Un’aggressione al Papa e alla democrazia di Marcello Pera Caro direttore, la questione dei sacerdoti pedofili o omosessuali scoppiata da ultimo in Germania ha come bersaglio il Papa.
Si commetterebbe però un grave errore se si pensasse che il colpo non andrà a segno data l’enormità temeraria dell’impresa.
E si commetterebbe un errore ancora più grave se si ritenesse che la questione finalmente si chiuderà presto come tante simili.
Non è così.
È in corso una guerra.
Non propriamente contro la persona del Papa, perché, su questo terreno, essa è impossibile.
Benedetto XVI è reso inespugnabile dalla sua immagine, la sua serenità, la sua limpidezza, fermezza e dottrina.
Basta il suo sorriso mite per sbaragliare un esercito di avversari.
No, la guerra è fra il laicismo e il cristianesimo.
I laicisti sanno bene che, se uno schizzo di fango arrivasse sulla tonaca bianca, verrebbe sporcata la Chiesa, e se fosse sporcata la Chiesa allora lo sarebbe anche la religione cristiana.
Per questo i laicisti accompagnano la loro campagna con domande del tipo «chi porterà più i nostri figli in Chiesa?», oppure «chi manderà più i nostri ragazzi in una scuola cattolica?», oppure ancora «chi farà curare i nostri piccoli in un ospedale o una clinica cattolica?».
Qualche giorno fa una laicista si è lasciata sfuggire l’intenzione.
Ha scritto: «L’entità della diffusione dell’abuso sessuale su bambini da parte di sacerdoti mina la stessa legittimazione della Chiesa cattolica come garante della educazione dei più piccoli».
Non importa che questa sentenza sia senza prove, perché viene accuratamente nascosta «l’entità della diffusione»: un per cento di sacerdoti pedofili? dieci per cento? tutti? Non importa neppure che la sentenza sia priva di logica: basterebbe sostituire «sacerdoti» con «maestri» o con «politici» o con «giornalisti» per «minare la legittimazione» della scuola pubblica, dei parlamenti o della stampa.
Ciò che importa è l’insinuazione, anche a spese della grossolanità dell’argomento: i preti sono pedofili, dunque la Chiesa non ha autorità morale, dunque l’educazione cattolica è pericolosa, dunque il cristianesimo è un inganno e un pericolo.
Questa guerra del laicismo contro il cristianesimo è campale.
Si deve portare la memoria al nazismo e al comunismo per trovarne una simile.
Cambiano i mezzi, ma il fine è lo stesso: oggi come ieri, ciò che si vuole è la distruzione della religione.
Allora l’Europa pagò a questa furia distruttrice il prezzo della propria libertà.
È incredibile che soprattutto la Germania, mentre si batte continuamente il petto per la memoria di quel prezzo che essa inflisse a tutta l’Europa, oggi, che è tornata democratica, se ne dimentichi e non capisca che la stessa democrazia sarebbe perduta se il cristianesimo venisse ancora cancellato.
La distruzione della religione comportò allora la distruzione della ragione.
Oggi non comporterà il trionfo della ragion laica, ma un’altra barbarie.
Sul piano etico, è la barbarie di chi uccide un feto perché la sua vita nuocerebbe alla «salute psichica» della madre.
Di chi dice che un embrione è un «grumo di cellule» buono per esperimenti.
Di chi ammazza un vecchio perché non ha più una famiglia che se ne curi.
Di chi affretta la fine di un figlio perché non è più cosciente ed è incurabile.
Di chi pensa che «genitore A» e «genitore B» sia lo stesso che «padre» e «madre».
Di chi ritiene che la fede sia come il coccige, un organo che non partecipa più all’evoluzione perché l’uomo non ha più bisogno della coda e sta eretto da solo.
E così via.
Oppure, per considerare il lato politico della guerra dei laicisti al cristianesimo, la barbarie sarà la distruzione dell’Europa.
Perché, abbattuto il cristianesimo, resterà il multiculturalismo, che ritiene che ciascun gruppo ha diritto alla propria cultura.
Il relativismo, che pensa che ogni cultura sia buona quanto qualunque altra.
Il pacifismo che nega che il male esiste.
Questa guerra al cristianesimo non sarebbe così pericolosa se i cristiani la capissero.
Invece, all’incomprensione partecipano molti di loro.
Sono quei teologi frustrati dalla supremazia intellettuale di Benedetto XVI.
