In un servizio su “Il Corriere della sera”, Angelo Panebianco si rivolge ai nostalgici della prima Repubblica che, a proposito di politica, forse pensano a quegli anni come un’età dell’oro, un’età felice che – precisa l’editorialista – non però è mai esistita.
E della prima Repubblica Panebianco individua quelli che a suo parere sono stati i quattro disastri maggiori lasciatici in eredità: l’instabilità dei governi per l’assenza di alternanza, la pubblica amministrazione utilizzata per assorbire manodopera intellettuale, il colossale debito pubblico.
Quarto disastro, secondo Panebianco, è quello della scuola.
“Con lo stesso cinismo venne sempre trattata (dai democristiani, in primo luogo) la scuola.
Usata per lungo tempo soprattutto come strumento di organizzazione di clientele – prosegue – dopo il ’68 diventò la principale sede di uno strisciante “compromesso storico”: il clientelismo democristiano si acconciò a convivere con la demagogia sindacale e con gli ideologismi anti-sistema di tanti ex-sessantottini diventati insegnanti.” “Chi vuol capire quali siano le cause degli attuali guai della scuola – conclude Panebianco – è al quarantennio della prima Repubblica che deve guardare”.
tuttoscuola.com LA PRIMA REPUBBLICA VA RIMPIANTA? Quelle inutili nostalgie Di fronte al marasma in cui è quotidianamente immersa la nostra vita pubblica attuale è comprensibile che tanti ripensino con nostalgia alla Prima Repubblica, trasfigurata nel ricordo e idealizzata come un’oasi di ordine politico e di pace.
Un «luogo» ove erano inimmaginabili la volgarità dell’oggi, e ove (come si sente continuamente dire) i politici erano dei veri professionisti, misurati nelle parole e capaci di gestire con competenza situazioni difficili.
Il contrario dello spettacolo di disordine, dilettantismo e sguaiataggine cui assistiamo.
La nostalgia per il passato è uno dei più naturali e ricorrenti fra i sentimenti degli uomini.
C’è gente che ricorda con nostalgia persino le guerre e altre catastrofi (magari perché, all’epoca, possedeva la cosa che tutti rimpiangono quando non c’è più: la gioventù).
È accaduto anche in Russia: spaventati dal disordine successivo alla caduta dell’Urss, tanti russi si scoprirono nostalgici dei «bei tempi» del potere totalitario comunista.
Dunque, non c’è nulla di strano nel fatto che tanti italiani oggi ricordino con nostalgia la Prima Repubblica.
Ma ne vale la pena? La Prima Repubblica non era affatto un luogo ameno, o un’irreprensibile democrazia.
Era un regime partitocratico (il termine venne coniato allora) nel quale i tentacoli dei partiti si estendevano ovunque.
La sua storia va divisa in due parti.
Nella prima parte, l’Italia fu immersa in una guerra civile virtuale: da un lato i comunisti, di stretta osservanza sovietica, dall’altro lato i democristiani e i loro alleati.
La Falce e il Martello e lo Scudo Crociato, che campeggiavano sulle loro bandiere, erano simboli di guerra, di armate al servizio di visioni della società e della politica mortalmente nemiche.
L’inamovibilità della Dc, l’assenza di alternanza al governo, non erano casuali.
Erano il prodotto necessario della natura degli attori politici.
Se vogliamo capire, guardando allo scontro di oggi fra berlusconiani e antiberlusconiani, dove abbiamo appreso la sciagurata abitudine di trattare la politica come conflitto fra Bene e Male è a quell’epoca che dobbiamo rivolgerci.
Nella seconda fase della Prima Repubblica, le contrapposizioni ideologiche si stemperarono un po’, i nemici ideologici impararono a coesistere ma ciò non migliorò la condizione della nostra vita pubblica.
Per certi versi, la peggiorò.
Si aprì infatti l’epoca che Alberto Ronchey per primo battezzò della «lottizzazione», una selvaggia e continua spartizione delle spoglie pubbliche fra fameliche macchine partitiche.
Non esisteva una reale separazione dei poteri.
