Ad “avere attenzione alla realtà dell’uomo di oggi senza chiudersi nell’alterigia del fariseo (…) ed essere non fazione tra fazioni, non organizzazione di potere, ma sale e luce del mondo”, come diceva nel 1966 ai presidenti diocesani, lo aiutava la piena intesa col Papa e con l’assistente nazionale, monsignor Franco Costa, ispiratori di un’intera generazione di preti e laici innamorati della libertà e della democrazia e, dopo la guerra e la Resistenza, della Repubblica, della Costituente e della Costituzione.
Solo a un presidente e un assistente tanto concordi nella distinzione di compiti fra clero e laici, quanto refrattari a ogni faziosità e favoritismo, poteva riuscire il miracolo di accompagnare l’emersione di diversi punti di vista, fisiologicamente associati all’avvento della democrazia associativa, con la “continua crescita di uno stile di fraternità e di libertà, di uno sforzo di costruzione”, che mio padre registrava con gioia nel suo ultimo discorso all’Azione cattolica nel 1973.
Molte di queste cose le ho capite meglio dopo.
Allora, fra elementari e liceo, don Costa era per me un prete genovese col quale si andava in montagna insieme ad altre famiglie; un vescovo che scherzava volentieri e, per esempio, impediva a noi bambini di baciargli la mano, improvvisando un esilarante, inatteso braccio di ferro.
Sapevo che era assistente nazionale dell’Azione cattolica e che c’era un concilio in fase di attuazione; tuttavia in quel gruppo di montanari cambiare lingua dal latino all’italiano e introdurre tre letture, il segno della pace o la chitarra, parevano cose altrettanto naturali che il mio passaggio dalle elementari alle medie al liceo; solo da grande mi resi conto che, altrove, quegli stessi passaggi conciliari erano stati vissuti con minor naturalezza e talora con forti resistenze.
Solo da grande, grazie ai racconti di mamma, appresi ad esempio che Bruno Paparella, segretario generale dell’Azione cattolica mentre mio padre era presidente, spesso a pranzo a casa nostra e noto a noi bambini soprattutto per i suoi scherzi, non era proprio entusiasta del nuovo cammino conciliare.
Evidentemente in quegli anni, dietro il fraterno e pacifico cammino conciliare dell’Azione cattolica (e con essa gran parte della Chiesa italiana), c’era molta fede, ma anche molta capacità di ascolto, intesa coi pastori, umiltà nell’accettare un progresso fatto di piccoli passi.
La consegna era quella di portarsi appresso tutti: trasferire gradualmente e senza strappi all’intero popolo di Dio “privilegi” anticamente riservati al clero e, fino al concilio, accessibili al massimo a universitari o laureati cattolici, come la preghiera delle ore, la lettura e il commento della Bibbia, la comprensione e la partecipazione piena alla liturgia eucaristica.
Il senso dell’umorismo spingeva spesso mio padre a sorridere, anziché piangere, sulla lentezza e l’ansietà nella realizzazione del dettato conciliare.
Sorrideva quando un vecchio parroco concluse l’omelia con una postilla a sorpresa, del tutto avulsa dalle letture del giorno: “Io la moglie per i preti non ce la vedo! Sia lodato Gesù Cristo”.
Sorrideva nel ricordare sommessamente a un amico vescovo che “in democrazia non basta aver ragione, ma occorre anche farsela dare dal 51 per cento degli elettori”.
Sorrideva anche quando i vescovi italiani fissavano una riunione plenaria della loro conferenza proprio alla vigilia di una scadenza elettorale, malgrado la distinzione conciliare fra comunità politica e Chiesa: dopo secoli di trono e altare – diceva – ci vuole almeno qualche decennio a cambiare abitudini…
Sulla centralità della competenza e della conoscenza, sulla legittima pluralità di vedute in molti campi dell’agire umano, sulla chiara distinzione di ruoli fra comunità politica e Chiesa della Gaudium et spes si basava la “scelta religiosa” dell’Azione cattolica.
“Nel momento in cui l’aratro della storia scavava a fondo rivoltando profondamente le zolle della realtà sociale italiana che cosa era importante? Era importante gettare seme buono”, diceva papà.
Dunque la Chiesa, e con essa l’Azione cattolica, dovevano concentrarsi sulla propria missione primaria: evangelizzare o rievangelizzare il mondo in rapido mutamento.
Ma questa scelta non implicava affatto il ritorno dei laici nelle sacrestie e il disprezzo per la politica: al contrario, si fondava sul rispetto della sua autonomia e sull’apprezzamento della sua insostituibile funzione, tanto che Paolo VI la definì addirittura “la più alta forma della carità”.
Per carattere e vocazione, però, mio padre amava molto l’università e l’Azione cattolica, meno la politica e la Democrazia Cristiana.
Certo votava per quel partito, convinto che “i pochi che ci assomigliano sono lì”, ma credo che, pur non immaginando che quattro anni dopo gli sarebbe costata la vita, nel 1976 papà abbia vissuto la candidatura nella “nuova Dc” di Moro e Zaccagnini più come dovere che come piacere.
Fu eletto al Comune di Roma e poco dopo il Parlamento lo designò per il Consiglio Superiore della Magistratura, dove fu eletto vicepresidente.
In quegli anni alcuni politici, tuttora vispi e attivi, avevano coniato lo slogan “né con lo Stato né con le Brigate Rosse”; c’era anche chi tramava nell’ombra, fra logge e bombe sui treni.
