Nicola Mazza: un educatore nella Verona ottocentesca

Dal punto di vista politico, l’Ottocento – segnato dalla fine del potere temporale, dalla rottura con il liberalismo e la modernità, dall’avanzare dell’incredulità e della miscredenza – fu per la Chiesa cattolica il secolo forse più tragico di tutta la sua storia.
Una sequenza di sconfitte, di ritirate, di chiusure che isolarono la Santa Sede e la misero in rotta di collisione con tutto e con tutti.
Ma se consideriamo quel periodo sotto il profilo religioso e non politico, la prospettiva cambia e dobbiamo parlare di uno dei periodi più felici e innovativi di tutta la storia cristiana.
Fu nel corso dell’Ottocento, infatti, che la carità cristiana ebbe modo di esprimersi attraverso una straordinaria esplosione di creatività, se mi è permessa quest’espressione, di fronte ai nuovi, inediti bisogni materiali, morali ed educativi della civiltà postrivoluzionaria, caratterizzata anche in Italia, sia pure in ritardo rispetto al resto dell’Europa, dall’inizio dell’industrializzazione, dal cambiamento del volto delle città, dalla nascita del mondo borghese e di un nuovo pauperismo, dall’aumento della domanda di assistenza, di cultura e di istruzione.
Da Giovanni Bosco a Giuseppe Cottolengo, da Antonio Rosmini a Giuseppe Cafasso a Lodovico Pavoni a Ferrante Aporti, furono innumerevoli i religiosi, alcuni noti ma molti ancora sconosciuti o semisconosciuti, che nel campo educativo, pedagogico e assistenziale, trasformarono le tradizionali forme caritative del cattolicesimo, fondando istituzioni e nuovi ordini che vennero incontro, molto più di quanto non si immagini, ai bisogni sociali del nostro Paese negli anni precedenti e successivi all’unificazione.
Anche la storiografia accademica sta scoprendo questo mondo semisommerso ma vivacissimo, dal quale uscì trasformato soprattutto il ruolo femminile, con la nascita della figura della suora, cioè di un nuovo modello di donna consacrata:  attiva, autonoma, presente nel secolo e attenta ai suoi infiniti bisogni, mentre prima esisteva quasi soltanto la monaca di clausura.
Il vecchio giudizio di Benedetto Croce, che nella Storia d’Europa (Editore Laterza, 1938) definiva il cattolicesimo ottocentesco “prevalentemente politico e incapace di generare nuove forme e persino nuovi ordini religiosi” non ha davvero nessun fondamento e deve essere non solo rivisto ma addirittura capovolto.
Verona è una delle città italiane in cui questo nuovo cattolicesimo dalla carità attiva e operosa fu più incisivo.
Tutti gli stranieri che vi transitarono non mancarono di notarlo, da Goethe, che fece in riva all’Adige la prima tappa del suo viaggio in Italia, all’austriaco Alois Schlör, che scrisse attorno al 1840 un libro intero sulla religiosità veronese e i suoi protagonisti, intitolandolo Filantropia della fede (Editrice Mazziana, Verona, 1992).
Una delle figure più caratteristiche di questa Verona ottocentesca ancora poco conosciuta fu don Nicola Mazza (1790-1865), il fondatore dei due istituti scolastici, uno maschile e uno femminile, che avevano l’obiettivo di fornire ai capaci e meritevoli, come diremmo oggi, ma sprovvisti di denaro, quella preparazione che da soli non avrebbero mai potuto raggiungere.
Cominciò nel 1828 con le ragazze e cinque anni dopo allargò l’iniziativa ai “soli giovinetti poveri” forniti di ingegno, moralità e buona volontà, con l’obiettivo di portarli fino ai gradi più alti dell’istruzione, cioè al titolo universitario da conseguirsi all’ateneo di Padova.
Mazza era uomo dell’Ottocento e viveva in una città compatta, ben lontana da quella che oggi chiamiamo interculturalità.
Pensando ad una missione in Africa sognava la cristianizzazione di un continente ancora vergine e non si poneva i problemi che sorgeranno dopo, quando i missionari cominciarono ad operare sul campo:  lo sbalzo di civiltà fra l’Europa e l’Africa primitiva, il rapporto con l’islam, la difficoltà di comunicazione con popoli che usavano lingue sconosciute e senza una codificazione scritta, la difficoltà di trasmettere il cristianesimo a chi non l’aveva mai conosciuto.
Ma è indubbio che dalla sua intuizione nacquero impensabili e duraturi sviluppi, non solo in termini di cristianizzazione missionaria ma anche di scambio di civiltà, di culture, di conoscenze.
I missionari di Mazza entrarono in Africa – siamo a metà dell’Ottocento – attraverso l’unica “strada” allora percorribile:  il corso del Nilo, che attraversava l’Egitto.
E così impattarono nell’islam.
