Quella mattina, nel suo primo viaggio in Brasile, il caldo tropicale rendeva tutto – per noi, europei – un po’ improbabile.
Il Papa, scendendo dalla sua residenza verso Rio, intravide alcune casupole a sinistra della strada.
Domandò.
E la risposta: «Qui le chiamiamo favelas.
Ci sono sempre vicino ai grandi agglomerati urbani».
Osservandolo, si vedeva che lui rifletteva.
Come per capire, anzi immaginare quella realtà a lui ancora sconosciuta.
E decise di visitare quella favela, anzi di condividere almeno per qualche momento la vita con quelle persone.
Camminare per lo spazio che lasciavano le casupole non era facile.
Quelli spazi erano, insieme, strade e fogne all’aperto.
La gente riempiva tutti e due.
Quasi tutti sapevano che lontano, a Roma, cioè a metà strada tra il cielo e la terra c’era il Papa.
Ma vedere lì il Papa era per loro qualcosa di inimmaginabile.
Non c’era un percorso previsto: lui girava verso dove sentiva una voce, un grido: da qua e di là.
Non era possibile comunicare con parole ma bastava il gesto: l’abbraccio, posare le mani sul capo, baciare un bambino nudo e abbronzato.
Vide una signora, anziana e sola, un poco separata dalla folla.
Era seduta su qualche cosa: evidentemente non poteva alzarsi e avvicinarsi al Papa.
Bruscamente, lui si voltò verso quella misera casupola.
Lui sorrideva.
Lei aveva sul viso un’espressione perplessa.
Lei alzò le braccia.
Lui prese tutte e due le sue mani e poi, mentre l’abbracciava prese tra le sue mani le guance di quel viso segnato dal tempo e dalla privazione.
La signora, allora, simultaneamente rideva e piangeva.
Il tempo sembrò fermarsi in quel silenzio espressivo dei gesti.
Forse nemmeno il Papa – per un momento – sapeva come sarebbe andato a finire quel momento.
Ma lui decise.
Con straordinaria delicatezza allontanò di poco la figura che aveva davanti.
E, mentre continuava guardarla, si sfilò dalle dita delle sue mani l’anello che portava con lui.
E, quasi di nascosto, lo depose nella mani di quella donna.
Fece in tempo di baciarla ancora una volta.
E si allontanò.
Quell’anello – molto semplice, senza pietra – lo aveva portato fin da quando fu ordinato vescovo.
Dopo la sua elezione non volle cambiarlo per uno nuovo e più “papale”.
Era il “suo” anello: quello legato a tanti momenti della sua biografia.
Forse era la unica cosa veramente “sua” che aveva.
Sicuramente, quella donna non ha saputo mai quale valore avesse quell’anello.
E io non ho saputo mai di quell’anello che vidi per l’ultima volta nelle mani di una persona anziana e sola di una favela di Rio.
di Joaquìn Navarro-Valls in “la Repubblica” del 2 aprile 2010 L’eredità di Wojtyla La Chiesa di Giovanni Paolo II cinque anni dopo di Giancarlo Zizola in “la Repubblica” del 2 aprile 2010 Le polveri d’oro dell’apologetica cominciano a deporsi, cinque anni dopo il 2 aprile 2005 quando alle 21,20 la notizia più ovvia e egualmente crudele che Karol Wojtyla era morto dopo il terzo papato più longevo della storia fece sentire più povero il mondo.
Non che siano esauriti i tentativi di requisirne la figura dentro gli schemi barocchi del processo di beatificazione, con la caccia al miracolo fisico e le improbabili trovate delle autoflagellazioni, c’è l’ostinazione di un ceto clericale di imprigionare i lampi del carisma profetico, da cui l’uomo si faceva talora travolgere, entro i disperati bisogni di credito dell’Istituzione, specie ora che nuota in cattive acque.
Difficile giurare che la crisi del sistema possa portare questa Chiesa a capire che la migliore beatificazione per Giovanni Paolo II sarebbe di portarne a compimento seriamente l’opera.
E cioè completare quegli avvii di riforma, quel nuovo universalismo che si chiamano dialogo permanente con le grandi religioni extra-europee, priorità alla cultura della pace, inculturazione del cristianesimo nelle grandi tradizioni spirituali del mondo, discernimento dei valori storici di un mondo in trasformazione, presa d’atto della fine della cristianità, cambio dello statuto della monarchia assoluta pontificia, povertà della Chiesa, governo collegiale coi vescovi.
Difficile che si comprenda, nell’attuale psicosi dello stato d’assedio, che proprio questa sarebbe la migliore difesa della Grande Tradizione cattolica, come nelle maggiori svolte della sua storia.
Ma «non spetta ai profeti portare a termine il disegno loro affidato» dice Padre Bartolomeo Sorge, nella sua autobiografia (“La Traversata.
La Chiesa dal Concilio Vaticano II a oggi”, Mondadori).