Stare con la magistratura richiedeva coraggio.
Come poi si vide.
Don Abbondio sosteneva che il coraggio, uno, non se lo può dare.
Il cardinale Borromeo lo sgridava chiedendo: “Non pensate che (…) c’è Chi ve lo darà infallibilmente, quando glielo chiediate? Credete voi che tutti que’ milioni di martiri avessero naturalmente coraggio?” (I promessi sposi, xxv).
Mio padre trovava coraggio e forza nel Signore, come Gedeone, come Bonhoeffer da lui citato all’ultima assemblea del 1973: “Io credo che Dio, in ogni situazione difficile, ci concederà tanta forza di resistenza quanta ne avremo bisogno.
Egli però non la concede in anticipo, affinché ci abbandoniamo interamente in lui e non in noi stessi.
Ogni paura per il futuro dovrebbe essere superata con questa fede”.
Questa fede a noi figli è apparsa, fin da piccoli, nella preghiera dei genitori, papà e mamma insieme.
In loro la preghiera appariva un bisogno primario come il cibo o il sonno: preghiera antica e moderna, salmi e rosario e compieta, italiano e latino.
La mattina, la sera, prima di mangiare, in viaggio.
In uno dei ricordi più dolci dell’infanzia ci sono papà e mamma inginocchiati vicino al mio letto e, prima che il sonno prevalga, sento le parole di una delle loro preghiere della sera: Oremus pro pontifice nostro Ioanne…
da allora abbiamo pregato per Paolo, per Giovanni Paolo, e, oggi, per Benedetto; abbiamo amato e amiamo il Papa non perché, come disse una volta papà, si chiama Giovanni o Paolo, ma perché si chiama Pietro.
Qualche giorno fa mamma mi ha detto di aver trovato in casa un libretto che in trent’anni non aveva mai notato: Fede e futuro, che Papa Benedetto ha scritto da giovane, pochi anni dopo la fine del concilio.
Due brani erano sottolineati a matita da papà.
Il primo diceva: “Solo chi dà se stesso crea futuro.
Chi vuol semplicemente insegnare, cambiare solo gli altri, rimane sterile”.
L’altro brano, nell’ultimo paragrafo intitolato Il futuro della Chiesa, diceva: “Il futuro della chiesa (…) non verrà da coloro che prescrivono ricette (…) o invece si adeguano al momento che passa (…) o criticano gli altri e ritengono se stessi una misura infallibile (…) o dichiarano sorpassato tutto ciò che impone sacrifici all’uomo (…) Anche questa volta, come sempre, il futuro della chiesa verrà dai nuovi santi”.
La fede, l’amore e l’obbedienza risultano purtroppo incomprensibili a molti di quelli che guardano alle vicende della Chiesa dal di fuori e credono di vederci dentro solo una gigantesca partita a scacchi.
Papà era invece convinto che “cristiani franchi e liberi possano vivere nella Chiesa di oggi e di domani nell’obbedienza e nella pace, proprio come Angelo Roncalli, prete, vescovo e Papa libero e fedele, perché ha avuto fede non nella sua forza ma in quella dello Spirito che guida la Chiesa”.
Ne sono convinto anch’io, e, a trent’anni dalla morte di mio padre, chiedo al Signore per me e per i miei figli, per i laici e per i preti della mia Chiesa fede e coraggio, obbedienza e pace.
(©L’Osservatore Romano – 12 febbraio 2010) ”Il Signore disse a Gedeone: “La gente che è con te è troppo numerosa, perché io metta Madian nelle sue mani; Israele potrebbe vantarsi dinanzi a me e dire: La mia mano mi ha salvato.
Ora annunzia davanti a tutto il popolo: Chiunque ha paura e trema, torni indietro”” (Giudici, 7, 1-3).
Con mia madre e mia sorella scegliemmo questi versetti, molto cari a papà, per accompagnare la sua foto.
Gedeone, seguendo le istruzioni del Signore, rimanda a casa trentaduemila uomini e ne tiene con sé solo trecento.
Con loro, armati di brocche, trombe e fiaccole accese – e grande coraggio, fondato sulla parola del Signore – irrompe di notte nel campo dei madianiti, che, presi dal panico, fuggono in disordine.
Ci voleva coraggio e fede per accettare a trentatré anni, da Giovanni xxiii, e a trentotto, da Paolo VI, la vicepresidenza e poi la presidenza dell’Azione cattolica, col formidabile mandato di attuare in Italia il concilio.
Per far entrare la Bibbia e la nuova liturgia in ogni famiglia e in ogni parrocchia.
Per trasformare l’Azione cattolica in un laboratorio della Chiesa di domani, un’inedita combinazione di democrazia interna (con capi eletti dai soci e non rinnovabili per più di due mandati) e serena fedeltà ai Pastori (titolari anche nel nuovo statuto di un ruolo decisivo nelle scelte importanti).
Per concentrarsi sul Vangelo e sulla formazione cristiana, restituendo l’impegno politico – e lo sport, e altre cose buone per le quali l’Azione cattolica aveva fino a quel momento svolto una preziosa opera di supplenza – all’autonoma responsabilità dei laici.
Per voltare pagina rispetto a quelli che Mario Rossi aveva definito “i giorni dell’onnipotenza”, al prezzo di una dolorosa cura dimagrante numerica e finanziaria.
Ci volevano il coraggio e la fiducia che nel Signore aveva avuto Gedeone.
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