Senza questo silenzio – che pur conosce contraddizioni da parte dei monaci – non sarebbe possibile una vita di lotta contro la dispersione, l´ansia, la distrazione, il de….
ment, come lo definiva Pascal.
Si tratta, infatti, di unificare la vita, di giungere a una semplificazione del cuore attraverso il lungo lavoro di “ordinare” i pensieri, i sentimenti, le azioni: uno sforzo costante verso la conoscenza di sé, del proprio profondo, in modo da imprimere alla vita consapevolezza, responsabilità e bellezza.
Ma a volte questo silenzio dei muri, dei corridoi, delle celle, del chiostro, del giardino o del bosco appare abitato da pensieri che urlano con voce straziante.
Antonio, il primo monaco solitario cristiano, li chiamava “demoni” e aveva la percezione di vederli nella cella, intenti ad assalirlo mentre si sentiva solo, debole e fragile, fino a interrogarsi se Dio non lo avesse abbandonato…
Sono le tentazioni dell´eremita, come di chi vive la solitudine all´interno di una comunità monastica.
Ma sono anche le stesse tentazioni proprie di ogni uomo, perché il monaco è un uomo come gli altri, vulnerabile come gli altri: la solitudine, il silenzio, l´ascesi gli consentono forse una maggiore consapevolezza nel guardare in faccia questi pensieri-tentazioni e nell´affrontarli.
Sono “avversari” di ogni tipo, dalle tentazioni più basse ai pensieri più sottili: il non credere più in Dio né in nulla, lo spettro della nientità che tutto dissolve in nonsenso, il peso dei propri peccati che porta a dubitare del perdono e della possibilità di trovare il bene nell´uomo.
Il monaco conosce anche questa contraddizione al silenzio che viene dal suo cuore, dalla sua psiche e che lo rende a volte esperto di a-teismo.
Anche per questo, nella sua vita quotidiana il monaco giustappone al silenzio il canto, più volte al giorno: vive nella custodia amorosa del silenzio, eppure canta assieme agli altri nella preghiera con inni, salmi, orazioni…
La preghiera, intessuta della parola di Dio è lo spazio vitale in cui lo stesso silenzio è ricondotto alla sua qualità di ricerca di Dio: lì si esprime quella sete che dal deserto, dalla terra arida che ciascuno sente di essere, fa muovere verso l´essere umano autentico la cui vita può divenire un capolavoro.
E nella preghiera comunitaria si ritrova anche l´altro elemento fondamentale della vita monastica, cui il silenzio stesso è orientato: l´ascolto.
Sì, l´invito di san Benedetto al silenzio è in funzione di quell´esortazione che apre la sua regola per i monaci: «Ascolta!».
Ascolto del silenzio che parla, certo, ascolto della parola di Dio che richiede di far tacere le altre parole, ma anche ascolto dell´altro, del fratello e della sorella, di quanti bussano alla porta del monastero per confidare soprattutto le loro fatiche e le loro sofferenze, quando la durezza della vita li porta a interrogarsi sul senso ultimo che sovente lo star bene ottunde.
Il lungo silenzio del monaco in cella, la sua solitudine a volte così pesante da portare alla sera – silenzio e solitudine abitati dalla preghiera – sono così preparazione all´ascolto degli altri: ascolto a volte faticoso, perché richiede comprensione, simpatia, condivisione e magari parole che non si vorrebbero pronunciare né udire.
Sovente questo silenzio oggi inusuale spaventa chi vi si accosta per la prima volta: non manca chi si affretta a tornare alla propria vita quotidiana in cui il rumore, il chiacchiericcio, la molteplicità dei messaggi distoglie dal porsi le domande vere e dall´affrontare i pensieri-tentazioni che sorgono nel cuore.
Ma così si preferisce il sonnambulismo spirituale, il non conoscersi in profondità, e si finisce per imboccare percorsi di alienazione anziché vie di umanizzazione.
Sì, c´è un grande silenzio che avvolge molte esistenze piene di vita, fatte di lavoro e di preghiera in un nascondimento che oggi molti non riescono più a comprendere, un silenzio soprattutto dei corpi e dei volti, che talora si celano nell´anonimato anche quando si fanno eloquenti nella scrittura, firmandosi semplicemente come «un certosino…
una monaca benedettina…
un eremita…
un monaco d´occidente…».
Eppure forse sono là in disparte anche per ricordarci che ogni parola autentica nasce dal silenzio e dal silenzio è custodita.
in “la Repubblica” del 4 aprile 2010 Quando uno varca la soglia di un monastero, a volte trova di fronte a sé un affresco o un´icona del patriarca dei monaci, san Benedetto che, dito sulla bocca, invita al silenzio: «Tace!».
Del resto, già i padri del deserto nel Quarto secolo cercavano di vivere secondo il detto di abba Arsenio: «Fuge (cioè ritirati in disparte), tace (fa´ silenzio), quiesce (ricerca la pace)!».
Per quanti fanno vita monastica, il silenzio è l´atmosfera, l´ambiente in cui vivono la loro tensione a quaerere Deum, a cercare Dio, impegno che contiene innanzitutto il quaerere hominem, cercare l´essere umano.
Dal canto dell´ultima preghiera della sera (verso le venti) fino all´ora ancora notturna che precede l ´alba (attorno alle quattro), i monaci e le monache osservano il “grande silenzio”: da soli, nella loro cella, cercano di vegliare, di leggere, di pensare e di pregare.
Ma anche durante il giorno le regole chiedono che il monaco faccia silenzio, parli se è necessario alla carità, e comunque vigili sempre a che la sua parola miri a ciò che è essenziale, autentico, veritiero, evitando non solo ogni doppiezza o menzogna, ma anche di dire ciò che non fa o che non pensa in profondità.
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