico, e soprattutto nel secondo, sarà utile prevedere prove variamente agevolate (per esempio con una breve introduzione che le contestualizzi o con note che esplicitino riferimenti o anche suggeriscano la costruzione di passi impervi): ciò anche allo scopo di allargare il canone degli autori proposti, senza escludere testi poetici.
In ogni caso è importante non ridurre l’insegnamento linguistico al tradizionale apparato morfosintattico, ma far riflettere l’alunno sui rapporti lessicali e semantici che collegano il latino al greco (per il liceo classico) o all’italiano e alle altre lingue europee moderne note, a cominciare dall’inglese.
Lo studio degli autori letterari dovrà prevedere letture in traduzione, senza ridursi ai pochi brani canonici.
Nel liceo linguistico lo studio del latino, limitato al primo biennio, sarà incentrato sulla lingua, con l’intento di favorire una sensibilità contrastiva sulle sue strutture rispetto a quelle dell’italiano e delle altre lingue moderne (per esempio: presenza/assenza del genere neutro, espressione del passivo), con particolare insistenza su lessico, semantica e formazione delle parole (puer-puerilis, hodie-hodiernus).
In ogni caso, un punto deve emergere chiaramente: il latino si studia per il suo significato storico e culturale, tuttora decisivo nel nostro orizzonte umanistico; non per arrivare alla composizione in quella lingua, come avveniva ancora in diversi àmbiti intellettuali nell’Ottocento.
Se è preziosa l’occasione di una riflessione metalinguistica offerta dal latino – astrattamente possibile ma poco opportuna per una lingua moderna, che si studia per praticarla in contesti comunicativi reali – ciò non significa continuare a perseguire l’assurda caccia alle “eccezioni” (alcuni testi per le scuole ci informano ancora di quale sia l’accusativo di buris “manico dell’aratro”).
È fondamentale liberare lo studio del latino dalla polvere ingiustamente accumulatasi su di esso e dall’impressione che gli sforzi compiuti dall’alunno non siano proporzionali ai risultati raggiunti.
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