La santità è democratica

La congregazione salesiana nacque il 18 dicembre 1859, in una riunione, tenuta nella stanza di don Bosco all’oratorio di Valdocco, di cui ci è giunto uno scarno verbale redatto in termini vagamente burocratici e in un italiano qua e là zoppicante.
Quell’adunanza era stata preceduta e preparata da una “conferenza speciale” pubblicamente preannunciata da don Bosco l’8 dicembre in occasione della festa dell’Immacolata Concezione, quando aveva convocato per l’indomani “i preti, i chierici, i laici che cooperavano alle sue fatiche e ammessi entro alle segrete cose”.
Nella conferenza del 9 dicembre don Bosco anticipò l’intenzione di procedere alla costituzione di quella congregazione “che da tanto tempo egli meditava di erigere” affermando di aver avuto l’incoraggiamento di Pio IX, incontrato per la prima volta l’anno precedente.
Diede una settimana di tempo ai collaboratori per decidere in piena libertà se aderire o meno alla costituenda società.
A quanto sembra, due soli si defilarono, sebbene al termine della conferenza del 9 dicembre più d’uno fu udito esclamare: “Don Bosco ci vuole fare tutti frati”.
Fatto sta che il 18 dicembre si radunarono nella modesta camera di don Bosco 18 persone, di cui, va notato, due soli sacerdoti, 15 chierici e un giovane laico.
Se è vero che nella tradizione salesiana fu più tardi attribuita a quell’adunanza la denominazione di primo Capitolo, o Capitolo superiore, si trattò indubbiamente di un singolare Capitolo.
Esso era tuttavia l’immagine abbastanza fedele della natura in se stessa singolare (e ancora notevolmente fluida) dell’ambiente in cui la congregazione prendeva vita.
Vanno inoltre rilevate le circostanze di estremo riserbo e prive di qualsiasi solennità in cui si compì quell’atto di fondazione: possiamo senz’altro ammettere che, a parte i diretti interessati, in quell’ultimo scorcio del 1859 nessuno se ne accorse.
Del resto l’attenzione dell’opinione pubblica era presa da ben più pressanti avvenimenti, concernenti, come sappiamo, le vicende susseguite all’appena conclusa guerra franco-piemontese contro l’Austria.
Si può ben dire che mentre don Bosco fondava i salesiani in quella sua sperduta stanza dell’oratorio, stava nascendo, tra le doglie di un parto difficile e nient’affatto scontato nei suoi esiti, lo Stato nazionale italiano.
Quando don Bosco affermava davanti ai suoi collaboratori che progettava da tempo di dar vita a una congregazione, non diceva però con precisione quale tipo di congregazione avesse in mente: di certo le sue idee in proposito non corrispondevano ai modelli di comunità religiosa consolidati nella tradizione canonica.
In effetti, quell’atto che possiamo definire costituente, fu solo una tappa, pur importante, di una storia ch’era iniziata molto prima di quel 18 dicembre 1859, e che si sarebbe sviluppata, in modi allora imprevedibili e attraversando parecchie metamorfosi, nei successivi decenni.
Quella storia fu largamente condizionata da tre principali ordini di fattori.
Anzitutto dalle dinamiche interne che caratterizzarono l’espansione dell’opera di don Bosco, dalle sue origini sino al rapido sviluppo della congregazione salesiana da piccolo nucleo torinese, pressoché sconosciuto fuori dal Piemonte, a istituzione di scala e risalto internazionale, presente e attiva in vari Paesi europei e in diversi continenti, a partire dall’America latina.
In secondo luogo, quella storia fu condizionata dai rapporti tra la congregazione e le strutture istituzionali della Chiesa cattolica, sia sul piano locale, sia e soprattutto a livello di vertice, cioè dai rapporti di don Bosco e dei salesiani con il Papato, e con gli apparati di governo della Chiesa romana, da cui dipendeva, tra l’altro, l’approvazione degli statuti e delle regole della società.
In terzo luogo, ebbe considerevole incidenza sulla fisionomia e la vita della congregazione il contesto politico e istituzionale in cui essa prese forma e nel quale ebbe modo di svilupparsi.
Il contesto politico in cui si erano poste le basi per la fondazione della congregazione salesiana non era il più propizio alla nascita e allo sviluppo in Piemonte di nuove forme di vita religiosa associata.