L’islam egiziano ottomano non era certo quello fondamentalista e orgoglioso di oggi, ma i nostri missionari, che furono fra i primi europei a stabilire contatti stabili con il mondo islamico, ebbero ugualmente l’impressione di trovarsi di fronte ad una montagna tetragona e inespugnabile.
Nei rapporti che mandarono a Verona e alla Santa Sede – dove si avverte che in Africa la Chiesa cattolica deve “far presto”, altrimenti perderà definitivamente la partita africana, perché dove arriva l’islam non arriva più la croce – in questi rapporti c’è l’intuizione di un grandioso problema di incontro-scontro di civiltà e di culture di cui oggi, e solo oggi, siamo in grado di avvertire tutte le implicazioni.
Ma l’intuizione africana di Mazza portò ad un’altra imprevista conseguenza.
I missionari furono autorizzati dal governo egiziano a svolgere il loro proselitismo solo al di fuori dell’area islamizzata, cioè verso le popolazioni nere dell’attuale Sudan a sud di Khartoum.
Per raggiungerle dovettero improvvisarsi esploratori lungo il corso dell’Alto Nilo.
Percorsero così migliaia di chilometri nella regione che oggi sta a cavallo fra Sudan e Uganda proprio negli anni in cui in Europa esplodeva la febbre del Nilo e l’affannosa ricerca delle sue sorgenti ancora misteriose, che si pensava fossero la porta d’accesso al cuore dell’Africa nera.
Il mistero del Nilo divenne la più appassionante questione geografica del tempo, il porro unum degli infiniti misteri africani.  Come si sa saranno gli inglesi a risolvere per primi il mistero giungendo alle sorgenti del fiume, ma ciò che non si sa, o che pochi sanno, è che furono i missionari del Vicariato apostolico dell’Africa Centrale, la circoscrizione ecclesiastica fondata dalla Santa Sede nel 1846 e nella quale si inserirono i sacerdoti mazziani, che fornirono all’Europa, con i rapporti dei loro viaggi di esplorazione lungo il fiume e sulle sue sponde, le informazioni di cui si avvarranno gli inglesi per arrivare alle sorgenti del fiume.
Furono in particolare i rapporti scritti da Ignaz Knoblecher (1819-1958), un missionario sloveno responsabile del vicariato, di cui esiste nel Museo etnologico di Lubiana un ricco fondo di reperti relativi alle popolazioni nilotiche, e da Angelo Vinco (1819-1853), il primo missionario mazziano giunto in Sudan, che diedero all’Europa le chiavi d’accesso alle mitiche sorgenti del Nilo.
Nelle memorie di Speke e Grant, i due ufficiali inglesi cui si attribuisce il merito della scoperta, il debito nei confronti dei due sacerdoti è ammesso, come è ampiamente riconosciuto in un celebre romanzo ottocentesco, Cinque settimane in pallone di Jules Verne, che nelle pagine iniziali sintetizza con grande precisione la questione della scoperta delle sorgenti del fiume.
E fra i missionari mazziani che si conquistarono fama e prestigio fra gli africanisti della prima ora va annoverato Giovanni Beltrame (1824-1906), uno dei pochissimi che riuscirono a sopravvivere al micidiale clima delle regioni nilotiche, che scrisse libri e rapporti allora molto apprezzati sulle sue esplorazioni ed esperienze d’Africa e che poi divenne, qualche anno prima di morire, superiore generale dell’Istituto mazziano.
Ma il più celebre e meritevole fra gli allievi di Mazza, fra i figli della sua pionieristica intuizione della missione in Africa, fu Daniele Comboni (1831-1881), il vero fondatore della missione in Sudan, nonché fondatore della congregazione missionaria tuttora prospera e attiva in ogni continente, soprattutto fra le popolazioni più diseredate e abbandonate.
Comboni fu interamente plasmato da Mazza, ma in Africa, di fronte ai mille problemi concreti cui dovette far fronte, ripensò e rivide l’idea del fondatore, spogliandola dei suoi aspetti romantici e utopici e trasformandola in un progetto concreto, sostenibile, realizzabile.
Negli ultimi anni della sua vita collaborò attivamente con il più celebre fra gli europei operanti allora in Sudan, Charles Gordon, il mitico Gordon pascia, allora funzionario del governo egiziano ma in realtà battistrada del colonialismo britannico, il quale, pur se frenato da pregiudizio anticattolico della sua rigida educazione anglicana, ebbe grande stima dell’operato di Comboni, benché fosse un sacerdote romano, ne favorì le opere e avrebbe voluto avvalersi dell’aiuto delle sue suore, se Comboni ne avesse avute a disposizione in numero sufficiente da poterne cedere all’amico inglese.
Un progetto, quello di Comboni, che ha superato la sfida del tempo, è sopravvissuto alla rivolta islamica della Mahdia, che infiammò il Sudan nell’ultimo quindicennio dell’Ottocento e poi al colonialismo anglo-egiziano, e ha dato vita all’attuale Chiesa sudanese.