Finché i partiti non cominciarono a indebolirsi (più o meno, dalla Presidenza Pertini in poi), ad esempio, i Presidenti della Repubblica erano comandati a bacchetta dalle segreterie di partito.
La costituzione formale era una cosa ma ciò che contava era la costituzione materiale: le vere regole del gioco avevano ben poca attinenza con le regole formali (costituzionali).
La Prima Repubblica ci ha lasciato in eredità molti disastri.
Ne cito quattro.
L’assenza di alternanza andava a braccetto, nella Prima Repubblica, con un’endemica instabilità governativa.
La conseguenza era l’incapacità della politica di concepire e attuare piani a medio termine nei suoi vari settori di competenza.
Era costretta ad occuparsi solo del consenso immediato.
Il dissesto idrogeologico, il decadimento di tante infrastrutture, la carenza di ospedali, carceri o scuole, da cui siamo tuttora afflitti, hanno la loro radice nell’incapacità della Prima Repubblica di attuare politiche di respiro nei vari ambiti.
La pubblica amministrazione, oltre che come ricettacolo di clientele, fu utilizzata per assorbire manodopera intellettuale, soprattutto dal Mezzogiorno, senza riguardo per i suoi problemi di funzionalità.
La sua celebre inefficienza, che tuttora ci opprime, è un regalo della Prima Repubblica.
Con lo stesso cinismo venne sempre trattata (dai democristiani, in primo luogo) la scuola.
Usata per lungo tempo soprattutto come strumento di organizzazione di clientele, dopo il ’68 diventò (come, in seguito, accadrà anche alla Rai) la principale sede di uno strisciante «compromesso storico»: il clientelismo dei democristiani si acconciò a convivere con la demagogia sindacale e con gli ideologismi anti-sistema di tanti ex sessantottini diventati insegnanti.
Chi vuole capire quali siano le cause degli attuali guai della scuola è al quarantennio della Prima Repubblica che deve guardare.
Infine, la Prima Repubblica ci ha lasciato in eredità un colossale debito pubblico (una colpa più grave, per i suoi effetti, del finanziamento illecito dei partiti).
Si consentì a tanti italiani di vivere al di sopra dei loro mezzi scaricandone i costi sulle generazioni successive.
Anche i figli dei nostri figli continueranno, incolpevoli, a pagare quel conto.
Ma, si dice, i partiti erano fonte di «professionalità » (sottintendendo: altro che i dilettanti attuali).
Questo è vero ma la professionalità dei politici dell’epoca non impedì nessuno dei disastri che ho sopra ricordato.
Ma, si dice ancora, c’era più decoro, meno volgarità imperante.
Anche questo è vero, ma si dimentica qual era la causa del minor tasso di volgarità.
La società era meno libera, condizionata da modelli di comportamento assai più rigidi degli attuali.
La volgarità di oggi è, per così dire, il lato oscuro della libertà.
Siamo più liberi, e ciascuno fa uso di quella libertà come sa e come è portato a fare.
C’è poi il capitolo magistratura (l’unico rispetto al quale persino un detrattore della Prima Repubblica, quale è chi scrive, ha qualche tentennamento).
Siamo passati da una magistratura dipendente dal potere politico (almeno nella prima fase della Prima Repubblica) all’anarchia giudiziaria attuale, dove ci sono magistrati che vorrebbero avere diritto di vita e di morte sui governi (si tratti del governo Prodi o del governo Berlusconi) e assistiamo al fenomeno dei raider giudiziari, procuratori che costruiscono inchieste spettacolari (spesso destinate a finire in nulla) per poi costruirci sopra carriere politiche.
Non siamo riusciti a trovare un accettabile punto di equilibrio fra la dipendenza di ieri e l’anarchia di oggi.
La nostalgia è un sentimento rispettabile ma, come spiegano gli psicologi, non è sano.
È nel presente che viviamo e sono i problemi di oggi che dobbiamo affrontare con gli strumenti di oggi.
Non serve evocare un’età dell’oro che non è mai esistita.
Angelo Panebianco Corriere della sera 15 marzo 2010
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