Eluana un anno dopo

E’ semplice stare dalla parte giusta Amare la vita umana, difenderla, sostenerla e – comunque e sempre – accoglierla e rispettarla è la cosa più semplice di questo mondo.
E viene na­turale.
È naturale e umano proteggere chi è piccolo e fragile, aiutare chi è in pericolo, consolare chi sof­fre.
È naturale e umano dar da mangiare e da bere a chi non può provvedere da solo.
Innaturale e terri­bile è invece l’idea di negare, in qualunque modo, la vita di chiunque o anche solo di abbandonarla nel­la debolezza, nell’estrema dipendenza, nella diffi­coltà.
Innaturale e terribile è anche solo pensare di lasciar andare alla deriva una persona totalmente disabile.
Amare la vita è semplice.
E, infatti, sono le persone semplici che sanno farlo meglio.
Quei semplici che sono semplici perché – per quanto abbiano speri­mentato, per quanto abbiano studiato, per quanto abbiano indagato – hanno colto, e conservano, il sen­so di una verità basilare: ogni essere umano è « de­gno » e nessuna vita, mai, è padrona di un’altra vita.
Quando le cose, dentro di noi e nelle comunità di cui facciamo parte, sono così chiare, è facile capire che cosa è giusto e che cosa è sbagliato.
Chi sta con la vi­ta – chi è per la vita – mai la ferisce e mai arbitraria­mente la finisce.
Chi coltiva un’idea di morte – chi si allea con la morte – fa l’esatto contrario.
Eppure, og­gi, c’è molto che sembra rendere incredibilmente ar­dua la comprensione di che cosa è giusto e di che co­sa è sbagliato.
E c’è chi tenta, in tutti i modi, di ren­derci difficile, addirittura impossibile, dire dei « sì » e dei « no » limpidi e chiari.
Per questo, oggi, a un anno dalla dolorosissima mor­te di Eluana Englaro « per disidratazione » , cioè per sete – così ha certificato l’autopsia –, ci sembra im­portante tornare a indicare a noi stessi e a tutti, con la necessaria chiarezza, l’esempio di coloro che, con dolcezza e sapienza umana e medica, amano e ser­vono la vita e non la negano.
Vi raccontiamo le suore Misericordine che nella ca­sa di cura ‘ Talamoni’ di Lecco continuano a offrire ai loro pazienti la stessa dedizione e la stessa fedeltà che diedero per 17 anni alla giovane donna in stato vegetativo persistente poi portata a morte a Udine.
E vi raccontiamo i medici che al Centro ‘ Cyclotron’ dell’Università di Liegi stanno dando nuove e sem­pre più impressionanti risposte scientifiche alle do­mande di chi non s’arrende e non dichiara perse e « senza qualità » le persone classificate in stato vege­tativo.
Facciamo parlare Lucrezia ed Ernesto Tresol­di che hanno riavuto il loro Massimiliano, dopo die­ci anni di asserito stato vegetativo «permanente» (ag­gettivo oggi abolito dagli uomini di scienza, tranne che da quelli superficiali o tenacemente pro- euta­nasia), perché l’amore aiuta i « miracoli » e quel figlio ferito e perso in una disabilità sconfortante loro non l’hanno mai voluto lontano dalle loro vite e da casa sua.
E diamo voce a tutte le altre famiglie toccate dalla durissima prova di una persona cara e presen­te chiusa in uno stato che la rende apparentemente o effettivamente « irraggiungibile » ( famiglie che non lasciano soli questi loro congiunti, ma che, troppe volte, sono lasciate drammaticamente sole dalle pub­bliche strutture di assistenza).
Questi sono gli esempi, i fatti.
E poi ci sono le chiac­chiere.
I digrignanti sofismi di chi vuol far credere che accudire i malati più gravi, i cosiddetti « senza spe­ranza » , sarebbe crudele.
Le algide polemiche di chi osa descrivere come una « violenza » le tenere cure prestate a chi non può badare a se stesso.
L’alterigia antidemocratica di chi invoca l’azione di « saggi ma­gistrati » per sovvertire le leggi che già stabiliscono (come la legge 40) o, si spera, stabiliranno presto (co­me la legge sulle dichiarazioni anticipate di tratta­mento) un limite di rispetto nella manipolazione della vita nascente e un dovere minimo di assisten­za degli inabili.