Quei vescovi incerti che ritengono che venire a compromesso con la modernità sia il modo migliore per aggiornare il messaggio cristiano.
Quei cardinali in crisi di fede che cominciano a insinuare che il celibato dei sacerdoti non è un dogma e che forse sarebbe meglio ripensarlo.
Quegli intellettuali cattolici felpati che pensano che esista una questione femminile dentro la Chiesa e un non risolto problema fra cristianesimo e sessualità.
Quelle conferenze episcopali che sbagliano l’ordine del giorno e, mentre auspicano la politica delle frontiere aperte a tutti, non hanno il coraggio di denunciare le aggressioni che i cristiani subiscono e l’umiliazione che sono costretti a provare dall’essere tutti, indiscriminatamente, portati sul banco degli imputati.
Oppure quei cancellieri venuti dall’Est che esibiscono un bel ministro degli esteri omosessuale mentre attaccano il Papa su ogni argomento etico, o quelli nati nell’Ovest, i quali pensano che l’Occidente deve essere laico, cioè anticristiano.
La guerra dei laicisti continuerà, se non altro perché un Papa come Benedetto XVI che sorride ma non arretra di un millimetro la alimenta.
Ma se si capisce perché non si sposta, allora si prende la situazione in mano e non si aspetta il prossimo colpo.
Chi si limita soltanto a solidarizzare con lui o è uno entrato nell’orto degli ulivi di notte e di nascosto oppure è uno che non ha capito perché ci sta.
in “Corriere della Sera” del 17 marzo 2010 Ruini contro l’assedio etico al clero, critico sull’operazione Bonino intervista a Camillo Ruini a cura di Paolo Rodari Accetta di parlare della pedofilia dei sacerdoti.
Difende il Papa, accusa i media e tutti coloro che alimentano il vento della diffamazione contro la chiesa cattolica.
Perché quando l’argine delle diffamazioni supera il limite occorre reagire e dire una parola che resti.
Nella sua abitazione appena fuori le mura leonine che delimitano la Città del Vaticano, di ritorno dall’abbazia benedettina di Santa Scolastica a Subiaco dove ha ricevuto il Premio “San Benedetto 2010”, il cardinale Camillo Ruini, 79 anni compiuti da poco, guarda sospettoso il risalto che i mezzi d’informazione – giornali, tv e Internet – danno ai reati di pedofilia nei quali sono coinvolti sacerdoti.
Un’analisi oggi necessaria perché “seppure il reato di pedofilia è abominevole”, dice al Foglio il vicario generale emerito del Papa per la città di Roma, “alcune considerazioni è arrivato il momento di farle”.
Ruini non è per nulla sorpreso della campagna di stampa di questi giorni che arriva a chiamare in causa anche il Papa.
“Davvero non lo sono” dice.
E spiega: “I reati di pedofilia sono sempre infami, specialmente quando commessi da un sacerdote.
Per questo è più che giusto denunciarli e reprimerli e, nella misura del possibile, aiutare le vittime a superarne le conseguenze.
E’, inoltre, assolutamente doveroso prendere tutti i provvedimenti che possono prevenire nuovi reati”.
Tuttavia? “Detto ciò non si può far finta di non vedere che l’attenzione di molti giornali e degli ambienti che si esprimono attraverso di essi si concentra sui casi di pedofilia dei sacerdoti cattolici, sicuramente non più frequenti di quelli di tante altre categorie di persone.
E non si può nemmeno ignorare il tentativo tenace e accanito di tirare in ballo la persona del Papa, nonostante tutti i puntuali chiarimenti della sala stampa vaticana e di altre fonti attendibili”.
Sono anni che Ruini segue l’eco che la stampa italiana e internazionale dà ai vari casi di abusi su minori attribuiti a sacerdoti, dal primo scandalo che occupò i titoli dei quotidiani di tutto il mondo – quello scoppiato nel 2002 in seguito alla scoperta di abusi sessuali perpetrati da più sacerdoti nei confronti di minorenni nell’arcidiocesi di Boston – fino a quelli di questi giorni che a macchia di leopardo sembrano poter interessare diversi paesi europei: Germania, Austria, Olanda, Irlanda, Svizzera.
Due termini ricorrono con frequenza nella sua conversazione: “Campagna diffamatoria” e “strategia”.
