Nella sua prolusione al recente Consiglio permanente della Cei il cardinale Bagnasco, rivolgendosi ai suoi confratelli nell’episcopato, evocava «un sogno, di quelli che si fanno ad occhi aperti, e che dicono una direzione verso cui preme andare.
Mentre incoraggiamo i cattolici impegnati in politica ad essere sempre coerenti con la fede che include ed eleva ogni istanza e valore veramente umani, vorrei che questa stagione contribuisse a far sorgere una generazione nuova di italiani e di cattolici.
I quali, pur nel travaglio della cultura odierna e attrezzandosi a stare sensatamente dentro ad essa, sentono la cosa pubblica come importante e alta, in quanto capace di segnare il destino di tutti, e per essa sono disposti a dare il meglio dei loro pensieri, dei loro progetti, dei loro giorni».
Parole urgenti e decisive per la polis: nessuna intrusione nella politica, ma la richiesta ai fedeli cattolici a ripensare il loro impegno politico come un servizio, superando l’attuale fase di profonda disaffezione.
Almeno dalla nascita della repubblica, la politica nel nostro Paese ha conosciuto la presenza attiva di cittadini cattolici che, ispirati dalla loro fede e accompagnati dalla dottrina sociale della chiesa, hanno saputo offrire un contributo determinante alla costruzione della democrazia.
L’idea di un’Europa unita, la difesa dei diritti della persona, la lotta per la libertà, l’affermarsi della solidarietà sociale hanno avuto tra i loro ispiratori e propulsori convinti i laici cristiani.
Soprattutto i cattolici italiani avevano la consapevolezza che la politica potesse essere «l’espressione più alta della carità», secondo la parola di Pio XI e che, quindi, fare politica fosse per loro non solo un diritto, ma soprattutto un dovere.
Una consapevolezza, questa, che nasceva dall’essere cittadini, appartenenti alla societas, intesa soprattutto come communitas: in questa ottica la politica appare per il cristiano una vocazione che esclude evasioni dalla storia e propugna uno sforzo arduo e costante per calarsi sul terreno delle realtà concrete e compiere azioni che siano nello stesso tempo, come ricordava Zaccagnini, «coerenti con le ispirazioni e gli ideali e compatibili con la realtà».
Forte di questa appartenenza alla polis e distinguendo tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio, il cristiano opera nella società assieme agli altri cittadini, non imponendo la propria fede, ma animato e guidato da essa.
All’origine dell’impegno sociale deve essere presente un autentico interesse per la persona e la comunità, in modo che siano armonizzate autorità e libertà, iniziativa personale e solidarietà di tutto il corpo sociale, la necessaria convergenza e la feconda diversità.
«Merita il potere solo chi ogni giorno lo rende giusto», ha scritto Dag Hammarskjöld, un cristiano divenuto segretario generale dell’Onu.
In questo senso, la politica per un cristiano è innanzitutto servizio alla giustizia e alla collettività: è questa la parola più eloquente per indicare il rapporto del cristiano con gli altri, a livello personale come a livello sociale.
Servizio, cioè rinuncia al dominio, all’oppressione, per un atteggiamento che sa vivere il rispetto della persona e l’affermazione dei suoi diritti inalienabili fino a volere, scegliere e operare per il bene dell’altro e della comunità.
Per un cristiano in politica vale il monito rivolto da Gesù ai suoi discepoli nel metterli in guardia dal comportarsi come «i dominatori delle nazioni»: «Non sic in vobis! Non così tra voi!».
Rinuncia, quindi, a comportamenti mondani che schiacciano gli altri, li strumentalizzano e in nome di una egolatria che genera solo alienazioni e schiavitù.
Ma oggi, occorre riconoscerlo con franchezza, i «cattolici» in politica – a parte qualcuno che resiste in una solitudine non sempre riconosciuta – sembrano afoni, incapaci di mostrare la loro ispirazione e di avere la fede e il vangelo come motivazione profonda del loro operare, mentre assistiamo addirittura al fenomeno di non credenti che urlano a nome dei cattolici.
Gli ultimi due decenni, soprattutto, hanno visto una sempre minor influenza dei cristiani e una crescita dell’afasia fino quasi all’irrilevanza di quanti, pur presenti nei vari partiti, non sanno farsi ascoltare.
Si tratta di una perdita per tutta la società: mancando il contributo dei cattolici si rischia di leggere la politica, anche dopo la fine delle ideologie e a prescindere da qualsiasi degenerazione, soltanto come amministrazione tecnico-economica.
Come procedere in questo difficile frangente? Negli anni passati non sono mancati tentativi di creare scuole di educazione e iniziazione politica in molte chiese locali, ma queste non si sono rivelate feconde come auspicato.
Da parte mia oso riproporre quanto suggerii già una ventina d’anni fa, all’inizio della diaspora politica dei cattolici con la fine del partito che li aveva a lungo rappresentati.
Penso a un forum da attivarsi nelle chiese locali, a dimensione regionale, teso a favorire il formarsi e l’emergere dell’ispirazione cristiana della politica: uno spazio assembleare in cui i laici cattolici possano trovarsi per confrontarsi regolarmente, dibattere e cercare il principio evangelico da affermare nelle diverse circostanze e nei diversi momenti in cui è richiesta una decisione politica.
Un luogo di ascolto reciproco e di dibattito a livello pre-politico e pre-economico: non una lobby di pressione, ma una ricerca condivisa di ciò che è principio irrinunciabile per il credente, pronta a lasciare alla responsabilità del singolo la traduzione in opzioni politiche ed economiche di queste istanze cristiane.
Questa successiva operazione, il cristiano impegnato in politica la farà assieme agli altri cittadini, indipendentemente dalla loro fede, all’interno del partito in cui si trova, sempre restando fedele al principio condiviso ed emerso in ambito ecclesiale.
Questo preserverebbe chi nella Chiesa ha responsabilità pastorali di comunione dall’ingerirsi in ambiti che non gli competono, salvaguarderebbe la possibilità per i laici cristiani di essere presenti in formazioni politiche diverse, secondo le sensibilità e gli orientamenti di ciascuno, e nel contempo assicurerebbe anche la visibilità e l’autorevolezza di una convergenza sui principi ispiratori ai quali un cristiano non può rinunciare.
Sì, il sogno del cardinal Bagnasco è condiviso da molti: si avverte l’urgenza di avere cristiani che nella polis sappiano dire una parola efficace ispirata dalla fede e tesa al bene comune.
Perché, se la polis è una comunità, allora occorre discernere un orizzonte condiviso e intraprendere un’azione responsabile conseguente perché siano praticabili cammini di umanizzazione.
Ispirati dalla loro fede, a questo nobile compito – e non all’afonia o alla maldicenza – i cristiani sono chiamati, cittadini tra i cittadini.
in “La Stampa” del 7 febbraio 2010
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