E anche lui discute delle tante “battaglie perdute” di Wojtyla, delle croci interne che hanno segnato il suo profetismo non meno di quanto lo afflissero i colpi di Alì Agca, il fallimento del suo sogno russo, l’opposizione di una parte dei cardinali alla sua obiezione alle guerre dei Bush, l’isolamento brutale del suo Mea Culpa giubilare per le violenze storiche e gli sbagli della Chiesa.
Tanti e impegnativi i problemi lasciati aperti da Wojtyla, ammette il Gesuita.
E fa intuire da un episodio che la grandezza di quel papa fu solo in parte realizzata, che la sua coscienza di essere portatore di un messaggio universale andava oltre le catture della facile identificazione difensiva tra cattolicesimo e Occidente, lo portava piuttosto a sentire la responsabilità di portare la Chiesa a colmare il vuoto creato dalla caduta del comunismo, cui aveva dato mano.
Avvenne al primo incontro informale del Papa con Sandro Pertini a Castel Porziano, nel 1979.
Il Presidente, laico, socialista, si stupiva anche dopo anni che il Papa non avesse cercato di convertirlo: «Santità, io seguo sempre la mia coscienza!», gli disse.
Giovanni Paolo II lo prese amichevolmente per un braccio: «Bene,bene!», gli rispose.
«Segua sempre la sua coscienza.
Perché la coscienza è Trascendenza».
Del resto l’ipotesi di un pontificato lungo un quarto di secolo ma egualmente incompiuto si nutre anche sui rovesciamenti paradossali delle sue ultime ore: non più viaggi ma immobilità, non più linguaggi e magistero ma silenzio, non la logica della ricerca della sicurezza mondana e del successo esteriore della cristianità, ma lo scacco.
L’inferiorità, l’impotenza, l’umiliazione riproducevano nel papa malato l’icona della crocifissione di Pietro cui la Chiesa era invitata a tornare: Chiesa spirituale forse ancora sperabile nel punto limite dell’estremo fallimento della Chiesa politica trionfante.
Ma forse quella figura mondialista di Chiesa che traboccava dai suoi stadi acclamanti non era che la copertura di una crisi interna da riforma interrotta, la stessa di cui è figlio il clero pedofilo in una Chiesa che si è rifiutata di uscire convertita dalla casta per farsi comunitaria.
Dall’inizio del pontificato il papa slavo aveva operato uno sforzo eccezionale per rafforzare la presenza pubblica e la credibilità del messaggio della Chiesa.
Il suo obiettivo: condurre la Chiesa, guardiana e dispensatrice di salvezza, nel cuore del dibattito pubblico, sul terreno civile e antropologico di società temporali in piena crisi di valori.
La “nuova evangelizzazione” e il “terzo millennio” erano i temi portanti sui quali il pontificato tentava di incidere i motivi classici di una cristianità fondata su una identità ecclesiale nettamente definita, col rafforzamento del ruolo egemonico del clero sul “popolo di Dio”, ben presto declassato a vantaggio dei movimenti identitari militanti.
Sul piano internazionale, la Santa Sede aveva incontestabilmente guadagnato in influenza.
Ma sul piano dottrinale e pastorale i gesti simbolici, accompagnati da involuzioni e prudenze reali, prendevano il passo sullo sviluppo delle ispirazioni conciliari, frustrandone l’universalismo potenziale.
Molti si interrogavano sul rilancio neo-medievale del primato assoluto del papa, sull’eccesso di mediatizzazione, sull’opzione di una religione spettacolo, nell’ora in cui sembrava piuttosto incombere la necessità di formare dei cristiani di minoranza cosciente in una società globale secolarizzata .
In questa ottica, anche i viaggi di un papato che si voleva anzitutto “itinerante” erano analizzati come strumenti di centralizzazione pastorale per una Chiesa destinata a diventare più papale che mai, nella mentalità e anche nelle strutture, in una strategia mirata a trasformare il vescovo di Roma in una figura globale, il “solus Pontifex” di gregoriana memoria, all’apice di un sistema politicodiplomatico dall’espansione senza precedenti.
E dietro a tutto questo, si delineava il recupero di un ruolo politico da parte della Chiesa, a spese della opzione spirituale adottata dal Vaticano II.
Le condanne della teologia della liberazione, il soffocamento della cristologia indiana, l’insabbiamento delle richieste del Sinodo africano di un diritto canonico matrimoniale e di modelli liturgici e pastorali in accordo con le tradizioni africane, il controllo penetrante degli Ordini religiosi, ecco(in parte) i punti critici sull’universalismo di Re Karol.
Mentre il suo dinamismo missionario imprimeva certamente il suo calore sulle relazioni della Chiesa con i mondi religiosi “altri”, come l’ebraismo e l’islam.
E chissà se proprio da quei mondi non potrebbe sorgere l’aurora di un “nuovo passaggio ai Barbari” anche per una Chiesa cui l’Occidente sta stretto.
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