Cioè? “A mio avviso la campagna diffamatoria contro la chiesa cattolica e il Papa messa in campo dai media rientra in quella strategia che è in atto oramai da secoli e che già Friedrich Nietzsche teorizzava con il gusto dei dettagli.
Secondo Nietzsche l’attacco decisivo al cristianesimo non può essere portato sul piano della verità ma su quello dell’etica cristiana, che sarebbe nemica della gioia di vivere.
E allora vorrei domandare a chi scaglia gli scandali della pedofilia principalmente contro la chiesa cattolica, tirando in ballo magari il celibato dei preti: non sarebbe forse più onesto e realistico riconoscere che certamente queste e altre deviazioni legate alla sessualità accompagnano tutta la storia del genere umano ma anche che nel nostro tempo queste deviazioni sono ulteriormente stimolate dalla tanto conclamata ‘liberazione sessuale’?”.
Una domanda non retorica, quella di Ruini.
Una domanda che, probabilmente, molti vescovi e cardinali vorrebbero porre seppure spesso non riescano ad averne il coraggio o a trovare il contesto giusto in cui avanzarla.
“Quando l’esaltazione della sessualità pervade ogni spazio della vita e quando si rivendica l’autonomia dell’istinto sessuale da ogni criterio morale diventa difficile far comprendere che determinati abusi sono assolutamente da condannare.
In realtà la sessualità umana fin dal suo inizio non è semplicemente istintiva, non è identica a quella degli altri animali.
E’, come tutto l’uomo, una sessualità ‘impastata’ con la ragione e con la morale, che può essere vissuta umanamente, e rendere davvero felici, soltanto se viene vissuta in questo modo”.
La rivendicazione dell’autonomia dell’istinto sessuale da ogni criterio morale, un’impostazione narcisistica e dunque autoreferenziale della sessualità, è l’opposto di quanto propone la chiesa.
E’ un modello che vola sulle ali retoriche di altri pulpiti.
Alcuni di questi radicalismi di tipo libertino hanno rappresentanza nelle prossime elezioni regionali.
Argomento ghiotto.
Che cosa ne pensa il predecessore del cardinale Angelo Bagnasco alla guida dei vescovi italiani e del cardinale Agostino Vallini alla guida operativa della diocesi di Roma? “Voglio dire – dice Ruini – che condivido pienamente nei contenuti e nello stile la nota uscita domenica su ‘Roma sette’.
Visti i candidati che sono in gara, particolarmente nel Lazio ma anche in alcune altre regioni, è indispensabile richiamare l’attenzione sui temi veramente fondamentali che la nota richiama con chiarezza e precisione.
Tra questi la difesa della vita umana in ogni fase della sua esistenza, il sostegno della famiglia fondato sul matrimonio tra uomo e donna e più in generale il rifiuto di un permissivismo che mina le basi della società”.
Ruini, come tutti i sacerdoti e i suoi confratelli vescovi, si attiene alle disposizioni che vietano loro di dare indicazioni di voto.
Ma nello stesso ha letto bene il passaggio della nota che dice che “non è possibile equiparare qualunquisticamente tutti i progetti politici, perché non tutti incarnano i valori in cui crediamo”.
E ancora: “Non si possono concedere deleghe di rappresentanza politica a chi persegue altro progetto politico, che ci è estraneo e che non condividiamo”.
Dice, infatti, Ruini: “I cittadini che fanno riferimento all’etica cristiana, ma anche tutti coloro che vogliono salvaguardare le strutture portanti della nostra civiltà hanno qui un preciso criterio per l’esercizio del diritto/dovere del voto.
Dopo le tormentate vicende relative alla presentazione delle liste è tempo infatti di concentrare l’attenzione sulle questioni di sostanza, anzitutto quella della scelta delle persone che dovranno guidare le regioni italiane”.
in “il Foglio” del 16 marzo 2010 Perché entra in crisi il vincolo dei sacerdoti di Vito Mancuso «Non è bene che l’uomo sia solo», dice Dio di fronte al primo uomo.
Per rimediare crea gli animali, ma l’uomo non è soddisfatto.
Allora gli toglie una costola, plasma la donna e gliela presenta.
A questo punto l’uomo non ha più dubbi: «Questa è osso delle mie ossa e carne della mia carne.
La si chiamerà išà (donna) perché da iš (uomo) è stata tolta».
Una voce fuori campo commenta: «Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola» (Genesi 2,23-24).
Questa scena mitica, mai avvenuta in un punto preciso del tempo perché avviene ogni giorno, insegna che la relazione uomo-donna è scritta dentro di noi e che, ben prima dei genitali, riguarda la carne e le ossa.
La Sacra Scrittura esprime così nel modo più intenso che noi siamo relazione in cerca di relazione, che viviamo con l’obiettivo di formare “una carne sola” e di compiere l’uomo perfetto, quello pensato da subito nella mente divina come maschio+femmina, secondo quanto insegna Genesi 1,27: «Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò».
La vera immagine di Dio, che è comunione d’amore personale, non è né il monaco né il prete celibe e neppure il papa, ma è la coppia umana che vive di un amore reciproco così intenso da essere “una carne sola”.
Per questo, secondo un detto rabbinico, «il celibe diminuisce l’immagine di Dio».
Lo stesso si deve dire della paternità e della maternità.
Se Dio è padre che eternamente genera il Figlio e che temporalmente genera gli uomini come figli nel Figlio, la sua immagine più completa sulla terra sono gli uomini e le donne che a loro volta generano figli e spendono una vita di lavoro per farli crescere.
Per questo la Bibbia ebraica considera la scelta celibataria di non avere figli qualcosa di innaturale che trasgredisce il primo comando dato agli uomini cioè “crescete e moltiplicatevi”.
Naturalmente tutti sanno che Gesù era celibe, e così anche san Paolo.
Ma mentre Gesù conservava una visione positiva del matrimonio, san Paolo giunge a ribaltare quanto dichiarato da Dio al principio dei tempi («non è bene che l’uomo sia solo») scrivendo al contrario che «è cosa buona per l’uomo non toccare donna» (1Cor 7,1).
Per lui il matrimonio è spiritualmente giustificabile solo «a motivo dei casi di immoralità», nulla più cioè che un remedium concupiscentiae per i deboli di spirito che non sanno controllare le passioni della carne.
L’apostolo non poteva essere più esplicito: «Se non sanno dominarsi, si sposino: è meglio sposarsi che ardere» (1Cor 7,9).
Da qui sorge la visione che domina la tradizione occidentale che assegna una schiacciante superiorità morale e spirituale al celibato e solo un valore secondario al matrimonio.
Da qui la chiesa latina del secondo millennio sarà portata a legare obbligatoriamente il sacerdozio alla condizione celibataria.
Ma su che cosa si fondava l’idea di Paolo? Qualcuno parla di sessuofobia, ma a mio avviso il motivo è un altro e si chiama escatologia: ovvero la sua ferma convinzione che «il tempo ormai si è fatto breve» (1Cor 7,29), che «passa la scena di questo mondo» (1Cor 7,31), che quanto prima cioè giungerà la fine del mondo con il ritorno di Cristo.
La Prima Corinzi, lo scritto decisivo in ordine alla fondazione del celibato ecclesiastico, è dominata dall’attesa dell’imminente parusia (vedi 15,51- 53): se Cristo tornerà a momenti, «al suono dell’ultima tromba», a che serve sposarsi e mettere al mondo figli? Il mancato ritorno di Cristo al suono dell’ultima tromba ha portato naturalmente a moderare l’impostazione già nelle lettere deuteropaoline, tra cui in particolare quella agli Efesini i cui passi si leggono spesso durante le cerimonie nuziali, ma questo avrà solo l’effetto di giustificare il matrimonio in quanto sacramento, non di ritenerlo spiritualmente degno almeno quanto il celibato.
Anzi, la tradizione ascetica e mistica dei padri della chiesa e della scolastica è unanime nell’affermare la superiorità indiscussa del celibato rispetto al matrimonio.
Tommaso d’Aquino la sintetizza col dire che «indubitabilmente la verginità deve essere preferita alla vita coniugale» (Summa theologiae II-II, q.
152, a.
4), e il decreto del Concilio di Trento del 1563 arriva persino a scomunicare chi osi dire che «non è cosa migliore e più felice rimanere nella verginità e nel celibato che unirsi in matrimonio» (DH 1810).
Una scomunica che, a ben vedere, colpisce lo stesso Dio Padre per quella sua frase imprudente all’inizio della Bibbia! Oggi assistiamo alla fine abbastanza ingloriosa del modello di vita sacerdotale sancito dal Concilio di Trento, e in genere portato avanti nel secondo millennio cristiano, con il legare obbligatoriamente alla vita sacerdotale la scelta celibataria.
I crimini legati al clero pedofilo (che la gerarchia conosceva e copriva per anni) stanno scavando la fossa, anzi hanno già scavato la fossa, alla falsa idea della superiorità morale e spirituale del celibato.
Naturalmente non intendo per nulla cadere nell’eccesso opposto di chi ritiene la vita celibataria alienante e disumana a priori.
Conosco preti celibi straordinari, modelli integerrimi di vita serena, pura, felicemente realizzata.
Voglio piuttosto esprimere la mia ferma convinzione che ciò che conta per un uomo di Dio (perché nulla di meno il prete è chiamato a essere) sia avere l’anima piena della luce e della gioia del vangelo, e che a questo scopo la condizione migliore sarà per uno vivere nel celibato e per un altro metter su famiglia, a seconda del temperamento e dell’attitudine personali.
Il che è esattamente quello che avveniva tra gli apostoli, come ci fa sapere san Paolo quando scrive che, a differenza di lui, «gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa» vivevano con una donna (1Cor 9,5).
I capi della Chiesa non avevano ancora dimenticato che «non è bene che l’uomo sia solo».
in “la Repubblica” del 18 marzo 2010 La difesa della castità intervista a mons.
Gianfranco Girotti, a cura di Orazio La Rocca «Il celibato sacerdotale è un bene prezioso a cui la Chiesa cattolica non rinuncerà mai.
Difficile, forse, da capire in una società come quella attuale sempre più dominata da consumismo, modelli edonistici, sfruttamento del sesso.
Ma la Chiesa sa che col vincolo della castità, liberamente accettato e coltivato, i suoi sacerdoti sono più liberi di esercitare il loro ministero avendo come modello esclusivo e irrinunciabile Gesù Cristo».
Non si scompone l´arcivescovo Gianfranco Girotti, Reggente della Penitenzeria Apostolica, il tribunale pontificio che ha competenza sui grandi peccati che possono essere assolti solo dalla Santa Sede, i cosiddetti delicta graviora.
E vale a dire, la profanazione delle ostie consacrate; l´assoluzione del complice (quando un sacerdote rompe il celibato e assolve anche la persona con cui ha avuto un rapporto sessuale); la violazione del segreto confessionale; la consacrazione del vescovo senza autorizzazione del Papa; l´offesa alla persona del Pontefice.
Moralista di fama, collaboratore del cardinale Ratzinger negli anni in cui l´attuale Pontefice era prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede, monsignor Girotti considera «il celibato un bene assoluto per i sacerdoti, anche se non è un dogma di fede, ma una norma disciplinare che comunque rende più libero e più credibile l´esercizio pastorale dei consacrati».
Eppure, monsignor Girotti, sempre più frequentemente oggi si mette in dubbio la validità del celibato sacerdotale.
«È vero.
Ma non è la prima volta e non sarà nemmeno l´ultima che si levano voci critiche sulla castità a cui sono chiamati i sacerdoti.
Ma non significa che questa scelta non sia valida.
La Chiesa sa che col celibato, liberamente scelto e abbracciato, i sacerdoti possono svolgere la loro vita pastorale con più credibilità e completezza.
Anche se i modelli di vita che vengono imposti in una società secolarizzata come la nostra non sembrano in sintonia con una scelta tanto libera e radicale».
Ma, in concreto, un sacerdote quali vantaggi ha dal celibato? «La sua missione pastorale è più illuminata perché ha come modello Cristo, il nostro Signore a cui tutti dobbiamo guardare.
Sul piano più pratico, col celibato il sacerdote si dedica completamente alla guida della comunità senza dovere, ad esempio, pensare al mantenimento di una sua famiglia».
Nella Chiesa non sempre è stato così.
Il celibato storicamente è stato imposto solo dopo il secondo millennio.
«Certo, perché si tratta di una legge disciplinare, non di un dogma di fede.
Ma se la Chiesa ha fatto questa scelta avrà avuto i suoi motivi che sono validi ancora oggi e credo che lo saranno anche in futuro».
Nella Chiesa cattolica orientale, legata da sempre al Papa, però i sacerdoti si possono sposare.
Non è un controsenso? «No.
È solo una tradizione che viene rispettata.
Ma le posso assicurare che sono pochi i sacerdoti di rito orientale che decidono di sposarsi.
I loro vescovi vengono, invece, scelti tra chi sceglie il celibato.