La politica ecclesiastica dei governi costituzionali piemontesi, in specie sotto la presidenza di Massimo d’Azeglio e poi di Cavour, aveva imboccato senza esitazioni, ma non senza forti controversie, la via della laicizzazione dello Stato.
Uno dei settori più colpiti dalla politica laicizzatrice dei governi liberali era stato quello degli ordini e delle comunità religiose.
L’ostilità nei loro confronti dei governi, e di una parte consistente del ceto dirigente e dell’opinione pubblica, veniva giustificata con tre principali argomenti, di natura morale ed economica, che riguardavano in modo specifico gli ordini detti “contemplativi” o “mendicanti”: il loro carattere parassitario, nel senso almeno della loro estraneità allo svolgimento di funzioni considerate utili alla collettività; la privazione (seppur volontariamente accettata) di diritti e prerogative di natura civile conseguente alla sottomissione alle regole proprie dei vari ordini religiosi, tra cui la rinuncia al diritto di proprietà individuale; e infine la sottrazione di un cospicuo patrimonio immobiliare e fondiario alle dinamiche e alle innovazioni di un’economia di mercato, che proprio in quegli anni era entrata in fase di espansione.
L’acutizzarsi del conflitto fu determinato in modo particolare dal primo sgretolamento territoriale dello Stato della Chiesa avvenuto durante la guerra del 1859, in seguito al distacco dal governo pontificio della parte nord-orientale dello Stato (Bologna e le Romagne).
Ciò aveva riproposto in termini pressanti, e più generali, il problema controverso del potere temporale dei Papi: problema non solo italiano, ma dotato di delicate e complesse implicazioni di natura sia religiosa sia internazionale, già sorte drammaticamente nel 1849, e allora risolte dall’intervento militare francese contro la Repubblica romana che aveva dichiarato decaduto il potere temporale.
Ma 10 anni dopo la situazione era molto cambiata, e le tendenze – presenti anche tra il clero detto “nazionale” – avverse al temporalismo, avevano guadagnato terreno, urtandosi però con l’intransigenza di Pio IX, pronto a ricorrere nuovamente all’arma della scomunica in difesa di quelli che giudicava inalienabili diritti della Chiesa.
In stretta concomitanza con la guerra del 1859, la questione delle future sorti dello Stato Pontificio era tornata prepotentemente nell’agenda politica internazionale.
Don Bosco sapeva benissimo i rischi che correva con il suo progetto di dar vita a una nuova congregazione religiosa, e aveva preso le sue precauzioni.
Anche per questo aveva insistito nell’imprimerle una connotazione “di vita attiva” e non “contemplativa”, pienamente in linea peraltro con la natura dell’opera da lui svolta fino a quel momento.
“Siamo in tempi in cui bisogna operare.
Il mondo attuale vuole vedere le opere, vuole vedere il clero lavorare a istruire e a educare la gioventù povera e abbandonata con opere caritatevoli, con ospizi, scuole.
Chi non sa lavorare non è salesiano”.
In secondo luogo aveva previsto che i membri della congregazione conservassero a pieno titolo i diritti civili “in faccia alle autorità governative”, compreso, in particolari forme, quello di proprietà (che secondo Don Bosco costituiva un “nuovo modello riguardo al voto di povertà”): del resto il suo obiettivo dichiarato era quello di congiungere strettamente la formazione religiosa con un’educazione alla cittadinanza, a formare buoni cristiani che fossero buoni cittadini.
Infine aveva prospettato una consociazione religiosa dalla fisionomia altamente flessibile, dotata nel contempo di un forte centro di governo (che durante la sua esistenza s’identificò totalmente con la sua personalità carismatica) e di una considerevole plasticità nei modi dell’affiliazione (non esclusa un’affiliazione di “esterni”), della cooperazione e dei campi d’attività: una società, in ogni caso, popolare non solo nel senso caritativo, tradizionale, ma anche nel senso di una sua specifica conformazione popolare, da realizzarsi mediante la costituzione di un proprio clero formato nel seno e a contatto con la comunità, in base alla convinzione profetica (manifestata da don Bosco a Pio IX) che fosse ormai venuto “il tempo (…) che i popoli saranno evangelizzati dai popoli.
I leviti saranno cercati tra la zappa, la vanga e il martello, affinché si compiano le parole di Davide: “Ho sollevato il povero dalla terra, per collocarlo sul trono dei principi del suo popolo””.
Sebbene la cosa possa destare sorpresa, a dare una mano a don Bosco nel profilare i tratti dell’erigenda congregazione era stato proprio l’ex-ministro della giustizia e convinto propugnatore della legge sui frati, Urbano Rattazzi.
Questi gli aveva suggerito la costituzione di una “associazione di liberi cittadini, i quali si uniscono e vivono insieme a uno scopo di beneficenza”, e i cui membri conservassero i diritti civili, fossero soggetti alle leggi, pagassero le imposte e via dicendo, insomma un’associazione come tante, a carattere privato.
Non era esattamente quello a cui stava pensando don Bosco, ma è certo che di quel suggerimento egli tenne debito conto.
Per converso il medesimo Rattazzi, a dispetto delle sue idee in vari modi opposte a quelle di don Bosco, concepì da allora una personale e durevole ammirazione nei riguardi suoi e delle opere salesiane.
Si deve aggiungere, a completare il quadro, che gli organi di governo dello Stato sabaudo, a partire dal ministero degli Interni, non ebbero alcuna esitazione ad approfittare largamente della capacità di accoglimento dell’oratorio salesiano di Valdocco, affidandogli a più riprese casi di adolescenti orfani o abbandonati dai genitori o comunque in difficoltà, con la corresponsione di sussidi una tantum di una certa entità: dimostrazione del fatto che l’oratorio aveva finito per esercitare un ruolo pubblico di recupero e di assistenza, cui lo Stato sabaudo non era in grado di far fronte.
Veniamo così ai rapporti tra don Bosco (e la sua congregazione) e il movimento nazionale italiano.
Per intendere tale aspetto, occorre considerare che la visione del mondo di don Bosco si radicava in una percezione della realtà in cui la dimensione terrena e quella ultraterrena si compenetravano intimamente, in cui fenomeni naturali e sovrannaturali convivevano in una stringente interrelazione, in cui la presenza divina, come quella diabolica, era agevolmente avvertibile in segni sensibili, in cui anche i fatti calamitosi erano il frutto di un diretto intervento punitivo di origine divina per atti o comportamenti personali o collettivi considerati contrari alla legge di Dio od ostili alla sua Chiesa (ma le due cose per don Bosco s’identificavano senza residui).
D’altra parte, la stessa immagine di una vicinanza quasi fisica della mano di Dio alla storia dell’uomo e alla vicenda personale di ogni essere umano anche il più umile, consentiva a don Bosco di professare e promuovere l’idea di un accesso relativamente agevole alla salvezza eterna, di diffondere addirittura un’immagine di santità che, a certe condizioni, poteva diventare un attributo comune, per tutti disponibile, non più dipendente da particolari pratiche ascetiche né da rigorosi esercizi di pietà né da prove di specifico eroismo, ma unicamente dall’adempimento rigoroso dei propri doveri di stato, dal rispetto della legge morale, dalla pratica religiosa compresa la comunione frequente, dalla preghiera di devozione, dalla fedeltà alla Chiesa e soprattutto alla persona del suo capo, vicario di Cristo e suo rappresentante indefettibile e infallibile sulla terra.
Possiamo dire, a tal proposito, che con don Bosco si apriva l’epoca di una santità, per così dire, “democratizzata” e, in parte almeno, de-clericalizzata, di cui faceva parte integrante il rispetto di un’etica del lavoro e della professione, d’impianto teologico sostanzialmente diverso da quello di matrice protestante, ma in grado di competere con esso.
Da questo sfondo di convinzioni, di immagini, di strutture mentali discendevano le due idee dominanti che guidavano il suo modo di guardare agli eventi storici in cui era immerso.
In primo luogo, l’idea che la religione cattolica, in quanto unica vera religione, non fosse soltanto sicura via di salvezza delle anime, ma costituisse altresì la ragione insostituibile di un ordinato vivere civile, la base irrinunciabile di una “buona società”, la cui omogeneità religiosa andava preservata dagli attacchi dell’empietà, generatori di tutti i mali del secolo, nonché dal suo ipotetico sgretolamento per mano di pericolose minoranze a-cattoliche.
La seconda idea-guida concerneva il legame indissociabile che avvinceva l’Italia al cattolicesimo e alla Chiesa cattolica, e in modo particolare al papato, suo vertice gerarchico e carismatico, costituendone l’autentico principio di nazionalità, il fattore che più e prima di ogni altro le conferiva una propria inconfondibile identità nazionale.
(©L’Osservatore Romano – 7 febbraio 2010)

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