Nato a Casal di Principe il 4 luglio 1958, Diana entra giovanissimo – più per poter continuare a studiare che per vocazione – nel seminario di Aversa, dove frequenta la scuola media e il liceo.
Poi, dopo una brevissima parentesi romana, si iscrive alla Facoltà teologica meridionale di Napoli, retta dai gesuiti, al tempo guidati dallo spagnolo progressista Pedro Arrupe, e lì, grazie ad alcuni professori, respira l’aria della teologia della Liberazione e la predisposizione alla lettura critica della realtà sociale.
Sono gli anni a cavallo del 1980, quando in Salvador viene ucciso dagli squadroni della morte del regime militare, mentre sta celebrando la messa, Oscar Romero, il “vescovo fatto popolo” di San Salvador: un destino che sarà anche quello di don Diana.
Nel marzo del 1982 viene ordinato sacerdote e torna a Casal di Principe, dove inizia a seguire gli scout dell’Agesci.
Pochi mesi dopo, un avvenimento che segnerà profondamente la vita di don Diana: l’episcopato della Campania, il 29 giugno 1982, pubblica il documento Per amore del mio popolo non tacerò, una riflessione e un atto d’accusa contro la camorra, un appello ai credenti a partecipare attivamente alla vita civile, un’autocritica affinché la Chiesa vinca paure e convenienze e si schieri contro la criminalità organizzata.
È la prima volta che una Conferenza episcopale, benché regionale, pronuncia la parola “camorra”, infrangendo una mentalità e una prassi che la faceva considerare estranea alle preoccupazioni e alla prassi pastorale.
La nota dei vescovi campani resterà lettera morta per tanti, compresa la Cei che solo nel 1989 pubblicherà un documento ufficiale dedicato al mezzogiorno (Sviluppo nella solidarietà.
Chiesa italiana e Mezzogiorno) senza tuttavia mai scrivere “mafia” o “camorra”.
Non per don Diana però che, nominato viceparroco a Casal di Principe, alla pastorale ordinaria affianca un forte impegno sociale sul territorio che gli varrà l’etichetta di “prete anticamorra” e le accuse da una parte del clero e dei cittadini di essere un “prete comunista”, oltre che le intimidazioni della criminalità: una notte dell’autunno 1987, all’indomani di un convegno e di una marcia antiviolenza organizzati insieme ad altri due parroci di Casal di Principe, vengono sparati dei colpi di pistola alla finestra di casa sua.
Che però non fermano don Diana il quale anzi, insieme ad altri due preti di Casal di Principe, don Broccoletti e don Aversano, e ad alcuni giovani e gruppi di base, dà vita ad un comitato permanente anticamorra.
«È una seconda conversione provocata dal dolore e dalla violenza che lo circondavano», spiega Rosario Giuè, autore dell’unica biografia pubblicata di don Diana (Il costo della memoria, Paoline, 2007).
«Si è trovato dentro una situazione dura e non si è girato dall’altra parte, la vita reale lo ha cambiato più di ogni altra cosa.
Si è speso nel tentativo di fare prendere coscienza alla comunità dell’aversano che la camorra è una dittatura e voleva che tutta la Chiesa campana si coinvolgesse in un processo di liberazione e di profezia».
Nel 1989 viene nominato parroco di San Nicola, a Larino, uno dei quartieri più difficili di Casale, dove dà il via ad una piccola rivoluzione: il consiglio pastorale viene democraticamente eletto fra tutti i fedeli, le feste patronali esterne vengono abolite – anche per evitare sprechi di denaro e inquinamenti camorristici – viene aperto un centro di accoglienza per gli immigrati.
Intanto la guerra fra gli Schiavone e i De Falco si intensifica, anche in seguito alla scomparsa dei vecchi boss Antonio Bardellino e Mario Iovine: si moltiplicano i morti ammazzati, anche innocenti (un giovane testimone di Geova ucciso per sbaglio durante una sparatoria in strada fra camorristi nell’estate del 1991), i De Falco organizzano un corteo con decine di uomini armati e a volto scoperto che sfilano per le vie del paese fin sotto le finestre dei nemici, emerge il potere di Francesco Schiavone “Sandokan”.
In questa situazione don Diana riprende l’iniziativa e nel Natale del 1991 convince i parroci e i preti della foranìa di Casal di Principe a firmare e a diffondere nelle parrocchie un documento che condanna la camorra, denuncia della latitanza dello Stato e critica il silenzio della Chiesa.
«La camorra oggi è una forma di terrorismo che incute paura e impone le sue leggi», scrivono i preti.
«Il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli.
La Camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche è caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi».
La Chiesa deve recuperare il suo «ruolo profetico affinché gli strumenti della denuncia e dell’annuncio si concretizzino nella capacità di produrre nuova coscienza nel segno della giustizia».
Il testo ha una grande risonanza, e Casal di Principe finisce sotto i riflettori: aumenta la polizia, arrivano gli arresti, il Consiglio comunale viene sciolto per infiltrazioni mafiose e rimane commissariato per due anni e mezzo, fino al novembre 1993, quando le elezioni amministrative vengono vinte da una lista civica con una forte presenza del volontariato parrocchiale che tuttavia avrà vita breve.
Il confine è stato passato.
Bisogna dare un segnale, così come hanno fatto a Palermo i Graviano, ordinando l’omicidio di don Puglisi.
A Casal di Principe si colpisce don Giuseppe Diana, nel giorno del suo onomastico, in chiesa.
E si tenta di ucciderlo anche da morto, infangando il suo nome, distruggendo la sua immagine per demolire la sua azione di risveglio delle coscienze.
“Don Diana a letto con due donne”, “Don Diana era un camorrista”, titolano il Corriere di Caserta e altri giornali locali, imboccati dai soliti professionisti della disinformazione.
Poi i tribunali diranno come sono andate le cose: il prete è stato ucciso per il suo impegno antimafia.
E condanneranno esecutori materiali e mandante, Nunzio De Falco, difeso dall’avvocato berlusconiano Gaetano Pecorella, oggi presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, che ancora la scorsa estate metteva in dubbio la verità giudiziaria storica.
«Gli assassini di don Diana sono stati condannati ma restano impuniti i mandanti morali dell’omicidio», dice Sergio Tanzarella, docente di Storia della Chiesa e vicepresidente della Fondazione don Giuseppe Diana.
«I mandanti di allora e di oggi sono gli stessi.
Sono i sostenitori in giacca e cravatta di una mentalità camorristica che alimenta e sostiene la camorra che dicono a parole di combattere quando non ne negano l’esistenza.
Sono quelli che isolarono di fatto don Diana facendolo diventare un comodo bersaglio.
Ancora oggi occupano le istituzioni e dirigono l’economia.
Decine di migliaia di manifesti con le loro facce sorridenti presidiano con arroganza il territorio in vista delle elezioni.
E oggi come allora molti di loro saranno eletti in nome di un dominio assoluto verniciato da democrazia».
E monsignor Raffale Nogaro, vescovo emerito di Caserta assai vicino a don Diana (e presidente della Fondazione), chiede la beatificazione del prete “martire” della camorra: «Giuseppe Diana è il riscatto delle nostre terre sempre oppresse, è l’anima pulita delle nostre Chiese meridionali» che «non hanno voluto combattere il male della camorra» ma «si sono rassegnate a forme di convivenza e di opportunismo».
Ora «è giunto il momento di proclamarlo beato» perché «la Chiesa non potrà mai assumere il volto della purezza evangelica se non presenta i suoi martiri della libertà contro le presenze massacranti della camorra».
in “il manifesto” del 19 marzo 2010 Una Fiat Uno rossa si ferma davanti alla parrocchia di San Nicola, a Casal di Principe, poco dopo le sette del mattino.
Due uomini scendono, entrano in chiesa, si dirigono verso la sacrestia.
«Chi è don Peppe?», chiedono.
Poi sparano, quattro colpi di pistola e il parroco, don Giuseppe Diana, cade, ucciso.
È il 19 marzo 1994, Casal di Principe è il campo di battaglia su cui i De Falco e gli Schiavone si combattono per conquistare l’egemonia sul clan dei casalesi, e don Diana è un giovane parroco di 36 anni che parla, scrive, denuncia, incoraggia i fedeli e gli altri preti ad uscire dalla sacrestia, ad alzare la voce e a lottare contro il sistema della camorra per il riscatto sociale dei loro territori.
Per questo, 16 anni fa, viene ammazzato.
È la seconda volta in sei mesi che le mafie uccidono un prete che non abbassa la testa: a settembre era toccato a don Pino Puglisi, a Palermo, del quartiere Brancaccio dei fratelli Graviano.
Adesso tocca al parroco casertano.
Colpevoli, entrambi, di aver abbandonato il recinto del sacro, di aver preso la parola rompendo il muro di omertà e la cappa di rassegnazione, di aver organizzato la resistenza e la speranza.
«Non sono un prete anticamorra», diceva don Diana poco prima di essere ucciso, ma «un uomo di Chiesa che si limita a lottare, accanto alla gente che abita questi luoghi, nel tentativo di affermare quei diritti negati che il malgoverno e la camorra hanno sempre negato».
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