Muovendo dalla crisi prodotta dalla rivoluzione francese, il pensatore poeta delineava una prospettiva messianico-spiritualista, che aiutasse a superarne i drammatici effetti.
L’idea chiave era quella del primato della religione: soltanto l’ordine della cristianità, modellato su quello medioevale, avrebbe potuto salvare l’Europa.
Per Novalis non si trattava di un semplice ritorno all’antico, ma di un ribaltamento utopico, orientato alla creazione di una “nuova cristianità”, che avrebbe dovuto “ricostruire una Chiesa visibile senza riguardo a frontiere politiche, capace di accogliere nel suo grembo tutte le anime assetate dell’ultraterreno e di fare da mediatrice fra il mondo antico e il nuovo”.
Il saggio non ebbe vita facile: rifiutato dalla rivista Athenaeum.
espressione di una parte significativa dell'”intellighentsia” tedesca, apparve integralmente soltanto nel 1826.
L’alternativa proposta alla crisi consisteva in un sistema non meno ideologico di quello che intendeva rifiutare, l’illuministico ordre de la raison.
L’utopica ripresa di un ideale, in realtà mai esistito, non avrebbe esercitato più che il fascino della suggestione, prestandosi piuttosto a strumentalizzazioni nostalgiche e reazionarie.
Il caso rappresentato da Christenheit oder Europa risulta emblematico in un tempo come il nostro, caratterizzato da una crisi di proporzioni non dissimili da quella seguita alla rivoluzione francese: il crollo del muro di Berlino – avvenuto a due secoli esatti dal fatidico 1789 – ha segnato clamorosamente la fine delle ideologie che avevano dominato il sistema dei due blocchi contrapposti.
La disgregazione che ne è seguita – sorprendente rispetto a ogni possibile aspettativa – dimostra come la vera identificazione compiutasi nel tempo della modernità sia stata quella fra l’Europa e il modello ideologico, frutto della ragione adulta dell’Illuminismo.
L’antica “casa europea” è stata la fucina di tutte le aspirazioni emancipatorie dell’età moderna, come anche dei totalitarismi ispirati a Est e a Ovest dalla pretesa delle ideologie di imporre al reale un ordine razionale, traducendo la loro “volontà di potenza” (Friedrich Nietzsche) anche nell’esercizio sistematico della violenza.
Si comprende, allora, quale rischio comporterebbe il proporre per il futuro dell’Europa nuovi modelli ideologici, compreso quello di eventuali radici da ritrovare: l’eredità ebraico-cristiana potrà servire al superamento delle difficoltà attuali della coscienza europea solo se non sarà pensata in termini di ideologia rassicurante, di ritorno al passato.
La vera posta in gioco è capire se e in che misura il “Grande Codice” che è la Bibbia (Frye Northrop) possa ispirare oggi una prassi sociale e politica, che soddisfi il bisogno diffuso di nuovo consenso etico.
Le radici ebraico-cristiane dell’Europa non vanno cercate insomma nella riproposizione di assetti ormai superati, ma nella visione biblica del Dio personale, della storia orientata al compimento della Sua promessa e del protagonismo decisivo della persona, rivelato nelle sue potenzialità e nel suo destino dalla vicenda del Figlio eterno fatto uomo per noi.
Più che stare alle nostre spalle, il potenziale delle radici ebraico-cristiane dell’Europa ci provoca come qualcosa che sta davanti a noi e che ci chiede passi di libertà audace e scelte di intelligenza creativa.
Le radici ebraico-cristiane vanno cercate in quella “riserva escatologica”, che il profetismo biblico e il Vangelo cristiano hanno suscitato, alimentando innumerevoli storie di fede e di generosità nei più svariati mondi culturali della terra europea – da San Benedetto da Norcia ai santi Cirillo e Metodio, da San Francesco d’Assisi ai “folli di Dio” della spiritualità russa.
Questo sguardo in avanti motiva il rifiuto di ogni atteggiamento passivo e rinunciatario di fronte alla crisi in atto, e l’assunzione di responsabilità verso gli altri per costruire insieme la “casa comune europea”.
Un tale “ritorno al futuro”, possibile grazie alla religione della speranza fondata nella rivelazione biblica, potrà aiutare l’Est del continente europeo a non far andar perduta – con la crisi dell’ideologia – la carica utopica che la ispirava, e l’Ovest divenuto sempre più “società liquida” (Zygmunt Bauman), senza ancore rassicuranti, a dare un orizzonte di senso al suo universo etico, quanto mai frammentato.
Le “radici ebraico-cristiane” dell’Europa sono un destino e una speranza, più che non un possesso e una certezza.
Lungi dal tranquillizzare, esse sfidano tutti e ciascuno a uscire dal calcolo individualistico, per entrare nel respiro ampio della solidarietà fra singoli, i popoli e le nazioni, e aprirsi al solo orizzonte, che motivi l’impegno, senza rischio di tramontare: quello della speranza “ultima”, fondata nelle promesse del Dio dell’alleanza, capace di dare senso e valore duraturo alle scelte complesse di tutto ciò che è “penultimo”.
Proprio così, ebraismo e cristianesimo, nel loro indiscutibile “meticciato” con la grande cultura greca e il pragmatismo latino, potranno offrire quel supplemento d’anima, di cui come mai l’Europa ha bisogno.
in “Il Sole 24 Ore” del 21 febbraio 2010 *Bruno Forte è arcivescovo di Chieti-Vasto.
Il testo che pubblichiamo uno stralcio della prolusione che terrà domani nella Sala Papale del Sacro Convento di Assisi, in occasione dell’inaugurazione del Centro studi sulle radici culturali ebraico-cristiane della civiltà europea dell’Università di Perugia Si torna a parlare delle radici ebraico-cristiane dell’Europa.
Anche la visita di Benedetto XVI alla Sinagoga di Roma il 17 gennaio sembra aver riacceso questo interesse.
Esso peraltro risponde al bisogno crescente di dare un’anima alla casa comune europea, via via costruita in questi anni.
È legittimo chiedersi che cosa propriamente voglia dire questo ritorno alle radici.
Uno scritto del lontano 1799 può forse aiutarci a capirlo, sia pur se nel segno del contrario: si tratta del saggio Die Christenheit oder Europa – La cristianità ovvero l’Europa di Georg Friedrich von Hardenberg, meglio noto con lo pseudonimo di Novalis.
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