Dentro la solitudine.

CASTELLAZZI VITTORIO L.,  Dentro la solitudine.
Da soli felici o infelici?,  Ma.
Gi., Roma, 2010,  ISBN: 8874870302, pp.136, Euro 12.00 L’atteggiamento nei confronti della solitudine, oggi, è piuttosto contraddittorio.
La si cerca, ma allo stesso tempo la si teme.
Si sogna il ritiro in luoghi di meditazione nella speranza di ritrovare se stessi, ma una volta immersi nel silenzio ci si sente afferrati da un inquietante smarrimento, per cui si ritorna in tutta fretta alle detestate relazioni di sempre.
Mentre ci si preoccupa di favorire ed eventualmente curare le relazioni interpersonali ai fini di un maggiore benessere, non si registra uguale attenzione all’importanza del raggiungimento della capacità di stare soli con se stessi.
In realtà, soltanto chi è in grado di sperimentare la solitudine senza angoscia non corre il rischio di annullarsi nell’altro o di rivolgersi all’altro in modo fagocitante, strumentalizzante, ricattatorio o vittimistico.
Il riconoscimento e l’accettazione di sé, che una positiva esperienza di solitudine comporta, sta alla base della disponibilità a riconoscere e accettare gli altri.
Il successo di una buona relazione con gli altri poggia dunque sulla capacità di essere soli.
Vittorio Luigi Castellazzi, psicologo clinico, psicoterapeuta e psicoanalista, da più di trent’annì insegna Tecniche psicodiagnostiche proiettive e diagnosi della personalità all’Uni­versità Salesiana di Roma.
Già docente di Psi­copatologia dell’infanzia e dell’adolescenza, ha tenuto corsi di Psicologia dello sviluppo e Psicopatologia dello sviluppo all’Università Lumsa e all’Università degli Studi di Roma Tre. E’ membro della Society for Personality Asses­sment e dell’International Rorschach Society.
Ha fondato la «Scuola Rorschach e altre tecni­che proiettive» dell’Università Salesiana.
Otre a numerosi articoli e saggi comparsi nei lavori collettanei, è autore di numerosi volumi, editi per i tipi delle Edizioni Las, tra cui ri­cordiamo Psicoanalisi e infanzia.
La relazione oggettuale in M.
Klein (1974), Psicopatologia del­Infanzia e dell’adolescenza: Le Psicosi (1991) – La Depressione (1993) – Le Nevrosi (2′ ed.
2000), In­trodsrzione alle tecniche proiettive (3′ ed.
2000); Il Test di Rorschach.
Manuale di siglatura e d’interpretazione psicoanalitica (2004); Quando il bambino gioca.
Diagnosi e psicoterapia (2′ ed.
2~); L’abuso sessuale all’infanzia (2007); Il Test del Disegno della Figura Umana (3′ ed.
2010); Il Test del Disegno della Famiglia (4′ ed – 2008). Il suo volume La stanza della felicità ;(2002) è stato tradotto in spagnolo, portoghe­e polacco.
  Indice Introduzione   I I volti della solitudine 13 II Il senso di solitudine 19 III La nostalgia come coscienza dell’essere soli 25 IV La capacità di essere solo 31 V La solitudine come ritrovamento di sé 41 VI Essere se stessi come esperienza     di solitudine 49 VII Solitudine e creatività 53 VIII Apertura al nuovo, disponibilità     alla verità e solitudine 57 IX Solitudine e comunicazione 63 X       Solitudine e silenzio 67 XI La solitudine come isolamento cercato 75 XII La solitudine come isolamento subìto 8 i XIII La solitudine del narcisista 87 XIV La solitudine dell’invidioso 91 XV La solitudine dello schizoide 95 XVI La solitudine del depresso 99 XVII La solitudine dello psicotico 101 XVIII La fuga dalla solitudine 103   Il conformismo.  La bulimia del fare gruppo».
    l’altruismo a oltranza, l’iperattività   XIX Solitudine felice e infelice 117 XX Conclusioni     Stare soli, stare con gli altri 127 Bibliografia 131 Introduzione Ritiratevi in voi, ma prima preparatevi a ricevervi.
