Sono curiosi l’uno dell’altro e diventano amici fin dall’incontro d’esordio, nel 1978, frequentandosi poi al di là dei vincoli di protocollo.
Pranzi segreti.
Telefonate dirette.
Colloqui privati e abbracci in pubblico.
Con schermaglie giocose, persino, tanto che in una visita di Stato li si vede baloccarsi su chi abbia la precedenza a varcare le porte dei saloni apostolici: «Prego, prima lei»; «No, prima lei… ubi maior, minor cessat»; «L’ospite è sempre maior, avanti».
Una familiarità che li spinge a scappare insieme dai rispettivi palazzi per una gita in montagna, come due studenti che marinano la scuola.
«Presidente, vuol venire a sciare con me?».
«Santità, non so sciare, mi spiace».
«Venga lo stesso, l’aria buona le farà bene».
Tre giorni dopo sono sull’Adamello, a tremila metri di altezza, e il vecchio ex partigiano grida al Papa che scende dalle piste: «Ma lei volteggia come una rondine».
Ecco come sono i rapporti tra Sandro Pertini e Giovanni Paolo II quando, tra il 31 marzo e l’8 aprile 1983, i due che hanno reso «più strette le sponde del Tevere» si scambiano un saluto pasquale.
L’iniziativa la prende il capo dello Stato, un ateo che, nella memoria della cattolicissima madre, ha «la tentazione della fede».
Prende carta e penna e prepara una lettera dove a ogni riga echeggia la questione polacca, aperta dalla prova di forza tra Solidarnosc e il regime comunista, e nella quale pesa molto l’Ostpolitik vaticana.
I suoi auguri sono un esorcismo.
Infatti, la ricorrenza che si avvicina, diversamente dalla promessa della Pasqua come «liberazione» (dalla schiavitù per gli ebrei d’Egitto, dalla morte a una vita nuova per i cristiani), sembra offrire allora solo incognite e paure.
Specie a Varsavia e dintorni.
Pertini scrive di getto, con poche correzioni: «Santità, sia pace all’animo suo, sempre proteso verso quanti soffrono perché privi del necessario per vivere o perché giacciono inermi sotto la prepotenza altrui.
Sia pace al suo coraggioso popolo, che tanto io amo e che oggi non è libero come liberi dovrebbero essere tutti i popoli e tutte le umane creature.
Non servi in ginocchio siano, ma uomini liberi, in piedi, padroni dei propri pensieri e dei propri sentimenti.
Sia pace, Santità, all’umanità intera: fratelli si sentano tutti i popoli, legati ormai dallo stesso destino: o vivere affratellati insieme da comune aiuto reciproco o insieme perire nell’olocausto nucleare…».
Risponde il Pontefice, una settimana più tardi, colpito dagli «accenti di intensa commozione » nel ricordo delle «persone e popoli che soffrono perché privi di questo bene umano fondamentale» che è la pace.
Quell’augurio, dice Karol Wojtyla, «ha suscitato in me eco profonda.
Ancora una volta nelle sue parole ho sentito vibrare la nobiltà di un animo che sa interpretare le ansie e le speranze insieme condivise.
Le sono grato per la sua sincera amicizia, che vivamente apprezzo.
E la ringrazio altresì per i sentimenti di simpatia e stima per la mia Patria…».
Il Papa sa che quella di Pertini, espressa con la retorica un po’ rétro dell’umanesimo socialista, è una vicinanza vera.
Da tempo il Quirinale, incurante delle prudenze diplomatiche, ha messo in mora il cosiddetto socialismo reale: lo testimoniano un’aspra missiva a Breznev in favore dei dissidenti sovietici e il messaggio di «deplorazione» alla Polonia per il golpe di Jaruzelski.
Così come è autentico il pacifismo del presidente, testimoniato dai suoi appelli per il disarmo («si svuotino gli arsenali, si colmino i granai»), a cavallo della crisi per gli euromissili.
Entrambi hanno visto il celebre film di Andrzej Wajda L’uomo di marmo, e ne hanno discusso considerandolo una premonizione per i Paesi dell’Est sotto il giogo di Mosca: «Un giorno saranno liberi».
Il Pontefice gli ha raccontato la sua esperienza di operaio e poi di sacerdote e vescovo perseguitato.
Il presidente la sua vicenda di antifascista, esiliato, incarcerato e condannato a morte.
Ora insieme si impegnano, ognuno dal proprio versante, a gettare ponti per dialoghi quasi impossibili tra Est e Ovest.
Grandi comunicatori, si battono per allargare i margini di speranza che la storia in quel momento concede.
E sarà anche questo modo di affrontare a viso aperto le tragedie dei totalitarismi a farli percepire dalla gente come due autorità morali.
A renderli icone del Novecento.
Al punto che un intellettuale abrasivo e fuori dal coro come Guido Ceronetti ironizza sulla «papagiovannificazione » del presidente della Repubblica eletto con la più larga maggioranza mai registrata: 832 voti su 995.
Calore umano, vitalità, fierezza, intransigenza e capacità di resistere, commuoversi e indignarsi.
Sentimenti che, nel caso di Pertini, riaffiorano oggi, a vent’anni dalla morte (24 febbraio 1990), da quell’inedito scambio epistolare conservato presso l’Associazione che porta il suo nome.
Alle soglie del nuovo millennio, un sondaggio Doxa lo aveva indicato come «l’italiano del XX secolo», con il triplo dei consensi attribuiti al suo persecutore Mussolini, che un certo revisionismo vorrebbe riabilitare alla stregua di un «buon dittatore».
In realtà, come spiegò lo scrittore argentino Osvaldo Soriano, «non è necessario essere italiani per essere orgogliosi di lui.
Basta appartenere al genere umano».
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