Ai politici, agli amministratori, raccomanda “una speciale attenzione ai poveri” e di “non dimenticare di prendersi cura della loro anima e del loro rapporto con Dio”; alla Chiesa chiede invece di essere “più coraggiosa e testimoniante”, con un’adesione più profonda agli orientamenti del concilio Vaticano ii.
Anche perché i giovani “non ci seguono più, sono culturalmente e sensibilmente lontani dai valori cristiani”.
Il cardinale vicario Agostino Vallini traccia un primo bilancio della sua esperienza pastorale alla guida della diocesi di Roma, a distanza di poco meno di due anni dalla nomina, avvenuta il 27 giugno 2008.
La capitale, i suoi cittadini, i suoi fedeli, costituiscono una realtà particolare, una comunità nella quale scorre ancora una “linfa di autentica civiltà”, che fa sì che “gli episodi di intolleranza verso gli immigrati siano rari e apertamente condannati dalla gente”.
Insomma, Roma è ancora a pieno titolo una città profondamente cristiana, nonostante le profonde trasformazioni che ha subìto in particolare negli ultimi decenni.
Tuttavia, c’è molto da fare.
Il cardinale – in questa intervista a “L’Osservatore Romano” – illustra le linee della pastorale diocesana, dalla quaestio fidei alla preparazione dei sacerdoti, dalla formazione cristiana degli adulti alle indicazioni che Benedetto XVI fornisce, costantemente, al suo vicario.
L’intervista Eminenza, pochi giorni fa, il 14 febbraio, la visita di Benedetto XVI alla Caritas presso la stazione Termini.
È noto che fra i più poveri, i più bisognosi, figurano gli immigrati.
Lei crede che in futuro possano verificarsi anche a Roma episodi di forte tensione fra cittadini e comunità straniere, come è accaduto altrove? La visita del Papa all’ostello della Caritas alla stazione Termini, nell’anno dedicato dal Parlamento e dalla Commissione europea alla lotta alla povertà e all’esclusione sociale, è stata una intensa esperienza di pastorale sollecitudine del Papa verso i poveri, ricambiata dai presenti, molti dei quali immigrati, con grande emozione e sincera gratitudine.
Un’esperienza di alto valore umano e spirituale che ha trasmesso alla città – ne ho avuta vasta eco nei giorni successivi – un forte messaggio per una cultura che consideri la presenza degli immigrati non come fonte di problemi, ma come persone meno provvedute e come noi titolari di diritti.
Una cultura che la Caritas e le altre istituzioni ecclesiali di carità e di solidarietà presenti a Roma diffondono silenziosamente da anni, dimostrando concretamente che l’emarginazione può essere contrastata e vinta dall’amore e dalla giustizia, in nome della carità di Cristo e della dignità da riconoscere e garantire a ogni persona umana.
Le numerose opere di carità a favore degli immigrati parlano alla città con la volontà anche di riparare in tanti casi alla giustizia negata.
Non dimentichiamo peraltro l’apporto positivo di lavoro e di contribuzione all’economia del Paese dato dagli stessi immigrati, inseriti nella vita sociale.
Questa linfa di autentica civiltà fa sì che a Roma gli episodi di intolleranza verso gli immigrati siano rari e apertamente condannati dalla gente.
In futuro si potranno avere problemi di rapporto e confronto con le comunità religiose diverse da quelle cristiane? Tendo a escluderlo.
Non dobbiamo dimenticare che siamo a Roma e che, per quanto i processi storico-culturali che sembrano dominanti influiscano sul modo di pensare e sui comportamenti delle persone, il tessuto sociale è impregnato di valori cristiani, che sono il rispetto della persona umana e delle idee di ciascuno, il riconoscimento del diritto alla libertà religiosa, lo spirito ecumenico.
La presenza del Papa e della Santa Sede, che costantemente richiamano i valori non solo religiosi ma umani e civili, fa sì che i primi destinatari di questi messaggi siano i romani.
Come è cambiata la città? L’immigrazione, le nuove periferie, le ricadute sociali della crisi economica mondiale ne hanno mutato realmente le caratteristiche? Sì, in modo evidente.
Negli ultimi quarant’anni Roma è progressivamente cambiata.
A quel tempo c’era il centro città con la sua identità di metropoli e le borgate che crescevano.
Una città “a doppia spinta” – dicono i sociologi – dove chi stava bene stava sempre meglio e chi era povero diventava sempre più marginale.
Oggi non è più così: non c’è più un centro, gli emarginati sono aumentati, non si evidenziano ragioni di coagulo.
“Il vero vizio – è stato detto – è la mancanza di spirito comunitario e di socializzazione”.
A Roma “la gente non si incontra più, non sa dove farlo” e “ciò vale per il centro storico come per la periferia”.
Roma dunque, come ha spiegato Giuseppe De Rita [segretario generale del Censis], sta perdendo la propria identità diventando “un agglomerato di quartieri diversi, che le periodiche ondate migratorie hanno trasformato in maniera strutturale”.
Negli ultimi 60 anni la città è cresciuta di un milione di abitanti, di cui l’8 per cento sono stranieri.
Tutto ciò è aggravato dalla crisi economica, che ha colpito tante famiglie.
Nel complesso si può dire che Roma sia ancora una città profondamente cristiana o, a livello culturale, la città ha ormai assunto i caratteri tipici, più secolari, delle grandi metropoli europee? È cambiato di conseguenza anche il modo di essere pastore di una realtà come quella romana? Non sono ancora in grado di valutare lo spessore cristiano del popolo romano.
Nelle visite alle parrocchie incontro comunità vive e operose, laici impegnati e generosi, presenza attiva degli istituti di vita consacrata e dei movimenti, ma non crederei che Roma sia indenne dal ciclone perdurante della secolarizzazione.
La realtà è sotto gli occhi di tutti.
Si pensi solo all’invadenza nella vita familiare di un certo tipo di televisione e di internet, soprattutto tra gli adolescenti e i giovani.
Nondimeno rispetto ad altre metropoli europee i segni distintivi della presenza cristiana nella vita della maggioranza della popolazione sono chiari e influenti, seppure non possiamo più fidarci solo della tradizione.
Il mondo è soggetto a continuo cambiamento e la comunità ecclesiale è chiamata ad adeguare la sua azione pastorale alle esigenze dei tempi.
I grandi orientamenti del concilio Vaticano ii devono penetrare di più nel corpo ecclesiale e far maturare una coscienza di Chiesa più coraggiosa e testimoniante.
Così pure, contro la frammentazione, è da promuovere il convergere delle varie forze apostoliche a una maggiore unità nella Chiesa locale.
Di conseguenza cambia anche il modo di esercitare il servizio pastorale.
Cosa prevede il programma pastorale diocesano per il prossimo futuro? Dopo il Grande giubileo del 2000, a cui la diocesi si preparò con grande impegno, vivendo un momento di forte identità e visibilità con la missione cittadina in tutti gli ambienti, in questo primo decennio l’attenzione pastorale è stata concentrata su ambiti importanti, quali la famiglia, i giovani e l’educazione.
Con l’incoraggiamento del Papa, è parso opportuno fare una verifica pastorale, partendo da una domanda: “Come i nostri fedeli hanno coscienza di essere chiesa e sentono la responsabilità di annunciare il Vangelo?” Cinque sono gli ambiti della pastorale ordinaria presi in esame: l’Eucaristia domenicale, la testimonianza della carità, l’iniziazione cristiana, la pastorale giovanile e la pastorale familiare.
I primi due vengono affrontati questo anno, gli altri nei prossimi anni.
Sono convinto che, non potendo presupporre la fede in tanti battezzati, dobbiamo dare a tutta la pastorale una forte impronta missionaria.
Sui principi siamo tutti d’accordo, ma la traduzione concreta richiede impegno soprattutto sul piano della formazione degli operatori pastorali, a cominciare dai sacerdoti e dai seminaristi.
A un anno dalla sua lettera agli educatori scolastici “Educare con speranza”, si può fare un bilancio della mobilitazione che ha coinvolto anche la Chiesa di Roma in risposta alla cosiddetta emergenza educativa? La “Lettera alla diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione”, che Benedetto XVI ci ha indirizzato il 21 gennaio 2008, come è noto, ha avuto una grande risonanza e una vasta accoglienza.
L’autorevole appello del Papa a rendere la nostra città “un ambiente più favorevole all’educazione” è stato sostenuto molto dalla diocesi e tradotto in iniziative capaci di coinvolgere in un lavoro d’insieme i diversi educatori interessati, a cominciare dalla famiglia, spronando tutti a non dimenticare mai che educare è soprattutto un impegno d’amore e, come ogni vero impegno, costa.
Nella mia lettera – seguendo le indicazioni di Benedetto XVI – ho ribadito la necessità di partire, nella difficile arte di educare, dalla testimonianza umana e cristiana che deve accompagnarsi alla competenza professionale e alla dedizione al bene dei ragazzi e dei giovani.
Mi pare che l’emergenza educativa oggi sia molto avvertita.
Per dare seguito a tutto ciò il prossimo 6 marzo celebreremo presso la Pontificia Università Lateranense un convegno sul tema “Progettare la vita.
La Chiesa di Roma incontra la città per un rinnovato impegno educativo”.
Rimanendo sempre nel tema educativo, si sottolinea la necessità di fornire ai giovani “modelli credibili”.
Questi modelli mancano o si ha difficoltà a portarli a conoscenza delle nuove generazioni? È vero, la prima via educativa è la testimonianza credibile degli educatori, che – grazie a Dio – non mancano, anche se non bastano mai.
Lo affermava già Paolo vi nell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, nel 1975.
Ma aggiungerei che, accanto alla testimonianza dei singoli, è necessaria quella della comunità ecclesiale.
Dobbiamo aiutare i fedeli a prendere sempre più coscienza che non si è cristiani solo per se stessi, ma anche per annunciare agli altri la fede, testimoniandola là dove si vive.
Inoltre, va ripensata la proposta formativa.
È necessario offrire una formazione umano-cristiana più robusta così da formare cristiani adulti, uomini e donne, che a loro volta siano punto di riferimento per le nuove generazioni.
La pastorale ordinaria è chiamata ad aggiornare metodologie e contenuti, a cominciare dai linguaggi con cui annunciamo il Vangelo.
Tanti ragazzi e giovani non ci capiscono più, sono culturalmente e sensibilmente lontani dai valori cristiani, bombardati quotidianamente da mille altri messaggi e inviti, nonostante abbiano ricevuto i sacramenti dell’iniziazione cristiana.
Vanno aiutati a scoprire la risposta cristiana alle grandi domande di senso della vita, la bellezza della preghiera con la Parola di Dio, a vivere l’esperienza liberante della confessione e della direzione spirituale e uno stile di vita aperto al servizio di carità.
In tal senso ci sono a Roma esperienze molto promettenti, ma dobbiamo fare di più.
Essere sacerdote a Roma: quali sono le difficoltà, i problemi, i disagi che i parroci le segnalano? È un grande onore essere sacerdote a Roma, ma, per certi aspetti, è anche più impegnativo.
Considerata la fisionomia della nostra diocesi, a cominciare dalla grandezza della maggioranza delle parrocchie e delle altre realtà pastorali, il sacerdote romano ha bisogno di una forte tempra psicologica e di una levatura spirituale alta, capaci di fronteggiare molti problemi, tipici del contesto metropolitano attuale.
Siamo certamente aiutati dal fatto che i sacerdoti, salvo eccezioni, vivono insieme nelle canoniche e ciò permette lo scambio e il sostegno reciproco.
Anche le prefetture (i vicariati foranei previsti dal codice canonico), dove il piano pastorale diocesano trova concreta applicazione locale, svolgono una funzione preziosa per i sacerdoti e di coordinamento del lavoro pastorale.
Lei è stato docente di diritto canonico e di diritto pubblico ecclesiastico, ausiliare di Napoli, poi vescovo di Albano e infine prefetto del Tribunale della Segnatura Apostolica.
Quali di queste esperienze si sta rivelando più preziosa nel suo attuale impegno pastorale? Direi che tutti i ministeri che mi sono stati affidati sono di aiuto nello svolgimento del compito di cooperare con Benedetto XVI nel governo pastorale della diocesi di Roma.
Le varie esperienze sono preziose in una realtà complessa e delicata qual è quella di Roma.
Come cittadino, quali richieste ritiene sarebbe legittimo e comprensibile rivolgere agli amministratori? Mi piacerebbe molto che quanti esercitano il gravoso compito della cosa pubblica abbiano sempre come stella polare del loro mandato il bene comune dei cittadini, con una speciale attenzione ai poveri e a chi soffre.
Mi rendo conto che il loro servizio è difficile, per questo quando li incontro raccomando di non dimenticare di prendersi cura anche della loro anima e del rapporto con Dio, di cui sono rappresentanti; ma anche io, come pastore, non manco di pregare per loro.
Si confronta spesso con il Papa sulla vita della diocesi? Benedetto XVI segue la vita della diocesi.
Ci è molto vicino.
Ho il privilegio di poterlo incontrare spesso, lo informo delle questioni più importanti, delle linee pastorali che intendiamo seguire e ne ricevo indicazioni.
Ogni anno visita il seminario e alcune parrocchie, incontra i sacerdoti all’inizio della Quaresima e apre il convegno diocesano annuale con un discorso che orienta il cammino pastorale.
Senza dimenticare i momenti liturgici più significativi, nel quale il Papa ci è maestro della fede.
Qual è il suo rapporto con la città di Roma? Le mie origini sono di questa terra, a Roma ho trascorso molti anni e adesso, come vescovo, sono a più diretto contatto con la gente, visitando le parrocchie e le altre realtà anche civili.
Roma è una città che, pur nella sua complessità, affascina.
Svolgere il ministero episcopale per i suoi abitanti mi onora e mi impegna molto per ciò che Roma è e significa nel mondo.
E quale invece il rapporto dei cittadini di Roma con il loro pastore vicario? La gente è accogliente e cordiale, dovunque trovo disponibilità, anzi desiderio di rendere le comunità ecclesiali centri di autentica vita cristiana.
Mi sembra che si sia stabilito un buon rapporto con tutti.
Qual è l’evento che le torna alla mente con più frequenza di questo primo periodo trascorso come vicario di Roma? Tra i tanti momenti belli di questi quasi due anni, l’esperienza che più mi ha dato gioia e speranza è stata l’ordinazione presbiterale conferita da Benedetto XVI l’anno scorso a 19 nostri giovani sacerdoti.
Il motivo è facilmente comprensibile.
In conclusione, quale questione pastorale la preoccupa maggiormente? Senza dubbio è quella che chiamerei quaestio fidei, vale a dire come “aggiornare” – nel senso dato a questo termine dal concilio Vaticano ii – l’azione pastorale diocesana e parrocchiale affinché la gente possa aprire il cuore a Cristo e vivere con gioia nella Chiesa.
(©L’Osservatore Romano – 4 marzo 2010)
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