Oggi in Sudan, una delle terre d’elezione, come ben sappiamo, del moderno fondamentalismo islamico, non esiste più nulla del passato coloniale, solo ricordi in via di estinzione.
L’unica istituzione giunta in quel Paese dall’Europa che è riuscita a sopravvivere, trasformandosi e incarnandosi fino a diventare una realtà locale, cioè un’istituzione interamente sudanese, con un episcopato nero, è la Chiesa.
Ciò è frutto della duttilità dell’istituzione ecclesiastica, un’istituzione che per sopravvivere ha dovuto, nel corso dei secoli, imparare a mutare conservando sempre lo stesso volto.
(©L’Osservatore Romano – 14 marzo 2010 Il suo metodo pedagogico, caratterizzato da una specie di classismo alla rovescia, largamente in anticipo sui tempi, per l’intransigente preferenza accordata al povero sul ricco, si fondava su una disciplina severa e su una straordinaria ampiezza culturale, che faceva largo posto alle lingue straniere – francese, inglese, tedesco, spagnolo, con l’obbligo per gli studenti di parlare tra di loro nella lingua che stavano studiando – e alle discipline geografiche.  Perché la geografia? Perché gli anni in cui Mazza fonda i suoi istituti non sono soltanto quelli della Restaurazione, cioè del ritorno all’ordine e alla disciplina, che a Verona significavano il regno del Lombardo-Veneto incorporato nell’Austria asburgica.
Sono anche quelli in cui inizia la scoperta del mondo extraeuropeo e in particolare dell’Africa, che poi diventerà il mito di almeno tre generazioni di italiani.
Mito che all’inizio, con l’avvio dei primi grandi viaggi di esplorazione nelle remote regioni della Nigrizia, come si chiamava allora l’Africa nera, a sud del deserto, fu esplorativo, favolistico, avventuroso, ma che diventa poi una realtà ben più concreta, economica e commerciale, attraverso il progetto del taglio dell’istmo di Suez, cui si appassionò tutta l’Europa e, negli anni a cavallo della metà del secolo, soprattutto il governo viennese, ben consapevole del vantaggio che ne sarebbe derivato ai porti di Trieste e di Venezia.
Oggi nessuno ricorda più che il progetto esecutivo del taglio di Suez, l’opera tecnicamente più grandiosa compiuta nell’Ottocento, non si deve al francese Ferdinand de Lesseps ma ad un ingegnere veneto, direttore delle ferrovie austriache, Luigi Negrelli, che si avvalse dell’aiuto di Pietro Paleocapa, ingegnere padovano e anch’egli pubblico funzionario a Venezia, prima di emigrare a Torino e di diventare ministro dei Lavori pubblici del governo subalpino.
Di Suez, dell’Egitto che si stava modernizzando e aprendo all’Europa e dell’Africa che cominciava a svelare i suoi misteri si parlava molto, insomma, negli ambienti colti del Lombardo Veneto.
E se ne parlava anche a Verona, città molto meno chiusa e provinciale di quanto si potrebbe credere, pensando che sotto l’Austria fu trasformata nel perno del sistema militare e difensivo asburgico, diventando in pratica una città fortificata, una grande caserma.
Non è un caso se pochi anni dopo si sbriglierà proprio a Verona la fantasia dello scrittore Emilio Salgàri, che ambientò in Africa un intero ciclo dei suoi romanzi.
Mazza era certamente filoaustriaco – austriacante, si sarebbe detto una volta – ma era uomo complesso, ricco di fermenti e di intuizioni, interiormente libero.
Era amico di patrioti che sono entrati nella storia nazionale, alcuni dei quali saranno fra i martiri di Belfiore, era molto legato ad Antonio Rosmini.
Recepiva le idee nuove che circolavano nella città, una delle quali era appunto l’Africa, il continente del futuro, secondo le ottimistiche previsioni di allora dove, al Cairo, lavorava come diplomatico del governo viennese il figlio di una delle figure più in vista della Verona del tempo, il conte Carlo Scopoli.
E così il suo progetto educativo e culturale a favore dei giovani capaci e meritevoli ma privi di mezzi, come diremmo oggi, si arricchì di un capitolo nuovo:  il capitolo che prevedeva l’apertura di una missione in Africa.
Non abbiamo tempo di seguire la complicata vicenda attraverso la quale quest’idea passò dalla fantasia alla realtà.
Basterà dire che Mazza, un uomo che sapeva esercitare sui suoi allievi un carisma fortissimo, convinse alcuni di essi che avevano scelto il sacerdozio – il suo collegio era aperto a laici che sceglievano le professioni liberali e a chierici che optavano per il sacerdozio – a farsi missionari in Africa.
È allora che lo studio della geografia divenne sistematico, mentre alle quattro lingue già insegnate si aggiunse l’arabo, che Mazza affidò ad un docente di madrelingua, cioè ad un egiziano reclutato a Milano.
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