L’intervista «Bisogna essere sinceri.
Certe volte è un po’ difficile interpretare correttamente le parole del Santo Padre».
No, per carità, nessuna polemica.
Il professor Giuseppe De Rita è da sempre un cattolico molto attento e consapevole: quindi osservante e molto rispettoso ma anche abituato ad esprimere il suo parere con molta tranquillità e libertà intellettuale.
In che senso difficile, professore? «Perché parliamo del Pontefice della Chiesa universale.
Ed è complicato capire se si riferisca all’intero pianeta o alla crisi della civiltà occidentale, all’Africa sub-sahariana o alla vecchia Europa, o addirittura alla nostra Italia».
Fatto sta, professore, che Benedetto XVI ha proposto una riflessione sulla necessità di cambiare i nostri stili di vita…
«Come non dargli ragione? Lui stesso deve essersi reso conto di aver messo un po’ tutto in quell’elenco.
La fame, lo squilibrio tra poveri e ricchi, la carenza delle materie prime nel Pianeta, l’emergenza ecologica.
È il fascino di questi discorsi.
Ed è, insieme, il loro limite.
Cioè il non fermarsi di volta in volta su un punto, uno solo…
Mi pare chiaro che siamo tutti chiamati a mutare il modo di vivere, di modificare i consumi.
La crisi è evidente a chiunque.
Così come è chiaro che non si può continuare a consumare nel modo che abbiamo conosciuto per decenni» In questo quadro il Pontefice insiste su un punto: la rivalutazione dell’agricoltura «non in senso nostalgico ma come risorsa del futuro».
Lei, professor De Rita, pensa che sia un’esortazione realizzabile in un mondo come il nostro? «Guardi, qui mi piacerebbe soffermarmi sul caso italiano.
Il nostro è stato un Paese per secoli a tradizione agricola.
Ma ora non si può ragionevolmente immaginare un ritorno a un mondo che non c’è più.
L’agricoltura funziona, in una realtà contemporanea come quella italiana, quando si intreccia con altri tre mondi.
Cioè con la stessa industria, e allora abbiamo l’agro-industria, uno dei settori di eccellenza dell’Italia.
Quando si collega al turismo, ed eccoci all’agri-turismo, che si è ormai sviluppato ovunque, dai masi nel Trentino alle masserie pugliesi».
Infine, sottolinea De Rita, c’è un’altra realtà: «Quel tipo di agricoltura che si intreccia con la realtà urbana.
Parlo delle coltivazioni curate dai pendolari, dai pensionati che hanno comprato un piccolo terreno e lo coltivano.
Come si vede osservando queste tre diramazioni, se si dice “agricoltura” in Italia non si indica più una zona economica composta da poveracci e da emarginati sociali.
Forse, qualche difficoltà possono averla quei coltivatori a lungo “protetti” dagli incentivi dell’Unione Europea.
Ma non è una realtà così corposa da trasformarsi in fenomeno sociale».
Una piccola pausa: «Certo, se l’analisi del Papa va poi applicata, come dicevo, a quelle aree africane semidesertiche dove l’agricoltura è una necessità primaria ma stenta, per ragioni climatiche e geologiche, a sfamare le popolazioni, il discorso cambia radicalmente…» Un dubbio.
Il richiamo dell’Angelus di ieri non svela forse quell’antico sospetto con cui la Chiesa sembra aver guardato per decenni alla civiltà industriale? Non c’è veramente il rimpianto per il mondo agricolo regolato da leggi morali precise? «Ritengo che a pensarla così sia rimasto solo qualche parroco in pensione novantacinquenne di chissà quale piccolo paese….
In realtà mi pare che dalle parole del Santo Padre emerga un’altra questione.
Cioè che la Chiesa vede concludersi un mondo “certo”, sicuro, cioè il grande sviluppo legato all’industria così come l’abbiamo conosciuta.
E di conseguenza si interroga sulla nuova zona di incertezza sociale costituita oggi da un terziario dove inevitabilmente vince il personalismo e la soggettività.
Ed è in quell’area che affondano le radici del relativismo contemporaneo e quindi della secolarizzazione.
Lì tutto diventa opinabile…
E la Chiesa, giustamente, si preoccupa».
in “Corriere della Sera” del 15 novembre 2010
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