Sarebbe una pazzia affidarvi a voi stessi, se non vi sapete ,governare.
C’è modo di fallire nella solitudine come nella compagnia.
M.E.
DE MONTAIGNE Oggi l’atteggiamento nei confronti della solitudine è piuttosto contraddittorio.
La si cerca.
ma allo stesso tempo la si teme, per cui ci si tuffa tra la folla.
Ci si trova in difficoltà a stare con gli altri, ma ugualmente si soffre se si è soli’.
Si è turbati sia dalla vicinanza che dalla lontananza.
Se, come afferma Garcin nel dramma teatrale Porta chiusa (Sartre, 1945, ed.
it.
p.
165), “l’inferno sono gli altri”, è an¬che vero che si vive come un inferno la loro assenza (2).
Per il mancato equilibrio tra solitudine e socialità, l’uomo d’oggi si trova senza dimora.
Non sta bene a casa propria; non sta bene a casa degli altri.
In entrambe le situazioni è sfiorato da una sotterranea inquietudine.
Nei casi estremi oscilla tra un’esperienza di solitudine disperata è la pratica di una socialità forzata.
Sopraffatto ogni giorno da mille stimoli, nella realtà lavorativa si sente travolto da relazionì puramente funzionali e anonime.
mentre nel consumo del tempo libero avverte tutto il peso della massificazione e della irregiinentazione.
In questo contesto, anche se non è sempre percepito in modo chiaro, è giustificato il desiderio struggente di stare in solitudine.
Si sogna perciò il ritiro in luoghi di meditazione.
Nei periodi di vacanza si bussa perfino alla porta della foresteria dei monasteri nella speranza di ritrovare se stessi, di dialogare con il proprio mondo interiore.
Tuttavia, una volta immersi nel silenzio, ci si sente afferrati da un inquietante smarrimento, per cui si ritorna in tutta fretta alle detestate relazioni di sempre.
Il problema si pone dunque su entrambi i versanti: quello della solitudine e quello della socialità.
Tuttavia.
si deve constatare che, mentre ci si preoccupa di favorire ed eventualmente curare le relazioni interpersonali ai fini di un maggiore benessere, non si registra uguale attenzione all’importanza del raggiungimento della capacità di stare soli con se stessi.
È senz’altro vero che bisogna saper andare incontro alle esigenze della società di cui si fa parte, che si ha bisogno di vivere in gruppo, che insieme ci si salva e insieme ci si perde: ciononostante è fondamentale tenere presente anche l’importanza dello stare in solitudine.
Il successo di una buona relazione con gli altri poggia anche sulla capacità di essere soli.
Soltanto chi è in grado di sperimentare la solitudine senza angoscia non corre il rischio di annullarsi nell’altro o di rivolgersi all’altro in modo fagocitante, strumentalizzante, ricattatorio o vittimistico.
Il riconoscimento e l’accettazione di sé.
che una positiva esperienza di solitudine comporta, sta insomma alla base della disponibilità a riconoscere e ac¬cettare gli altri.
Tra le due esperienze, quella sociale e quella dell’essere soli.
attualmente è comunque quest’ultima a essere avver¬ tita come la più scomoda.
La si associa facilmente alla per¬dita, all’abbandono.
all’isolamento, all’emarginazione, in¬somma a qualcosa di negativo, se non addirittura di di¬sgregante e di terrificante.
Soprattutto, l’esperienza della solitudine è oggi percepi¬ta come una condanna.
Ciò sembra determinato da una certa fragilità psichica, per cui si è incapaci di fare i conti con se stessi.
Risulta sempre più difficile entrare in contat¬to con il proprio mondo interiore.
Come saggiamente suggerisce Montaigne (1580, ed.
it.
p.
325), per non avere paura della solitudine occorre pre¬pararsi a riceversi.
Ma tale itinerario non è affatto agevole: «L’uomo ha bisogno di molto aiuto per non diventare pazzo, quando capita nelle vicinanze del mistero della solitudine» (Werfel, cit.
in Lotz, 1956, ed.
it.
p.
164).
Trovarsi soli con se stessi è per certi versi paragonabile a una travagliata discesa agli inferi.
Anche se Freud (191517, ed.
it.
p.
30) ci rassicura che, pur avendo la solitudine i suoi pericoli, «ciò non vuol dire che non possiamo mai sopportarla a nessuna condizione, neanche per un momento».
Al riguardo, la psicoanalisi ci segnala che ogni esperienza di solitudine si riaggancia alla prima solitudine, come ogni esperienza d’incontro evoca il pruno incontro.
Ciò significa che sono fondamentali le vicende relazionali «madre-bambino» vissute nella prima fase di vita.
È infatti in quel periodo che, attraverso il processo di separazione-individuazione, si sperimentano per la prima volta sia la solitudine che l’incontro.
All’inizio, osserva Freud, il lattante «non distingue ancora il proprio Io dal mondo esterno (…) apprende a farlo gradualmente» (1929, ed.
it.
pp.
559-560).
È sulla base della progressiva separazione dalla madre che egli scopre l’esistenza di un me e di un non-me.
Una simile presa di coscienza avvia sia all’esperienza della solitudine che della socialità.
E ciò per l’essere umano è fonte di gioia e di benessere, se la relazione madre-bambino è positiva, oppure di terrore e di catastrofe, se è carente o addirittura assente.
Entro quest’ottica possiamo quindi giustamente dire che da prima esperienza di solitudine è carica di pericolo come la prima esperienza dell’altro» (Phillips, 1987, ed.
it.
p.
29).
Del resto, S.
Freud per primo, ma successivamente R.
Spitz, M.
Klein, A.
Freud.
D.W.
Winnicott.
M.
Dlahler, D.
Meltzer, W.R.
Bion e tanti altri psicologi e psicoanalisti hanno ampiamente dimostrato che un rapporto distorto del bambino con la madre nel primo anno di vita comporta delle conseguenze disastrose per il futuro dell’individuo, sia nella capacità di star soli che nel piacere di stare con gli altri.
Ebbene, il presente saggio vuole essere il filo di Arianna che aiuta a conoscere.
a scandagliare e a percorrere il suggestivo labirinto della solitudine, senza tuttavia esporsi al rischio di non trovare la via di uscita.
In altre parole, intende essere un’occasione per scoprire l’importanza della solitudine senza perdere di vista il valore della relazione con gli altri.
Note 1 Un sintomo vistoso è l’attuale instabilità di coppia delle giovani ge¬nerazioni.
2.
Negli scritti sartriarli non c’è possibilità di relazione: o l’uno divora l’altro oppure è divorato.
L’uomo sartriano è condannato a essere solo.
Nello stesso dramma citato, Ines, uno dei tre personaggi, dichia¬ra: •Il boia è ciascuno di noi per gli altri due» (ed.
it.
p.
131).
L’incontro tra due individui si configura inesorabilmente come negazione reci¬proca.
Ciò vale anche per il rapporto uomo-Dio: «Se Dio esiste l’uomo è nulla, esclama Goetz.
(…) Dio non esiste.
(…) Se n’è andato.
(…) Finalmente soli!» (Sartre.
1951, ed.
it.
pp.
162-165).
Entro quest’ottica.
sia la relazione che la solitudine sono entrambe mortali.
Se la relazione uccide, la solitudine non offre alcuna via d’uscita.
3.
Secondo S.
Freud, il bambino nello stadio precoce dell’infanzia.
prima di scegliere gli oggetti esterni.
assume se stesso come oggetto d’a¬more.
Un simile investimento affettivo è denominato narcisismoprirnario.
Secondo M.
Kletn, invece.
il bambino possiede un lo, sia pure rudimentale, fin dalla nascita.
per cui è già in grado di vivere una re¬lazione con l’oggetto esterno, la madre.

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