Le chiacchiere anche feroci di chi, in­somma, pretenderebbe di rovesciare il senso reale delle cose.
Fino a dichiarare « inumano » lo stare, sen­za esitazioni e senza accanimenti, semplicemente dalla parte della vita.
Parole cattive, ferrigne propagande che non valgo­no un attimo del tempo di ricerca e di cura del pro­fessor Laureys o del professor Dolce e neanche il più piccolo e umile dei gesti che compiono ogni giorno, a Lecco, suor Albina e le sue consorelle.
Parole cat­tive che vogliono rendere «morte» sinonimo di «li­bertà» , e perciò non sono e non saranno mai spec­chio dell’animo vero della gente.
Sono passati quasi due anni dall’inciden­te d’auto che prima l’ha condotta in fin di vi­ta e poi sprofondata nello stato vegetativo, ma Eluana chiama mamma Saturna, evoca l’im­magine cui ci si rivolge nel bisogno.
Nei due anni di ricovero a Sondrio mamma Saturna la raggiunge quotidianamente da Lecco, pur di restarle accanto e continuare a spiare in lei quei segnali che solo un genitore può cogliere, il movimento di un dito, un so­spiro più lungo…
Messaggi spediti dal profon­do di una coscienza nascosta, da sottolinea­re con trepidazione al medico di turno: «La madre riferisce, nel pomeriggio, la comparsa di movimenti spontanei di estensione del go­mito sinistro», era scritto qualche pagina pri­ma.
Ogni genitore resta sempre in attesa, scru­ta ed ascolta, aspetta una risposta che maga­ri arriverà tra vent’anni, stimola, chiama, ac­carezza, spera.
Così Eluana «saltuariamente esegue ordini semplici su comando della ma­dre», ad esempio «flessione dorsale dei piedi, flessione esterna delle ginocchia».
Poi quel­l’invocazione due volte ripetuta, e chissà co­me avrà rimbalzato sul cuore di Saturna do­po anni di silenzi: «Mamma, mamma».
Ha viaggiato molto, Eluana, nei 17 anni di ‘sonno’, di ospedale in ospedale, per brevi ricoveri, esami, riabilitazioni, e ogni volta – si legge – «nessun problema durante il trasferi­mento».
È tranquilla, non necessiterebbe nemmeno di farmaci antiepilettici, nessuna crisi, mai.
Il penultimo viaggio importante è quello che la porta a Lecco, dalle suore Mise­ricordine, dove la famiglia chiede che sia o­spitata perché è là che Saturna l’aveva parto­rita il 25 novembre del 1970, e là ora avrebbe potuto continuare ad assisterla, a due passi da casa.
La speranza non muore, specie se i me­dici a Sondrio hanno scritto che «a tratti fissa e sembra contattabile», o che «se adeguata­mente stimolata esegue ordini semplici», non un mignolo mosso, non un colpo di palpebra ma addirittura «la apertura e chiusura della mano sinistra»…
Fantasie di una madre che vede ciò che vuo­le vedere? No, osservazioni di medici e in­fermieri: «…Emetteva qualche vocalizzo, fis­sava e cercava di incrociare lo sguardo del­l’interlocutore ».
«Messa prona con appog­gio sui gomiti accettava la posizione», anche se poi «non riusciva a raddrizzare il capo».
« Sembra muovere le dita dei piedi su co­mando…
».
Alla fine, «considerata la giovane età della paziente e la continua evoluzione anche se lenta, si consiglia il prosieguo del trattamento riabilitativo».
La speranza non muore, ma ce ne vuole dav­vero tanta, e Saturna si ammala di dolore, le loro strade si separano.
Eluana è curata nella casa di cura delle Misericordine fino alla not­te tra il 2 e il 3 febbraio di un anno fa, quan­do il padre la fa trasferire a ‘La Quiete’ di U­dine, dove dovrà morire (un ricovero ufficial­mente finalizzato al suo «recupero funziona­le» e «alla promozione sociale dell’assistita»).
E durante il viaggio questa volta Eluana si di­batte, fino a espellere il sondino.
Ospedale di Sondrio, Divisione di Lun­godegenza, ore 4 del mattino del 15 ottobre 1993.
Eluana è in stato vege­tativo ‘permanente’ – come si diceva allora – da quasi due anni.
