II Domenica del tempo ordinario (Anno C).

         Preghiere e Racconti Il vino della festa Sí, il vino: è lui, non l’uva, il vero”frutto” della vigna.
E come la vigna è ricco di doni concreti e, al contempo, denso di rimandi simbolici.
Da sempre, “dai tempi di Noè” appunto, accanto al pane del bisogno, al pane quotidiano necessario per vivere, l’uomo ha avuto il vino della gratuità e della festa: una bevanda non necessaria alla sopravvivenza, ma preziosa per la consolazione, la gioia condivisa, l’amicizia ritrovata… Il vino: bevanda che, bevuta in solitudine, ne stordisce l’amarezza solo per accentuarne la tristezza, ma anche bevanda che, gustata nell’intimità di un’amicizia, ne esalta il sapore e ne affina il piacere.
Bevanda esigente, anche, perché richiede a chi la beve lo sforzo di liberarsi dalla schiavitù dell’efficienza esasperata per abbandonarsi alla gratuità senza la quale la vita è priva di sapore: bevanda che invita a cantare la vita, a immettere nella consapevolezza della morte la volontà di dire sí alla vita.
Forse è per tutti questi aspetti – oltre che per il discernimento che richiede nel conoscere se stessi, i propri limiti e quelli degli altri -, è per questa lettura dell’esistenza nel segno della gratuità e della gioia condivisa che il vino è divenuto nella Bibbia e in altre tradizioni spirituali il simbolo della sapienza.
Sapienza perché dà “sapore” alla vita, ma anche perché il vino sa sciogliere il cuore e farne emergere ciò che davvero lo abita, sa trasformare la semplice assunzione di cibo in un banchetto, così come la fermentazione ha trasfigurato l’umile succo d’uva in bevanda inebriante.
[…] non a caso Gesù stesso porrà il suo primo “segno” alle nozze di Cana sotto il sigillo di una gioia condivisa grazie al vino migliore e lascerà ai suoi discepoli il comandamento nuovo dell’amore attorno al “segno” di un pane spezzato e di una coppa di vino versato perché tutti abbiano la vita in pienezza.
(Enzo BIANCHI, Il Pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 50-51).
  La fonte divina dell’amore Di questa fonte inesauribile parla Giovanni nel racconto delle nozze di Cana (Gv 2,1-12).
Il nostro vino, il nostro tentativo di amare, vede molto presto la fine.
Non possiamo dare nessuna garanzia delle nostre emozioni.
Prima o poi i nostri sentimenti di amore si volatilizzano e allora crediamo di non riuscire più ad amare l’altro.
Questo capita a molti coniugi che assistano stupiti all’esaurirsi del loro amore.
Questo capita anche alla coppia che celebra le nozze a Cana.
Viene a mancare il vino, il loro amore viene a mancare, già il terzo giorno essi non hanno più né vino, né amore.
Allora Gesù trasforma in vino sei otri d’acqua, in modo che il vino non abbia più a finire.
Sei è il numero dell’imperfezione e gli otri di pietra rimandano a quanto di duro e di impietrito vi è in noi.
Nella loro incapacità di amare veramente, nelle loro durezze e nei loro blocchi, Gesù mostra agli sposi un’altra fonte d’amore, la fonte divina, che mai smette di sgorgare.
Gesù pronuncia la sua parola d’amore in quanto in noi è divenuto sciapo e senza sentimento, in quanto in noi è imperfetto e indurito.
Se noi ci fidiamo di questa parola, anche in noi tutto può mutarsi in amore.
D’improvviso noi possiamo amare con le nostre forze e le nostre debolezze, con le nostre imperfezioni e i nostri errori, con le nostre contrazioni e i nostri indurimenti.
Tutto in noi può irradiare l’amore divino, così che intorno a noi possa svolgersi la festa della vita.
(A.
GRÜN, Abitare nella casa dell’amore, Brescia, Queriniana, 2000, 67-68).
  Riempi d’acqua il tuo otre vuoto Adesso sono un otre vuoto! Bisogna consumare tutto il proprio vino per accorgersi che non era vino buono.
Bisogna consumare tutto il proprio vino per desiderare, finalmente, il vino di Gesù.
Madre della compassione, Madre che ti accorgi da sempre, anche per me, dici a Gesù: “non ha più gioia!”.
Non ho più gioia.
Otre vuoto io sono, anche di speranza.
E tu, sicura come chi ha già ottenuto, con gli occhi che tradiscono una gioia più grande di quella che sarà la mia, supplichi: “fa tutto quello che Lui ti dirà!”.
E Lui: “riempi d’acqua il tuo otre!”.
Da dove attingere, Signore, per colmare fino all’orlo? Dalla mia mente deserta? Dal mio cuore inaridito? Dalla mia innocenza consumata? Fammi, Signore, il dono delle lacrime: siano esse l’acqua che con abbondanza tu trasformi, e mentre bevo a piene mani, sento che Le dici: “Donna, ecco tuo figlio!”.
  «Non hanno più vino» Il vino è la gioia di vivere che non può essere comprata ne fabbricata ed è difficile starne senza.
