Invictus

Accade a volte che un evento sportivo assuma significati che vanno oltre l’aspetto agonistico.
Così se per la maggior parte della gente la finale della Coppa del mondo di rugby del 1995 disputata all’Ellis Park Stadium di Johannesburg fu solo un’avvincente partita, peraltro con un risultato sorprendente, per il Sud Africa rappresentò un momento cruciale della storia nazionale.
Grazie alla lungimiranza di un uomo, Nelson Mandela, primo presidente di colore nel Paese, quell’evento divenne esperienza comune di un popolo fino ad allora diviso tra bianchi – pochi ma detentori del potere e della ricchezza – e neri, poveri ed emarginati.
Quell’impensabile convergenza del tifo su una squadra, gli Springboks, sostenuta solo dagli afrikaaners e odiata dai nativi per i colori verde e oro divenuti simbolo della segregazione, aiutò in parte a sanare le ferite del passato e a infondere speranza in un futuro pieno di incognite dopo la vergogna dell’apartheid.
Scegliendo di raccontare questa storia in Invictus, Clint Eastwood, alle soglie degli ottant’anni, prosegue con bravura e sensibilità il suo percorso di regista impegnato a esplorare l’uomo e la società.
E sulla scia di Gran Torino (inno alla non violenza ma anche invito alla tolleranza razziale, contro ogni pregiudizio) affronta i delicati temi del perdono e della riconciliazione.
“Il perdono – fa dire al suo Mandela – libera l’anima, cancella la paura.
Per questo è un’arma tanto potente”.
Probabilmente dietro a queste parole non si cela solo un imperativo morale, ma anche un più pragmatico calcolo politico, segno di una lucida visione della realtà, che però non sminuisce il senso di una scelta coraggiosa.
Nelle sale italiane dal 26 febbraio, Invictus non è, dunque, un film sullo sport in senso stretto, né la biografia di un uomo.
Tuttavia, l’accorta regia di Eastwood e la sceneggiatura di Anthony Peckham tratta dal libro Ama il tuo nemico di John Carlin (Sperling & Kupfer) danno un tono quasi epico alle scene agonistiche caricandole di un pathos che richiama i classici del genere, come Fuga per la vittoria o Momenti di gloria. Così come il fulcro della vicenda sembra perfetto per analizzare i tratti essenziali del carisma politico di Mandela.
Lungi dal voler dipingere un santino del leader dell’African national congress (Anc), che ha trascorso in carcere 27 anni prima di diventare presidente del Paese e un simbolo planetario della lotta per i diritti civili e per la libertà contro ogni oppressione, Eastwood, grazie all’ottima interpretazione di un Morgan Freeman perfetto nel ruolo del protagonista, ne condensa in efficaci quadri la personalità complessa, segnata da un’esistenza durissima.
Emerge così la figura di un uomo intelligente e realista.
“È una domanda lecita” risponde spiazzante ai fedelissimi risentiti per l’astio che si cela dietro il titolo di un giornale l’indomani del voto:  “Ha vinto le elezioni ma sarà in grado di governare?”.
Efficace e convincente nel far passare le sue idee, per quanto apparentemente contraddittorie con la sua storia e con quella dei suoi fratelli neri, capace di vedere oltre la limitata prospettiva dei suoi collaboratori più stretti che lo sconsigliano di occuparsi del rugby e di quella squadra amata soltanto dai bianchi, Mandela comprende invece quanto quel campionato del mondo sia importante.
Il Paese sta vivendo un momento cruciale, l’ombra dell’apartheid ancora incombe nei rapporti tra le persone ed egli sa che occorre fare appello all’orgoglio nazionale; per questo punta sull’unica cosa che in qualche modo può unire la sua gente.
Contro tutti, a costo di apparire persino un traditore della causa per la quale ha pagato in prima persona un altissimo prezzo, Mandela riesce a dissuadere i dirigenti dell’Anc dall’abolire la squadra degli Springboks e dal cancellarne gli odiati colori:  “Il passato è passato.
Guardiamo al futuro adesso”.
E gioca la sua carta più efficace:  portare dalla sua parte il carismatico capitano della squadra, Françoise Pienaar, interpretato da un convincente Matt Damon, e attraverso lui tutti i giocatori.
Lo fa citando una poesia di epoca vittoriana che era stata la sua fonte di ispirazione durante gli anni trascorsi in prigione, Invictus, di William Ernest Henley.
Pienaar, sportivo improvvisamente al centro di una questione politica, comprende che la posta in gioco è ben più alta persino di una coppa del mondo; si appassiona al progetto e controbatte alla diffidenza e alle resistenze dei compagni, uno solo dei quali nero, che convince persino a cantare il nuovo inno nazionale, Nkosi Sikelei i Afrika, cioè “Dio benedica l’Africa” nella lingua dei sudafricani neri:  “Che ci piaccia o no – dice ai suoi – siamo più di una squadra di rugby.
I tempi cambiano.
 Anche  noi  dobbiamo  cambiare”.
La missione che Mandela affida a quei ragazzi è vincere la coppa del mondo che verrà disputata proprio in Sud Africa, ma il vero obiettivo è la pacificazione nazionale sintetizzata nel motto “una squadra, un Paese”.
L’occasione è unica, irripetibile.
Ma anche sportivamente è un’impresa al limite del possibile.
Tuttavia nulla è impossibile se si persegue l’obiettivo con tenacia e convinzione.
“Sentite? Ascoltate il vostro Paese.
È questo.
Questo è il nostro destino”, urla il capitano ai compagni nel momento più difficile della partita della vita, invitandoli a udire il portentoso incitamento degli oltre sessantamila tifosi sugli spalti e di altri 42 milioni di sudafricani bianchi e neri, per la prima volta uniti, incollati davanti alla tv e alla radio.
Pur non essendo allo stesso livello di Gran Torino, di Mystic River o di Letters from Iwo Jima, Invictus è comunque un ottimo film, senza quella retorica che pure sarebbe stata comprensibile visto il tema, che racconta una scommessa rischiosa ma vinta e, soprattutto, una vicenda realmente accaduta.
Una bella lezione della storia, dunque, portata intelligentemente al cinema da un grande regista a beneficio di un più vasto pubblico.
di Gaetano Vallini

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *