La religione di Obama di Massimo Faggioli in “Europa” del 21 agosto 2010 L’ultimo sondaggio del centro di ricerca del Pew Forum on Religion & Public Life riporta che solo un terzo degli americani sa che il presidente degli Stati Uniti è di fede cristiana, mentre un americano su cinque crede – sbagliando – che Barack Obama sia musulmano.
A poco serve notare che un analogo 20 per cento degli americani crede alle cose più incredibili, in ambito scientifico, storico, economico, medico.
Il vero problema è che, dall’inizio del suo mandato, è cresciuta significativamente, tra i repubblicani ma non solo, la percentuale di americani che credono che il presidente sia musulmano: ma non si può soltanto additare la martellante campagna mediatica di Fox News e della blogosfera per comprendere la crescente confusione dell’americano medio sulla fede religiosa di Obama, in una specie di democratizzazione di una leggenda metropolitana dai molti risvolti politici.
Il primo fattore è una biografia eccezionale, tanto atipica che per parte dell’America profonda rappresenta un passato anormale, quasi da sanare.
Nonostante i tentativi di Obama di accreditarsi una radice familiare materna in Kansas (diventato quasi un luogo dello spirito, dopo il successo del libro What’s the Matter with Kansas?, che prendeva questo stato del Midwest come esempio della roccaforte conservatrice, evangelicale e repubblicana), l’infanzia di Barack tra Hawaii e Indonesia rappresenta un unicum assoluto nelle biografie dei presidenti americani.
Forse più dell’esotica e ai più sconosciuta Indonesia, il più popoloso paese musulmano, sono le Hawaii a rappresentare il paradiso perduto dell’America interreligiosa, dove chiese cristiane di vario tipo convivono, nei piccoli villaggi, con scuole di sciamanesimo e religioni tradizionali, nella consapevolezza che il cristianesimo rappresenta per le Hawaii una importazione recente, come tanti altri ospiti delle isole, arrivata solo nei primi decenni del secolo XIX.
Diventato il cinquantesimo stato degli Usa nel 1959, solo due anni prima della nascita di Obama, le Hawaii erano e rimangono l’avamposto degli Stati Uniti nel Pacifico: in questo scenario ogni tentativo di strumentalizzare le origini etniche e religiose a fini nazionalistici si scontra con la testimonianza dei cimiteri delle vittime della guerra nel Pacifico, in cui nomi anglosassoni, filippini e portoghesi si mescolano a quelli dei soldati di origine giapponese caduti in uniforme americana.
Nei capitoli della sua autobiografia dedicati agli anni trascorsi nel Pacifico, Obama non ha mai nascosto le visioni religiose del padre e della madre, quanto mai diverse dalle varie anime spirituali e confessionali delle elite americane del secondo Novecento: musulmano modernizzante ma fedele alla cultura africana il primo, universalista e refrattaria ad ogni religiosità bigotta la seconda.
Il secondo fattore problematico per la traduzione della biografia religiosa di Obama agli americani è rappresentato da una presidenza animata da un sincero afflato ecumenico, risultato indigesto all’America profonda nella quale il Dio giudeo-cristiano, la patria americana e il fucile sono spesso una cosa sola.
Obama ha tentato di costruire, dal punto di vista del discorso religioso, un magistero presidenziale di sconfessione dello “scontro di civiltà”, ma ha sempre nuotato contro una corrente di montante intolleranza contro l’Islam identificato tout court con gli attacchi dell’11 settembre 2001.
Alle voci sul criptoislamismo di Obama alimentate durante la campagna elettorale del 2008 il presidente ha risposto con atti come il discorso del Cairo del giugno 2009 e la presa di posizione sulla costruzione del Centro islamico a Manhattan, cioè evitando di ripararsi nel rifugio di una religione cristiana professata pubblicamente dal sommo sacerdote della religione civile americana, come era accaduto per tutti i presidenti da Jimmy Carter in poi.
In questo senso il passaggio dalla campagna elettorale alla presidenza ha rappresentato una sorta di privatizzazione incompleta del discorso religioso in Obama.
Questo terzo fattore è quello in cui le scelte di stile della presidenza sono state le più personali, le più coerenti con la biografia dell’Obama prepolitico, e quindi le più rischiose.
Dopo i discorsi a sfondo religioso della campagna elettorale (a Philadelphia del marzo 2008 e l’intervista col pastore Rick Warren dell’estate 2008), dopo l’elezione, nel febbraio 2009, la scelta di creare presso la Casa Bianca un ufficio per le iniziative miste pubbliche-private basate su affiliazioni religiosa (Office of Faith-Based and Neighborood Partnerships), in continuità con le amministrazioni precedenti, si è accompagnato alla decisione di Obama di non scegliere una chiesa per la first family a Washington e di relegare la vita religiosa del presidente alla sfera privata, intenzionalmente sottratta allo scrutinio dell’opinione pubblica.
Questa scelta si è rivelata in parte obbligata (visti i problemi creati durante la campagna elettorale dalla passata affiliazione col pastore Wright di Chicago), ma sicuramente in controtendenza, se si ricordano le pubbliche sfilate della domenica mattina in chiesa di G.W.
Bush e dei Clinton.
Da questo punto di vista, il parallelo tra le campagne elettorali di Kennedy del 1960 e di Obama del 2008, in cui entrambi i candidati si trovarono a dover giustificare una professione religiosa accusata di antiamericanismo, ha portato a due esiti simili e paralleli: una privatizzazione della religione nel nome del diritto alla libertà religiosa.
Questo esito funzionò benissimo per Kennedy, che in campagna elettorale si era trovato a competere con Nixon, un quacchero per nulla dedito al pacifismo della fede quacchera.
La privatizzazione della religione rappresenta invece per Obama un problema politico: non solo nei confronti della destra religiosa che lo accusa di infedeltà al Dio del giudeo-cristianesimo, ma anche della “sinistra di professione” che non apprezza la sensibilità del presidente verso il discorso religioso.
È dura la vita del presidente teologo.
Nell’allegato è possibile consultare contributo.
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