Nessuna strategia predeterminata da seguire, ma una costante attenzione agli spiragli di apertura, curiosità reciproca e fiducia che di volta in volta si venivano ad aprire lungo il cammino, unita a una grande capacità di ascoltare i bisogni dell’altro e muoversi di conseguenza; è probabilmente questo il segreto del successo sorprendente di Matteo Ricci nel dialogo con gli intellettuali del Grande Regno del Dragone, nella seconda metà del Cinquecento fino al 1610, l’anno della morte. In fondo, a ben vedere, una delle modalità in cui si declina la caritas cristiana in chi da essa si lascia investire, visto che l’amore, come scriveva Nicolás Gómez Dávila, è l’organo con cui percepiamo l’inconfondibile individualità degli esseri.
“In tutto mi accomodai a loro” scrive Matteo Ricci di se stesso, con una frase che sintetizza in una battuta lunghi anni di difficoltà, fatiche e pericoli, ma anche di gioie inaspettate e di fecondo lavoro intellettuale; acquistare prestigio e credibilità nelle “cose mechaniche” crea un clima di interesse e simpatia umana da cui può nascere un confronto interessante per entrambe le parti in causa.
“In tutto mi accomodai a loro” è anche il titolo del convegno che si è aperto il 2 marzo alla Pontificia Università Gregoriana e proseguirà fino a giovedì nell’ateneo di Macerata; un’occasione per rileggere i suoi libri più famosi e il suo epistolario.
Analizzare nel dettaglio le opere composte da Ricci e dare uno sguardo alla sua “officina letteraria” permette di capire meglio il suo metodo.
Il Xiguo jifa, la mnemotecnica occidentale da lui tradotta in cinese, per esempio, è un tentativo di adattare il proprio messaggio alle esigenze culturali della civiltà che aveva di fronte.
Gli intellettuali cinesi che aspiravano a qualche carica burocratica nell’impero avevano bisogno di sapere a memoria i classici confuciani, per questo Ricci mise al loro servizio tutte le conoscenze che aveva in merito, rielaborandole in modo per loro comprensibile; sperava così che, riconoscendo l’eccezionalità del metodo di memorizzazione, fossero portati in seguito ad approfondire anche le verità della fede cristiana.
Per la composizione di questo trattato, come di molte altre opere gesuitiche in cinese, furono inventati termini ad hoc per indicare la terminologia specifica e tecnica legata alla filosofia e alla religione occidentali.
Questo lessico è modellato, però, identificando termini che possano avvicinarsi a quelli legati alla filosofia e al divino della cultura cinese e richiese un lavoro notevole di acquisizione ed elaborazione della cultura ospitante.
È in particolare per la rielaborazione delle immagini che Ricci attinge a piene mani alla tradizione linguistico-etimologica cinese; vengono usati i caratteri cinesi, viene utilizzata la loro suddivisione classica in famiglie e i criteri di suddivisione attraverso metodi semantico-associativi e fonetici.
La struttura stessa del testo rispecchia quella della lingua locale.
Il Xiguo jifa, come e forse più del trattato sull’amicizia (quello che oggi potremmo chiamare un instant-book agile e “di servizio”), è un esempio significativo di come padre Matteo accolse e si lasciò modellare dalla cultura che lo accoglieva, accettando di dedicare tutte le sue energie a quest’opera e di “mobilitare” tutte le sue competenze, dalla passione per la musica – un esempio tra i tanti: compose ed eseguì otto canzoni per gli alti dignitari dell’imperatore – alle conoscenze di “cose mechaniche”.
L’intuizione di Matteo Ricci è stata quella di applicare anche in Cina l’esperienza dei Padri della Chiesa, l’innesto rigoglioso e fecondo del cristianesimo nella cultura antica, soprattutto ellenistica e romana; poté così confrontarsi positivamente con il confucianesimo – ma è bene precisare che si tratta del confucianesimo “antico”, non influenzato dal buddismo – mentre altri avevano fallito perché intendevano sovrascrivere il messaggio cristiano senza tener conto del retroterra culturale locale, rischiando di spazzare via i “germogli appena spuntati” del dialogo in atto.
La stima verso il popolo del Grande Regno del Dragone in padre Matteo era sincera, non frutto di una strategia e neanche di una “dissimulazione onesta”.
La grande cultura cinese lo aveva impressionato positivamente; per il gesuita Nanchino e Pechino non avevano niente da invidiare alla Firenze dell’epoca.
Forse è proprio per questo rispetto autentico e non simulato che il missionario marchigiano è tuttora molto amato e conosciuto in Cina – insieme a Marco Polo è l’unico straniero presente nel monumento del millennio a Pechino – e nel nostro tempo di dialogo tra religioni e culture profondamente diverse resta un simbolo attuale a cui richiamarsi.
di Silvia Guidi (©L’Osservatore Romano – 4 marzo 2010)
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