Nella sua stanza succe­de qualcosa: «La paziente ha cominciato a la­mentarsi facendo versi…», si legge nella ‘Do­cumentazione clinica’ che la riguarda (e rac­conta i 17 anni dall’incidente alla morte).
Non è un’eccezione che Eluana emetta suoni, so­spiri, gemiti, le accade da due anni e lo farà per altri 15, fino al giorno prima della morte a ‘La Quiete’ di Udine.
Ma quella notte non si placa, forse appare più agitata del solito, forse ha accanto un’infermiera più attenta, forse lì con lei è rimasta sua madre, non lo sappiamo.
Fatto sta che Eluana continua a ‘lamentarsi’, come volesse dire qualcosa, e chi è lì la incoraggia, porge l’orecchio a quei ‘versi’, finché – è scritto nella cartella clinica – «stimolata a dire la parola ‘mamma’ è riu­scita a dirla due volte, in modo comprensibi­le».
Sono passati quasi due anni dall’inciden­te d’auto che prima l’ha condotta in fin di vi­ta e poi sprofondata nello stato vegetativo, ma Eluana chiama mamma Saturna, evoca l’im­magine cui ci si rivolge nel bisogno.
Nei due anni di ricovero a Sondrio mamma Saturna la raggiunge quotidianamente da Lecco, pur di restarle accanto e continuare a spiare in lei quei segnali che solo un genitore può cogliere, il movimento di un dito, un so­spiro più lungo…
Messaggi spediti dal profon­do di una coscienza nascosta, da sottolinea­re con trepidazione al medico di turno: «La madre riferisce, nel pomeriggio, la comparsa di movimenti spontanei di estensione del go­mito sinistro», era scritto qualche pagina pri­ma.
Ogni genitore resta sempre in attesa, scru­ta ed ascolta, aspetta una risposta che maga­ri arriverà tra vent’anni, stimola, chiama, ac­carezza, spera.
Così Eluana «saltuariamente esegue ordini semplici su comando della ma­dre», ad esempio «flessione dorsale dei piedi, flessione esterna delle ginocchia».
Poi quel­l’invocazione due volte ripetuta, e chissà co­me avrà rimbalzato sul cuore di Saturna do­po anni di silenzi: «Mamma, mamma».
Ha viaggiato molto, Eluana, nei 17 anni di ‘sonno’, di ospedale in ospedale, per brevi ricoveri, esami, riabilitazioni, e ogni volta – si legge – «nessun problema durante il trasferi­mento».
È tranquilla, non necessiterebbe nemmeno di farmaci antiepilettici, nessuna crisi, mai.
Il penultimo viaggio importante è quello che la porta a Lecco, dalle suore Mise­ricordine, dove la famiglia chiede che sia o­spitata perché è là che Saturna l’aveva parto­rita il 25 novembre del 1970, e là ora avrebbe potuto continuare ad assisterla, a due passi da casa.
La speranza non muore, specie se i me­dici a Sondrio hanno scritto che «a tratti fissa e sembra contattabile», o che «se adeguata­mente stimolata esegue ordini semplici», non un mignolo mosso, non un colpo di palpebra ma addirittura «la apertura e chiusura della mano sinistra»…
Fantasie di una madre che vede ciò che vuo­le vedere? No, osservazioni di medici e in­fermieri: «…Emetteva qualche vocalizzo, fis­sava e cercava di incrociare lo sguardo del­l’interlocutore ».
«Messa prona con appog­gio sui gomiti accettava la posizione», anche se poi «non riusciva a raddrizzare il capo».
« Sembra muovere le dita dei piedi su co­mando…
».
Alla fine, «considerata la giovane età della paziente e la continua evoluzione anche se lenta, si consiglia il prosieguo del trattamento riabilitativo».
La speranza non muore, ma ce ne vuole dav­vero tanta, e Saturna si ammala di dolore, le loro strade si separano.
Eluana è curata nella casa di cura delle Misericordine fino alla not­te tra il 2 e il 3 febbraio di un anno fa, quan­do il padre la fa trasferire a ‘La Quiete’ di U­dine, dove dovrà morire (un ricovero ufficial­mente finalizzato al suo «recupero funziona­le» e «alla promozione sociale dell’assistita»).
E durante il viaggio questa volta Eluana si di­batte, fino a espellere il sondino.

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