Dire Dio nel processo di apprendimento scolastico

Dire Dio Secondo l’approccio psicologico e psicoanalitico   Massimo Diana Pozza di Fassa, mercoledì 30 giugno 2010.
La relazione si può scaricare dagli allegati a destra         DIRE DIO IN UNA SCUOLA LAICA     1.
 Le resistenze nella scuola laica Dire… l’indicibile?:                                                              Ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto                                                            (Romani, 1, 19)   1.1  Dire Dio: Legittimo?                                Giobbe finalmente si arrende a Dio: “ Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi Ti vedono.” (Giobbe, 42, 59) Non c’è uomo che non lo conosca, almeno per sentito dire; perché se ne parla: non c’è lingua che non lo nomini.
(Spaemann, 2008).
Legittimamente? Per garantirsi, la ragione ha percorso piste rigorose ed ha tentato di vagliarne la fidabilità.
Con esito incerto: una tradizione secolare e autorevole lo ha riconosciuto all’origine della realtà, causa e fondamento del mondo.
Ma la stessa tradizione trova resistenze tenaci, magari proprio sul versante di chi fa del riferimento a Dio l’orizzonte di significato definitivo per la propria esistenza.
Pascal e Kierkegaard rappresentano solo gli esponenti più illustri fra i credenti che hanno avanzato dubbi e perplessità sulla dimostrazione razionale, sulla cosiddetta via rationis.
In epoca moderna scuole filosofiche di impatto straordinariamente vasto e accreditato hanno negato alla ragione umana il diritto di parlare di Dio (Kant); hanno screditato l’intera compagine tradizionale che ne esigeva la presenza (Nietzsche); hanno denunciato il riferimento a Dio come evasivo di un impegno umano responsabile (Feuerbach-Marx).
Insomma la compagine della credibilità appare scossa.
E tuttavia il tema di Dio non è di quelli che si possano sottacere; ha tutta la provocazione di un confronto che mette in gioco o addirittura a repentaglio l’esistenza.
    1.2  Resistenze in ambito divulgativo:             In chi… crede colui che crede?                                                                           Quasi un secolo fa un pensatore credente J.
Rivière, s’interrogava sulla resistenza dell’a-teo di fronte a tante verità, di cui la fede è depositaria.
Mettendosi nei panni dell’interlocutore, ripeteva a se stesso: – com’è possibile che un uomo intelligente, di buona cultura ammetta… – E faceva un elenco discreto di affermazioni, cui il credente dà normalmente la propria adesione (Rivière, 1925, 32).
Per cui si era proposto un compito singolare: spiegargli  il suo punto di vista, dipanargli la logica e la coerenza del proprio modo di pensare, con la… presunzione di metterlo a parte di un’esperienza singolarmente illuminante       Qualche anno fa il cardinal Martini, allora arcivescovo di Milano, aveva avviato una interessante iniziativa: la cattedra dei non credenti.
In un dibattito assai vivace aveva chiamato in causa il non credente e l’aveva sollecitato a spiegare la propria posizione.
Uno di loro, che si riconosce in questa schiera, riprende recentemente le fila (Savater, 2007).
“In che cosa crede chi non crede?” era la domanda.
“Crediamo, risponde F.
Savater, nella constatazione dei fenomeni naturali stabiliti dalla scienza, in quel che è verificato da studi storici e sociali, nell’opportunità di alcuni valori morali, eccetera.” (Savater, 2007, 85).
Considerazioni piuttosto evasiva:[1] Più incalzante è invece la domanda che, a sua volta, Savater propone: “- In cosa credono coloro che credono… – Perché ci credono una volta che riescono a chiarire in cosa credono.
… – Non si tratta di pretendere da chi crede in ‘Dio’ che chiarisca il contenuto della sua         fede e le ragioni che lo portano ad adottarla…” ( Savater, 2007, 86).
Invece noi pensiamo che proprio di questo si tratti: che chi crede in Dio sia in dovere di mettere a punto la risposta e dire con chiarezza in che cosa e in Chi crede e le ragioni per cui ci crede! Appunto perché vive in un contesto in cui ‘credere in Dio’ non è affatto ovvio.
Nel trecento l’amico di Dante, Guido Cavalcanti, è passato alla storia perché, secondo il suo biografo, ‘passò la vita a cercar se trovar si potesse che Dio non fusse…’ Savater sembra essersi proposto lo stesso compito; ma data la situazione culturale odierna non passerà alla storia per questo.
Fa parte di quella schiera piuttosto numerosa che Sartre ha già lucidamente identificata una sessantina di anni fa.
Il nostro problema, scriveva Sartre, non è l’esistenza di Dio, ma che “l’uomo ritrovi se stesso e si persuada che nulla può salvarlo da se stesso, fosse pure una prova valida dell’esistenza di Dio.” (Sartre, 1968, 93).
    1.3 Resistenze nelle matrici culturali             Nihilismo contemporaneo e le sue matrici:  la visione di Heidegger[2].
                                                  Dicono a me tutto il giorno                                                                                    Dov’è il tuo Dio?                                                                                                                (Salmo 41)   Sintetizzando.
  Nella visione più radicale di Heidegger la tradizione occidentale, metafisica s’innesta al pensiero filosofico e lo oscura allorché il pensiero occidentale, piegandosi esclusivamente sull’ente ne ha raggruppata la problematica attorno a due nodi centrali: “…la metafisica distingue infatti da sempre fra ciò che l’ente è e fra il fatto che esista o meno…
Con questa distintnzione comincia la storia dell’essere come metafisica” (Heidegger, 1961, 2°, 400-401).
La distinzione fra essenza ed esistenza viene in quel momento definitivamente formulata.
Platone specialmente si piega sulla considerazione dell’essenza con la segreta fiducia di tracciare il problema dell’essere.
In realtà risale ultimamente proprio a questa distinzione l’oblio dell’essere: allorché i due aspetti dell’ente – essenza ed esistenza – vengono considerati come l’opposizione più profonda e definitiva finiscono con l’oscurare l’originaria distinzione fra essere ed ente.[3] L’ente si propone e s’impone, occupando l’intero orizzonte della riflessione, senza rimando a fondamento alcuno.
L’insita inconsistenza dell’ente e la conseguente aspirazione del pensiero a rilevarne la fondazione induce ad elaborare una gerarchia fra gli enti; e la loro reciproca azione si trasforma in causalità.
che tende a dare ragione di ciascuno di loro.
  Si vanno dunque rinsaldando gli anelli d’una lunga catena che, risalendo di ente in ente, crede finalmente di potersi agganciare ad un anello definitivo, rappresentato da un ente che sia pura causalità, da cui tutti gli altri trarrebbero origine ed in cui troverebbero giustificazione.
La meta sembra suggestiva: il solco fra essenza ed esistenza, di cui sono segnati tutti gli altri enti, qui trova finalmente modo di essere colmato.
L’actualitas ha assunto tali proporzioni da assorbire e fondere in sé i due ‘con-principi’, essenza ed esi­stenza.­ L’attualità è l’essenza stessa di tale essere sommo, gli appartiene necessariamente; non solo, ma trova in lui la propria scaturigine ultima: ‘E l’ente che non può non essere: teologicamente pensato tale ente si chiama Dio” (Heidegger, 1961, 2°, 4I5).
     1.2 La concezione metafisica del mondo   [4]Di fronte alla metafisica e contro di essa Nietzsche ha preso apertamente posizione.
Ha tentato di rilevarne l’inconsistenza: ha affermato che il suo fondamento vivente, il summum ens, non poteva più reggere ed ha decretato la morte di Dio, non tanto come ribellione religiosa (Heidegger, 1961, 1°, 183), quanto come rivalsa di un pensiero più moderno e maturo di fronte alla tradizione filosofica occidentale.
Decretare la morte di Dio è decretare l’inanità di tutte le prospettive che a lui venivano rapportate.  Tutta la gerarchia dei valori tradizionali si affloscia perchè è crollato il loro punto di convergenza, il loro centro di attrazione.
L’ente stesso, segnato nella sua essenza da un inconfondibile impronta teologico-cristiana ne esce irrimediabilmente compromesso.
E il vuoto, scavato al centro, nel cuore degli enti, si allarga irresistibilmente alla periferia, vanificandone man mano uno strato sempre più largo.
La morte di Dio ha creato, per così dire, la base di lancio del nihilismo; il suo inarrestabile allargarsi ne segna le tappe successive.
Nietzsche non si preoccupa che la storia provi o contesti la validità delle sue affermazioni; per lui queste vanno assumendo la garanzia d’una certezza originaria, indiscutibile.
Se il mondo sembra ancora ruotare attorno all’antica stella, illuminarsi della sua luce, si tratta di un movimento che si protrae solo per forza d’inerzia, d’una luce destinata a spegnersi perchè appunto esaurita nella sua sorgente.
 “Le scene del teatro del mondo possono ancora per qualche tempo apparire le stesse, ma il dramma che si rappresenta è già un altro” (Heidegger, 1961, 2°, 33)• Dio potrà ancora per qualche tempo sembrare il regista, in realtà intreccio, trama, azione gli sono sfuggite di mano.
Al punto che la sua presenza si fa inutile e superflua.
Se il mondo può stare da sé, da solo, il destino di Dio è segnato; non c’è più ragione per cui egli debba esser chiamato in causa….
La sua scomparsa ha scavato un vuoto profondo: ha suscitato quell’indefinibile sensazione di inconsistenza, di inanità che N.
chiama ‘sensazione di insignificanza’, che s’allarga oltre i singoli enti fino al cuore, all’essenza stessa dell’ente (Heidegger, 1961, 2°, 80).
    1.4  Il linguaggio su Dio perde la presa   La lettura che Heidegger propone della sentenza di Nietzsche ha il pregio della sintesi e della radicalità.
Andrà naturalmente verificata e senza dubbio ridimensionata.
Lascia tuttavia la sensazione di aver colto un aspetto profondo e conturbante del linguaggio tradizionale su Dio: che cioè qualcosa suoni a vuoto; non penetri nel cuore della realtà, di cui presume di parlare.
La verità di Dio non sembra scalfitta da un discorrere insistente e continuo, quanto evasivo e inefficace.
Soprattutto il linguaggio non sembra in grado di parlare di Dio, anche se il suo nome ritorna fino al parossismo.
Giustifica di conseguenza una riflessione in grado di rivederne le matrici e i percorsi.
Vi si addensano richiami e suggestioni che possono sollecitare un autentico rinnovamento del linguaggio anche su Dio.
Dio è assente dalla vita; se c’è, costituisce il fulcro dell’esistenza, ma questa sembra scorrere senza avvertirlo   Ha ancora senso parlarne? Si può parlarne?   Nichilismo in atto             L’ospite inquietante                                       Galimberti             L’orizzonte di senso             I Giovani?                                                      Ricerche Iard, 2007 Perché non sono cristiano – e tanto meno cattolico? Odifreddi Una diceria irrinunciabile – non negoziabile              Spaemann   Verità oggettiva o interpretazione? Essere e tempo                                                           il linguaggio in Heidegger             Verità come alétheia Verità e metodo                                                         il linguaggio in Gadamer             Ricupero dell’ontologia Verità e interpretazione                                             Pareyson Percorso razionale legittimo in ambito religioso?     2.
Ipotesi orientativa:  L’orizzonte ermeneutico   2.1       La teorizzazione: Cfr.
Trenti, Il linguaggio… p.
69 e ss.
            2.2       Esemplificazioni: (da verificare in dialogo)          A.
Marcel – La promessa   La fedeltà è uno dei temi preferiti dall’analisi di Marcel.
La sua ricerca attorno alla dignità dell’uomo e alle sue radici trascendenti trova qui uno dei riferimenti qualificati e marcatamente originali.
( Cfr.
Marcel, 1940, 192 e ss.).
Senza data (1930) L’altro giorno ho promesso a C… che andrò a visitarlo di nuovo nella clinica in cui agonizza da settimane.
Promessa che, nel momento in cui la formulavo, è scaturita, almeno credo, da più intimo di me stesso.
Promessa generata da un’ondata di pietà: è condannato, egli lo sa, egli sa che io lo so.  Dalla mia ultima visita son trascorsi diversi giorni.
L’insieme di cose, che ha causato la mia promessa, non si è modificato e su questo punto non posso farmi alcuna illusione.
Devo poter dire, anzi ne sono proprio sicuro, che egli m’ispira sempre la stessa compassione.
Come potrei giustificare un cambiamento nella mia disposizione interiore, dato che nulla è venuto ad alterarla? Tuttavia la mia pietà sentita dell’altro giorno, è diventata una pietà teorica.
Penso ancora che egli è infelice, che è opportuno compiangerlo, ma l’altro giorno non avrei pensato proprio a formulare questo giudizio.
Era proprio inutile.
Tutto il mio essere era uno slancio irresistibile verso di lui, con un immenso desiderio di aiutarlo, di mostrargli che ero con lui, che la sua sofferenza era la mia.
Devo riconoscere che questo slancio non esiste più; potrò soltanto imitarlo con un artificio, ma qualcosa in me rifiuta questo inganno.
Tutto ciò che posso fare è di osservare che C… è infelice, solitario e che io non posso abbandonarlo; d’altronde ho promesso di ritornare; la mia firma è in fondo ad un atto di stipulazione e questo atto è in suo possesso.
(MARCEL Gabriel, 1964,.
262-263).
E, quasi a convalida, ci si potrebbe domandare se fuori dell’ambito, almeno largo e generale, per un impegno  risoluto attorno ad una ‘ragione di vita’ si possa conferire unità all’esistenza: quindi se la fedeltà non si porti a perno dell’identità della persona; e tuttavia non  esiga anche un riferimento che trascende la persona.
La fedeltà annuncia un singolare rapporto fra iniziativa interiore e appello trascendente: quasi vigile valorizzazione d’un dono offerto in permanenza; operante appena la libertà vi si desta, lo avverte e lo accoglie.
A sua volta l’esistenza stessa sembra risvegliarsi all’appello di una misteriosa sollecitazione, proveniente da un mondo che, senza esserle estraneo, la trascende.
La persona sembra situarsi in un rapporto misterioso con sorgenti profonde e definitive – il filosofo potrebbe dire che è in rapporto con la totalità, con l’essere -; sembra comunque portare la percezione oscura di una consegna radicalmente impegnativa.
Certo non cessa di risultare cattivante la volontà di essere pari a se stessi, di stare alla parola proprio come affermazione che l’uomo è prima e oltre le situazioni  in cui la sua vita si snoda.
Resta tuttavia difficile ribadire il significato della fedeltà quando sono in gioco valori decisivi o la vita stessa.  Appare anzi illusoria una fedeltà a se stessi che non ha testimone, né interpreta una consegna, data da uno che attende risposta e sa misurarla.
Proprio dove la promessa si radica in una valutazione pensosa, interprete di aspirazioni profonde che fermentano l’esistenza, induce a risalirne all’origine.
Letta in profondità l’esperienza pare scaturire da una consegna; la promessa sembra in grado di evocarla e la fedeltà appare la traccia privilegiata per compierla.
In ultima analisi la fedeltà letta nei suoi rimandi sembra sottendere un appello all’assoluto; risolversi in invocazione, almeno implicita.
  B.
Buber:  La risorsa evocativa del linguaggio   Il linguaggio sembra posarsi sulla superficie delle cose, preoccupato di descriverle; invece le attraversa e chiama in causa la vita nei suoi risvolti, spesso impenetrabili, forse evocativi di una presenza arcana che si lascia presagire.
La religione sembra avanzare una pretesa inconciliabile con la natura stessa del linguaggio: chiamare per nome una realtà trascendente per definizione, quindi ‘altra’ da ogni realtà finita; perciò indicibile.
E tuttavia proprio questa presunzione attraversa da sempre la ricerca individuale e collettiva: la religione è palesemente patrimonio della cultura umana.
Ha rivendicato al proprio linguaggio un senso autentico; forse addirittura un senso risolutivo per l’esistenza.
Vi ha privilegiato l’uso di forme peculiari che ne hanno potenziato la risorsa evocativa.
  Buber in tutto il suo ragionare che potremmo definire ‘sapienziale’ fa perno su la parola fondamentale, che non è una formula magica: è progressiva umanizzazione dell’esperienza consueta, capace di trasfigurare la quotidianità: “ Ma, per noi, più grande di ogni enigma tessuto ai margini dell’essere è la centrale realtà del tempo terreno e quotidiano con il suo raggio di sole sul ramo dell’acero e il presentimento del Tu eterno.” (Buber, 1993, 122) La relazione costituisce la pista privilegiata all’affermazione e alla consapevolezza religiosa.
Presentimento e presagio risultano l’atteggiamento che apre e legittima il riferimento a Dio: sono parole-chiave per aprire alla ricerca umana l’orizzonte religioso: la realtà ha uno spessore che affonda le radici nel mistero; l’uomo ne porta una indefinita intuizione – presentimento -.
Costituisce la traccia rivelativa della verità delle cose create e perciò costitutivamente relazionate al loro creatore.
La relazione con il Tu non è né magica né scontata, è cercata, attraverso il processo dell’interpretazione! Viene illuminandosi appena la crosta dell’ovvietà si spacca: ‘sai sempre nel tuo cuore che hai bisogno di Dio… e Dio ha bisogno di Te.’ (Buber, 1993, 118) Il Tu è costitutivamente in relazione; senza di questa non è: – donde la parzialità di ogni interpretazione individualistica, – in grado di approfondire perfino l’intuizione del ‘singolo’ di Kierkegaard, dove la relazione risulta perentoriamente affermata proprio a partire dal versante religioso: l’uomo sta di fronte a Dio.
Il rapporto costituisce l’esperienza religiosa, che Buber interpreta e scandisce in una sintesi indovinata ed efficace: “Relazione originaria che da Dio all’uomo è missione e comando, dall’uomo a Dio visione e intelligenza, fra i due conoscenza e amore.” (Buber, 1993, 121) La relazione dunque è costitutiva dell’uomo.
Orienta all’interpretazione del rapporto con Dio, contemplato nel gesto creatore, che non riguarda tanto l’origine della creazione quanto l’esperienza attuale che l’uomo ne assume.
L’incontro e la conseguente affermazione di Dio avviene nel presentimento che esplora il mistero, e progressivamente nella consapevolezza della relazione, di cui vive l’universo creato.
  2.3       Esistenza e rapporto costitutivo con Dio                  Lucido 2.4       Esistenza e presagio                                                  Lucido                         2.5       Per il credente?                         inno al Dio ignoto                  Trenti, Linguaggio…, p.
87                         Guardate i gigli: Lc.
12                         “                    p.
88                         Credere in…                                         “                    p.
95                         Banchetto: Mt.
22   2.6        Fusione di orizzonti nell’ambito credente,                                                                        Trenti, Linguaggio…  p.109 e ss.
        3.
Per un’ applicazione al triennio dei Licei             Elaborazione esemplificativa.
                        Gruppo di studio:       Roberto                                                            Cristina            &

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *