“Shutter Island”

Con Shutter Island Martin Scorsese firma uno psyco-thriller ad alta tensione.
E lo fa con la solita maestria, magari con qualche incongruenza narrativa, confezionando un film gotico, cupo, enigmatico, a tratti claustrofobico, ricco di suspense e di colpi di scena; una pellicola che sicuramente rispecchia bene l’idea di film che il regista si era fatto dopo aver letto l’omonimo romanzo di Dennis Lehane, già autore di Mistic River, portato sugli schermi da Clint Eastwood e premiato con un Oscar:  un puzzle in cui i pezzi si incastrano non seguendo un ordine preciso e che resta incomprensibile fino a quando l’ultimo tassello non viene messo al suo posto.  Scorsese voleva fare un film sulla follia, senza però limitarsi a questo.
Infatti Shutter Island – presentato sabato in anteprima mondiale al festival di Berlino, nelle sale americane il 19 febbraio e in quelle italiane il 5 marzo – è soprattutto un viaggio nelle paure interiori, le più nascoste e inconfessabili.
Quelle che accompagnano, nell’autunno del 1954, l’agente federale Teddy Daniels (un credibile Leonardo Di Caprio) sull’inaccessibile e sorvegliatissima isola Shutter, al largo di Boston, sede dell’ospedale psichiatrico di Ashecliffe nel quale sono detenuti pericolosi criminali psicopatici.
Il suo incarico, e quello del collega Chuck Aule (il sempre più apprezzato Mark Ruffalo), è di trovare Rachel Solando, rinchiusa per aver ucciso i suoi tre figli, misteriosamente scomparsa.
Mentre compiono la loro indagine – di cui il mondo esterno sembra non sapere nulla e che pian piano stringe gli investigatori in una morsa di inquietudine, di paura e di confusa irrazionalità – sull’isola si abbatte una tempesta di eccezionale violenza che rende tutto più tetro.
Sospetti e misteri si moltiplicano, in un crescente vortice di tensione in cui si fanno strada ipotesi di sordidi complotti – siamo negli anni segnati dalla paranoia della guerra fredda e dal maccartismo – e di disumani esperimenti sui pazienti cui gli enigmatici medici (i bravi Ben Kingsley e Max von Sydow) sembrano avere parte.
Teddy in particolare accusa il peso di quanto avviene, costretto com’è a entrare in un mondo in cui la psiche umana ha perso totalmente il controllo e nel quale vengono alla luce segreti sconvolgenti, così come verità orribili che sembravano sepolte per sempre.
Fedele al romanzo, la sceneggiatura di Laeta Kalogridis intreccia realtà e fantasia, verità e illusione, proponendo numerosi flashback che riportano alla mente di Teddy le agghiaccianti immagini della liberazione del campo di concentramento di Dachau, in cui è stato come soldato, e le allucinazioni sulla giovane moglie morta nell’incendio della casa.
E proprio quest’ultimo evento lega l’agente a quell’ospedale psichiatrico:  egli non è lì per caso; sa che in quel luogo si trova il responsabile di quel rogo.
La creatività di Scorsese in Shutter Island sembra segnare il passo, sottomessa alla rigidità del soggetto scelto.
Tuttavia ogni cosa appare credibile nella narrazione di Scorsese, grazie anche alla realistica ricostruzione dell’atmosfera e della vita degli ospedali psichiatrici americani del tempo firmata da Dante Ferretti e soprattutto alla plumbea, penetrante fotografia di Robert Richardson.
Tutto collima e il racconto sembra seguire una sua logica, per quanto complessa.
Solo alla fine, guardando all’indietro, si possono notare, come già accennato, possibili incongruenze, situazioni non proprio lineari.
Ma il risultato filmico è notevole, pur non essendo di fronte a un’opera memorabile.
Del resto se è vero che in un thriller ciò che conta è restare incollati alla poltrona fino alla fine in attesa che il mistero venga svelato, ebbene Scorsese – che da cinefilo appassionato conosce alla perfezione i meccanismi della visione – riesce con bravura nell’intento, raccontando una storia in cui la realtà cambia in continuazione e i piani si confondo.
Un film sulla follia e sulla paura, dunque, ma anche sulle radici della violenza, che percorre questa pellicola trasversalmente.
Per sua stessa ammissione, Scorsese considera la violenza il cuore del suo cinema, dove centrale appaiono i tentativi dell’uomo di controllarla.
Chi non ci riesce o impazzisce o vive nella finzione, attraverso compromessi, come ha già raccontato agli inizi in Mean street e ultimamente in The departed.
E come in queste pellicole, anche in Shutter Island viene offerta la possibilità di redenzione dal male.
L’ancora di salvezza qui risiede nella scienza; una scienza non proprio ortodossa, persino disumana, ma a suo modo rozzamente efficace.
Il protagonista della storia, Teddy, ne è consapevole, per questo ne diffida; del resto ha vissuto situazioni di grande sofferenza, di orrore addirittura inimmaginabile alle quali la scienza non è stata del tutto estranea.
Fortunatamente alla maggior parte della gente ciò è risparmiato, ma Scorsese sembra dirci che tutti in qualche misura nascondiamo nel profondo una Shutter Island che contiene i semi di violenza, nonché le paure, i segreti inconfessabili, le cose che si vorrebbero cancellare dalla memoria.
Ma invita altresì a prendere coscienza che solo accettando la nostra natura umana, con le sue debolezze ma anche con le sue infinite risorse, è possibile costruire un futuro di speranza.
“Siamo noi a decidere come vivere – ha detto di recente – e la via del riscatto è la consapevolezza”.
Gaetano Vallini (©L’Osservatore Romano – 15-16 febbraio 2010)

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