Intervista a Gianfranco Ravasi a cura di Lorenzo Fazzini «ll nostro dicastero sta organizzando una Fondazione intitolata “Il cortile dei gentili” che si ispira al discorso del Papa alla Curia a dicembre».
L’annuncio è di monsignor Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio per la cultura.
Una prima concretizzazione dell’auspicio di Benedetto XVI per un rinnovato dialogo con gli uomini e le donne che non credono ma vogliono avvicinare Dio.
Quali gli obiettivi di questo nuovo ente? «Primo, creare una rete di persone agnostiche o atee che accettino il dialogo e entrino come membri nella Fondazione e quindi del nostro dicastero.
Inoltre, vogliamo avviare contatti con organizzazioni atee per avviare un confronto (non certo con l’Uaar italiana, che è folcloristica).
Terzo, studiare lo spazio della spiritualità dei senza Dio su cui aveva già indagato la Cattedra dei non credenti del cardinale Martini a Milano.
Infine, sviluppare i temi del rapporto tra religione, società, pace e natura.
Vorremmo, con questa iniziativa, aiutare tutti ad uscire da una concezione povera del credere, far capire che la teologia ha dignità scientifica e statuto epistemologico.
La Fondazione vorrebbe organizzare ogni anno un grande evento per affrontare, di volta in volta, uno di questi temi».
Il debutto? «Nella seconda metà di quest’anno, probabilmente a Parigi, città molto viva su questi argomenti: abbiamo già avuto la disponibilità di Julia Kristeva (nota linguista e psicanalista, ndr)».
Ma tra i non credenti vi è disponibilità al confronto proprio su Dio? «Bisogna tener conto dei diversi ateismi, non riducibili ad un unico modello.
Da un lato c’è il grande ateismo di Nietzsche e Marx che purtroppo è andato in crisi, costituito da una spiegazione della realtà alternativa a quella credente, ma con un sua etica, una visione seria e coraggiosa, ad esempio nel considerare l’uomo solo nell’universo.
Oggi siamo in presenza di un ateismo ironicosarcastico che prende in considerazione aspetti marginali del credere o posizioni fondamentaliste, ad esempio nella lettura della Bibbia.
È l’ateismo di Onfray, Dawkins e Hitchens.
In terzo luogo vi è un’indifferenza assoluta figlia della secolarizzazione ben sintetizzata dall’esempio che Charles Taylor fa in L’età secolare quando afferma che se Dio venisse in una nostra città, l’unica cosa che succederebbe è che gli chiederebbero i documenti».
Come si conciliano annuncio e dialogo? «Nell’identità.
Come nel dialogo con le religioni, che richiede il mantenimento delle reciproche identità, vi deve essere rigore anche con l’ateismo.
Più che una dimostrazione a chi è religiosamente povero, forse bisogna far vedere la ricchezza di quell’oasi che è il credere.
Ogni fede non è mai solo informativa ma anche performativa, cioè offre dati sull’uomo ma al tempo stesso li dice con calore.
Se presenta in modo ricco la religione, il dialogo adempie al compito di presentare la fede in maniera efficace, senza che si punti su bisogni primari, ad esempio la religione come “farmaco” in una malattia.
Lo scambio è già fruttuoso con la scienza: come sostiene Michel Heller, oggi siamo in presenza di una vera e propria “teoria del dialogo” per cui, in alcuni ambienti, scienza e fede, e qui direi ateismo e fede, si incrociano.
Basti pensare alla teoria della relatività, che ha bisogno dello spazio e del tempo nel loro significato filosofico, cioè simbolico.
Qui c’è lo spazio di un vero dialogo nell’amicizia».
in “Avvenire” del 25 febbraio 2010
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