È Gesù, questo vino, di cui gli sposi hanno bisogno, ma che non potrebbero mai darsi, questo vino Gesù lo ‘crea’ dall’acqua, perché si tratta di un vino nuovo.
Giovanni vuole dirci che il vino nuovo e buono, mai gustato prima, è Gesù stesso.
Il vino è significativo come dono di Gesù:  esso è alla fine; è buono; è abbondante.
È segno del tempo della salvezza.
Il vino è così il «sangue versato» da Cristo per noi, è il segno della carità, del dono di sé, così importante per poter vivere da cristiani.
Il vino delle nozze di Cana, questo buon vino atteso, è il dono della carità di Cristo, il segno della gioia che la venuta del Messia realizza.
Le feste degli uomini hanno la conclusione ben descritta dal maestro di tavola: la tristezza del lunedì.
Gesù, invece, è «il sabato senza sera», come diceva sant’Agostino: quando si pensa che la festa finisca – «Non hanno più vino» -, salta fuori il vino buono, conservato fino allora, il vino nuovo mai gustato prima (Cf.
A.S.
BESSONE, Prediche della domenica, Anno C, Biella, 1992, 185-190).
  Maria, donna del vino nuovo Santa Maria, donna del vino nuovo, quante volte sperimentiamo pure noi che il banchetto della vita languisce e la felicità si spegne sul volto dei commensali! È il vino della festa che vien meno.
Sulla tavola non ci manca nulla: ma, senza il succo della vite, abbiamo perso il gusto del pane che sa di grano.
Mastichiamo annoiati i prodotti dell’opulenza: ma con l’ingordigia degli epuloni e con la rabbia di chi non ha fame.
Le pietanze della cucina nostrana hanno smarrito gli antichi sapori: ma anche i frutti esotici hanno ormai poco da dirci.
Tu lo sai bene da che cosa deriva questa inflazione di tedio.
Le scorte di senso si sono esaurite.
Non abbiamo più vino.
Gli odori asprigni del mosto non ci deliziano l’anima da tempo.
Le vecchie cantine non fermentano più.
E le botti vuote danno solo spurghi d’aceto.
Muoviti, allora, a compassione di noi, e ridonaci il gusto delle cose.
Solo così, le giare della nostra esistenza si riempiranno fino all’orlo di significati ultimi.
E l’ebbrezza di vivere e di far vivere ci farà finalmente provare le vertigini.
Santa Maria, donna del vino nuovo, fautrice così impaziente del cambio, che a Cana di Galilea provocasti anzitempo il più grandioso esodo della storia, obbligando Gesù alle prove generali della Pasqua definitiva, tu resti per noi il simbolo imperituro della giovinezza.
Perché è proprio dei giovani percepire l’usura dei moduli che non reggono più, e invocare rinascite che si ottengono solo con radicali rovesciamenti di fronte, e non con impercettibili restauri di laboratorio.
Liberaci, ti preghiamo, dagli appagamenti facili.
Dalle piccole conversioni sottocosto.
Dai rattoppi di comodo.
Preservaci dalle false sicurezze del recinto, dalla noia della ripetitività rituale, dalla fiducia incondizionata negli schemi, dall’uso idolatrico della tradizione.
Quando ci coglie il sospetto che il vino nuovo rompa gli otri vecchi, donaci l’avvedutezza di sostituire i contenitori.
Quando prevale in noi il fascino dello «status quo», rendici tanto risoluti da abbandonare gli accampamenti.
Se accusiamo cadute di tensione, accendi nel nostro cuore il coraggio dei passi.
E facci comprendere che la chiusura alla novità dello Spirito e l’adattamento agli orizzonti dai bassi profili ci offrono solo la malinconia della senescenza precoce.
Santa Maria, donna del vino nuovo, noi ti ringraziamo, infine, perché con le parole: «Fate tutto quello che egli vi dirà» tu ci sveli il misterioso segreto della giovinezza.
E ci affidi il potere di svegliare l’aurora anche nel cuore della notte.
(Tonino Bello, Maria donna dei nostri giorni, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2000, 66-68).
  Preghiera Padre, che hai voluto fare del tuo Figlio l’Uomo nuovo, ricolmo del tuo Spirito, e per mezzo suo lo effondi nei cuori degli uomini rinnovandoli radicalmente, ti chiediamo con fiducia e insistenza, come egli stesso ci ha insegnato a farlo, di voler riempire i nostri cuori della sua presenza e della sua forza.
Se tu ce lo doni, noi potremo uscire dalla condizione di uomini vecchi, mossi dall’egoismo che ci rinchiude in noi stessi, e potremo diventare davvero uomini nuovi.
Saremo capaci di amare te come figli e gli altri uomini e donne come fratelli e sorelle.
E la gioia profonda della nostra nuova condizione riempirà ogni momento della nostra giornata.
Non lasciare che altri spiriti entrino nei nostri cuori: lo spirito dell’orgoglio, della vanità, dell’invidia, dell’avidità…
Essi sono spiriti del mondo vecchio che portano alla morte e noi vogliamo vivere.
Tu, che sei «amante della vita», strappa da noi tali spiriti perché possa occupare tutto il nostro spazio interiore lo Spirito vivificante che viene da te attraverso il tuo Figlio diletto.
      * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo D’Avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
68.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *