Il Card.
Carlo Maria Martini risponde sul “Corriere della Sera” alle domande dei lettori Eminenza, perché esistono gli angeli? Michele Toriaco – Torremaggiore (Foggia) Una lettera brevissima, ma che apre un campo assai vasto di riflessioni, di ipotesi e di ricerche.
Anzitutto il mio interlocutore sembra avere la certezza che gli angeli esistano, in quanto domanda sul loro perché.
Non sarei così sicuro che egli possa trovare tutti consenzienti sulla esistenza degli angeli.
Succede un po’ agli angeli come ad altre realtà: per un certo tempo sono come di moda e molti ne parlano; in un altro tempo sono come relegati nel limbo della dimenticanza.
Il nostro momento storico, salvo alcune eccezioni, è piuttosto un tempo di dimenticanza.
Non è sempre stato così.
Per esempio san Tommaso nella sua Summa Theologiae dedicava ben quindici delle sue «Questioni» agli angeli.
Molti autori riformati rifiutano la venerazione degli angeli e non pochi dubitano della loro esistenza.
I razionalisti, come è ovvio, la negano del tutto, mentre il grande teologo protestante Karl Barth riconosce agli angeli un ruolo straordinario nel piano di Dio.
Io ritengo che noi ne sappiamo poco sugli angeli: tuttavia essi esistono e la Scrittura ne parla più volte come di esseri celesti e messaggeri di Dio.
Perché esistono? Appare conveniente che ci siano, oltre all’uomo, che è un essere corporeo, anche altri esseri che siano come intermediari tra l’uomo e l’infinità assoluta di Dio.
Come dice il Salmo 8,8: «hai fatto l’uomo poco meno degli angeli di gloria e di onore lo hai coronato».
La realtà degli angeli è anzitutto una realtà di fede e il motivo ultimo della loro esistenza è, come per noi uomini, la bontà di Dio che vuole comunicarsi a esseri capaci di dialogare con lui.
Scrive Paolo che senza la risurrezione di Cristo la nostra fede è vana.
Ma Gesù risorto, anziché mostrarsi al popolo e convincere tutti della sua divinità, appare ai discepoli, già convinti che egli fosse il Cristo: dunque, una testimonianza «sospetta».
Il pagano Celso aveva notato l’aporia: «Quando in carne ed ossa non era creduto, senza posa annunciava a tutti la sua novella, quando invece risuscitando dai morti avrebbe offerto una sicura garanzia, allora apparve di nascosto ad una sola donnetta e a quelli della sua confraternita» (Discorso sulla verità, II 70b).
Antonio Zandonati – Rovereto (Trento) Le dirò sinceramente che per qualche tempo sono stato anch’io turbato da questo fatto, che è esposto chiaramente in un discorso di Pietro negli Atti degli Apostoli (10, 40-42): «Dio lo ha risuscitato, al terzo giorno e volle che apparisse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua resurrezione dai morti.
E ci ha ordinato di annunziare al popolo e di attestare che egli è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio».
Dicevo a Gesù: «Tu hai voluto morire davanti a tutto il popolo, così che ogni persona che entrava o usciva da Gerusalemme potesse vederti nei tuoi ultimi istanti.
Perché quando sei risorto non sei apparso a tutto il popolo, così che tutti ti potessero vedere?».
Ho superato questo turbamento riflettendo su quattro cose.
Primo, che non si era trattato, di un’apparizione a una donnetta, ma a testimoni diffidenti e increduli.
I racconti dopo la risurrezione mostrano chiaramente che i discepoli non si lasciarono convincere facilmente che quell’uomo apparso a loro era davvero Gesù vivo e vero.
Secondo: ho riflettuto sulle parole e sui gesti straordinari di Gesù durante il suo ministero pubblico.
Sono parole e gesti che superano il tempo e hanno un sapore di eternità.
Parole che nessun uomo oserebbe pronunciare, gesti di cui la gente dice: «Non abbiamo mai visto nulla di simile» (Mc 2,12).
Terzo, le profezie che facilitarono anche agli apostoli l’accettazione della risurrezione di Cristo e della sua missione nella storia.
Quarto: l’anelito alla permanenza oltre la morte che è in ciascuno di noi.
Mi pare che il Signore ci abbia dato motivi sufficienti per la ragionevolezza del nostro credere, ma non ce li abbia dati così schiaccianti da costringere in qualche modo la nostra libertà.
La fede è sempre un fidarsi di Dio e un buttarsi nelle sue braccia.
Sto leggendo il libro «Perché è Santo» di Slawomir Oder e sono rimasto turbato e amareggiato dalla notizia che Papa Wojtyla si flagellasse.
Perché infliggere punizioni al proprio corpo, dono di Dio? Bernardo Colussi – San Vito al Tagliamento (Pordenone) Nessuno che abbia un po’ di conoscenza della storia dell’ascetica si stupirà di piccole afflizioni corporali, (digiuni, cilici ecc.) motivate dal fatto che, come diceva un asceta del buon tempo antico «il corpo sappia che deve servire».
V’era anche il desiderio di riparare per tutti i peccati che si commettevano nel mondo.
È forse improprio parlare di «flagellazione», perché si pensa a quella dolorosissima che dovette subire Gesù e che veniva praticata senza risparmio per i condannati a morte.
Nella ascesi si trattava piccole penitenze, che non erano dannose per il corpo.
Non si deve quindi pensare a una sorta di autolesionismo o di masochismo.
Il corpo è, come lei dice, dono di Dio, ma si deve anche tener conto della sua propensione alla comodità e alla golosità.
Oggi l’ascetica insiste meno su queste pratiche, benché esse siano ancora esercitate.
Si è preso maggiormente coscienza del fatto che già il vivere con un certo ordine in questa società disordinata e caotica è in sé una penitenza.
Eminenza, ho un dubbio: che la preghiera «Requiem aeternam dona eis Domine et lux perpetua luceat eis, requiescant in pace» sembri poco cristiana.
Mi fa pensare al Paradiso come a un grande dormitorio.
Non sarebbe meglio se suonasse così: «Gaudium aeternum dona eis Domine et lux perpetua luceat eis, gaudeant in pace et in laetitia».
Augusto Colonnelli – San Donato (Milano) La preghiera proposta è certamente bella e chi vuole la può recitare così.
Ma anche la preghiera tradizionale è bella perché secondo la pregnanza biblica del termine «Requies» va intesa non come un sonno, ma come il giusto riposo che segue alle battaglie della vita.
La «luce eterna» è lo splendore del Verbo che illumina ogni cosa (cfr.
Apocalisse 21.23: «La città non ha bisogno della luce del sole né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello»).
Similmente il «requiescant in pace» è l’augurio di entrare con pienezza nello shalom, che è, secondo la Scrittura, la sintesi di tutti i doni di Dio.
Ascoltavo con attenzione il prologo in forma breve del Vangelo secondo Giovanni quando ho avuto un «tonfo» al cuore nel sentire: «La luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta».
Nella mia mente e nel mio cuore giravano le parole ascoltate e conosciute da sempre: «La luce splende nelle tenebre ma le tenebre non l’hanno accolta».
Un completo ribaltamento del rapporto luce tenebre dopo circa duemila anni? Antonio Cerino – Roma Del verbo greco sottostante si può dare una duplice versione: «vinta» o «accolta».
La gran parte degli esegeti greci, a partire da Origene, stanno per la prima interpretazione.
Negli esegeti moderni si trova piuttosto la seconda.
È quella che è stata seguita anche dai revisori della Bibbia in italiano.
Si può oscillare tra le due tradizioni, ma non si ha un ribaltamento del rapporto «luce/tenebre» bensì una duplice possibilità di intesa dell’azione delle tenebre.
in “Corriere della Sera” del 28 febbraio 2010
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