Questo perché, in generale, anche la Chiesa d´Oriente guarda con rispetto alla castità sacerdotale».
Non è una scelta che può causare disturbi di natura psicologica e caratteriale? «Il sacerdozio celibatario è un dono, una scelta libera e un servizio pastorale gratuito.
L´importante è affrontarlo con discernimento e in piena consapevolezza, anche attraverso una attenta preparazione.
Malgrado le difficoltà, è una scelta sempre valida e chi pensa che la Chiesa cattolica in un futuro più o meno lontano possa rinunciarvi, dice semplicemente una grande sciocchezza».
in “la Repubblica” del 18 marzo 2010 Ratzinger reciti il mea culpa sulla pedofilia di Hans Küng Si è detto che dopo aver ricevuto in udienza l’arcivescovo Robert Zollisch il Papa era «profondamente scosso» e «sconvolto» per i numerosi casi di abusi.
Dal canto suo, il presidente [della Conferenza episcopale tedesca] ha chiesto perdono alle vittime, citando nuovamente le misure già adottate e quelle previste.
Ma nessuno dei due ha risposto a una serie di domande di fondo che non è più possibile eludere.
Stando ai risultati dell’ultimo sondaggio Emnid, solo il 10% degli interpellati trova soddisfacente l’opera di rielaborazione della Chiesa, mentre per l’86% dei tedeschi l’atteggiamento degli alti livelli della gerarchia ecclesiastica manca di chiarezza.
Le loro critiche troveranno peraltro conferma nell’insistenza con cui i vescovi continuano a negare ogni rapporto tra l’obbligo del celibato e gli abusi commessi sui minori.
Prima domanda: Perché il Papa continua, contro la verità storica, a definire il «santo» celibato un «dono prezioso», ignorando il messaggio biblico che consente espressamente il matrimonio a tutti i titolari di cariche ecclesiastiche? Il celibato non è «santo», e non è neppure una grazia, bensì piuttosto una disgrazia, dal momento che esclude dal sacerdozio un gran numero di ottimi candidati, e ha indotto molti preti desiderosi di sposarsi a rinunciare alla loro missione.
L’obbligo del celibato non è una verità di fede, ma solo una norma ecclesiastica che risale all’XI secolo, e avrebbe dovuto essere sospesa ovunque in seguito alle obiezioni dei riformatori dal XVI secolo.
In nome della verità, il Papa avrebbe dovuto quanto meno promettere un riesame di questa norma, da tempo auspicato dalla grande maggioranza del clero e della popolazione.
Anche personalità come Alois Glück, presidente del Comitato centrale dei cattolici tedeschi, o Hans-Jochen Jaschke, vescovo ausiliare di Amburgo, si sono espresse in favore di un rapporto più sereno con la sessualità e della possibilità di far coesistere fianco a fianco sacerdoti celibi e sposati.
Seconda domanda: È possibile che «tutti gli esperti» abbiano escluso l’esistenza di qualsiasi rapporto tra la pedofilia e l’obbligo del celibato sacerdotale, come ha nuovamente asserito l’arcivescovo Zollitsch? Chi mai può conoscere il parere di «tutti gli esperti»!? Di fatto si potrebbero citare innumerevoli psicoanalisti e psicoterapeuti che al contrario hanno sottolineato questo rapporto: mentre l’obbligo del celibato impone ai preti di astenersi da qualunque attività sessuale, i loro impulsi sono però virulenti, col rischio che il tabù e l’inibizione sessuale li induca a ricercare una qualche compensazione.
In nome della verità, la correlazione tra l’obbligo del celibato e gli abusi non può essere semplicemente negata, ma va presa invece in seria considerazione.
Lo ha ben chiarito ad esempio lo psicoterapeuta americano Richard Sipe, che a questi studi ha dedicato un quarto di secolo (cfr.
«Knowledge of sexual activity and abuse within the clerical system of the Roman Catholic church», 2004): la forma di vita del celibato, e in particolare la socializzazione che la prepara (il più delle volte nei convitti e successivamente nei seminari) può favorire tendenze pedofile.
Richard Sipe ha individuato un tipo di inibizione dello sviluppo psicosessuale più frequente nei celibi che nella media della popolazione; ma spesso la consapevolezza dei deficit dello sviluppo psicologico e delle tendenze sessuali si raggiunge solo dopo l’ordinazione al sacerdozio.
Terza domanda.
Oltre a chiedere perdono alle vittime, i vescovi non dovrebbero finalmente riconoscere anche le proprie corresponsabilità? Per decenni, dato il tabù sulla norma del celibato, hanno occultato gli abusi, limitandosi a disporre il trasferimento dei responsabili.
Tutelare i preti era più importante che proteggere bambini.
C’è poi una differenza tra i casi individuali di abusi commessi nelle scuole, al di fuori della Chiesa cattolica, e gli abusi sistemici, spesso reiterati e frequenti, all’interno stesso della Chiesa cattolica romana, in cui vige tuttora una morale sessuale quanto mai rigida e repressiva, che culmina nella norma sul celibato.
In nome della verità, anziché porre un ultimatum di 24 ore al ministro federale della giustizia, sopravvalutando peraltro gravemente l’autorità ecclesiastica, il presidente della Conferenza episcopale avrebbe dovuto finalmente dichiarare con chiarezza che d’ora in poi, in caso di reati di natura penale le gerarchie della Chiesa non cercheranno più di eludere l’azione giudiziaria dello Stato.
O dovremo aspettare che per ricredersi, la gerarchia sia costretta a pagare risarcimenti dell’ordine di milioni di euro? Negli Usa la Chiesa cattolica ha dovuto versare a questo titolo, nel 2006, ben 1,3 miliardi di dollari; e in Irlanda, nel 2009 il governo ha stabilito con gli ordini religiosi un accordo – rovinoso per questi ultimi – per un fondo risarcimenti di 2,1 miliardi di euro.
Cifre del genere sono assai più eloquenti dei dati statistici sulle percentuali dei celibi tra gli autori di reati sessuali, citati nel tentativo di sdrammatizzare il dibattito.
Quarta domanda: Il papa Benedetto XVI non dovrebbe assumersi a sua volta le proprie responsabilità, anziché lamentarsi di una campagna che sarebbe in atto contro la sua persona? Nessuno finora, in seno alla Chiesa, si è mai trovato sulla scrivania un così gran numero di denunce di abusi.
Vorrei ricordare quanto segue: Per otto anni docente di teologia a Regensburg e in stretti rapporti col fratello Georg, maestro della cappella del Duomo (Domkapellmeister), Joseph Ratzinger era perfettamente al corrente della situazione dei Domspatzen, i piccoli cantori di Regensburg.
E non si tratta qui dei ceffoni, purtroppo all’ordine del giorno a quei tempi, bensì anche di eventuali reati sessuali.
Arcivescovo di Monaco per cinque anni, in un periodo durante il quale un prete, trasferito nel suo episcopato, perpetrò una serie di ulteriori abusi che oggi sono venuti alla luce.
Anche se Mons.
Gerhard Gruber, suo vicario generale (oltre che mio ex collega di studi) si è assunta la piena responsabilità di questi episodi, la sua lealtà non poteva bastare a scagionare l’arcivescovo, responsabile anche sul piano amministrativo.
Per 24 anni Joseph Ratzinger è stato prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, nel cui ambito si prendeva atto dei più gravi reati sessuali commessi dal clero in tutto il mondo, per raccoglierli e trattarli nel più totale segreto («Secretum pontificium».
Il 18 maggio 2001, con una lettera rivolta a tutti i vescovi sul tema delle «gravi trasgressioni», Joseph Ratzinger aveva confermato per gli abusi il «segreto pontificio», la cui violazione è punita dalla Chiesa).
Papa per cinque anni, non ha cambiato di una virgola questa prassi infausta.
In nome della verità Joseph Ratzinger, l’uomo che da decenni è il principale responsabile dell’occultamento di questi abusi a livello mondiale, avrebbe dovuto pronunciare a sua volta un «mea culpa».
Così come lo ha fatto il vescovo di Limburg, Franz-Peter Tebartz-van Elst, che in un’allocuzione trasmessa per radio il 14 marzo 2010 si è rivolto a tutti i fedeli in questi termini: «Poiché un’iniquità così atroce non può essere accettata né occultata, abbiamo bisogno di cambiare strada, di invertire la rotta per dare spazio alla verità.
Per convertirci ed espiare, dobbiamo incominciare col riconoscere espressamente le colpe, fare atto di pentimento e manifestarlo, assumerci le responsabilità e aprire così la strada a un nuovo inizio» in “la Repubblica” del 18 marzo 2010
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