“Mi aspetto che con questa visita i rapporti con gli ebrei migliorino, visti i problemi che ci sono qui in Italia a causa di una particolare sensibilità, e spero che sia un segno che il dialogo avanza”.
Il cardinale Walter Kasper, presidente della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, ha incontrato ieri alcuni giornalisti in occasione della visita del Papa alla sinagoga di Roma, domenica.
Teologo autorevole e pastore credibile, il prelato tedesco, che è anche il titolare del dicastero vaticano sull’ecumenismo, in questi anni ha costruito con il mondo ebraico un solido rapporto personale.
Due anni fa fu lui a scrivere sull’Osservatore Romano un chiarimento sul significato della preghiera pro Iudaeis del messale romano del 1962, quello in latino liberalizzato da Benedetto XVI, in cui escludeva ogni intento di proselitismo.
In effetti, la memoria delle conversioni forzate è ancora viva tra gli ebrei che su questo punto sono molto guardinghi.
Kasper ritiene che l’incontro dei prossimi giorni possa rinsaldare i rapporti.
“C’è un’atmosfera nuova, di confidenza reciproca, anche se non mancano le difficoltà, vista la lunga storia che abbiamo alle spalle”.
Questa è la seconda visita di un Papa nella sinagoga di Roma dopo quella di Giovanni Paolo II, il 13 aprile 1986, che passò alla storia per la sua definizione degli ebrei come “fratelli maggiori”.
“Benedetto XVI ne aveva visitata già una a Colonia – ricorda il cardinale – in occasione della Giornata mondiale della gioventù del 2005, e un’altra a New York in occasione del suo viaggio negli Stati Uniti, nel 2008.
Questo incontro vuole confermare i rapporti maturati negli ultimi decenni.
Non si parlerà tanto delle differenze tra cristianesimo ed ebraismo – si sa che ci sono e sono fondamentali – ma di ciò che abbiamo in comune: la fede in un unico Dio.
In un mondo secolarizzato questa vuol dire testimoniare i comandamenti, onorare il nome di Dio e santificare il sabato, cose ormai non più tanto normali.
Ma anche sulla seconda tavola del Decalogo, nelle opere di giustizia sociale e di pace, possiamo dare una testimonianza comune”.
In effetti, la sensazione è che i rapporti cattolici-ebrei abbiano preso una piega molto pragmatica.
“Nei primi anni abbiamo parlato molto del passato, della Shoah e di tutto il resto, poi siamo passati ai problemi concreti, a come possiamo affrontarli insieme.
C’è una forte collaborazione su progetti caritativi ed educativi.
Certo, restano aperti dei problemi, ma credo che lo saranno fino alla fine dei tempi”.
Il nodo teologico fondamentale riguarda ovviamente la figura di Gesù di Nazaret.
Kasper riconosce che “molti ebrei, soprattutto i più ortodossi, su questo punto non vogliono dialogare.
Noi però non nascondiamo le nostre idee.
Il dialogo non è solo uno scambio intellettuale ma è anche cooperazione e testimonianza.
E comunque dialogo non significa sincretismo.
Sui nostri fondamenti siamo chiari.
C’è anche da tener presente che l’ebraismo è plurale.
Noi abbiamo rapporti con ebrei ortodossi e liberal, certo non con i fondamentalisti che si vedono per le strade di Gerusalemme”.
Ma non ci vogliono gli haredim per inciampare in un nome che divide e irrigidisce: Pio XII.
“Eppure ha salvato migliaia di ebrei – ribatte Kasper – ha agito fattivamente, e questo gli è stato riconosciuto da personalità come Golda Meir.
Se avesse parlato troppo forte avrebbe fatto più danni.
Comunque credo che le opinioni del mondo ebraico su Pio XII stiano lentamente cambiando”.
Poco tempo fa, nel bel libro autobiografico “Al cuore della fede.
Le tappe di una vita” (Edizioni Paoline), il cardinale era stato più drastico: “L’opinione pubblica ebraica è ancora molto lontana da un giudizio storico corretto nei confronti di questo grande Papa e del suo impegno in difesa degli ebrei per quel che allora era possibile”.
In effetti, in questi giorni alcuni esponenti delle comunità ebraiche hanno detto chiaro e tondo che il dossier Pio XII resta una pregiudiziale nel rapporto con i cattolici.
Kasper cerca di stemperare i toni, ma ribadisce che la beatificazione di Papa Pacelli “è una questione interna alla chiesa” e che non è possibile alcun “veto”.
E non è nemmeno d’accordo con chi ritiene che con il pontificato di Benedetto XVI ci sia stata una brusca inversione di tendenza dopo l’idillio dell’era Wojtyla.
“I rapporti sono tuttora buoni, puntiamo soprattutto alla cooperazione su progetti concreti”.
E’ un po’ paradossale che un teologo di razza come Kasper insista tanto su aspetti organizzativi, ma certo il ruolo che ha rivestito in questi anni nella curia romana lo obbliga a una continua mediazione politica (non diplomatica, però, visto che l’annosa questione dell’accordo fondamentale tra Santa Sede e stato d’Israele non è di sua competenza).
Abbiamo comunque provato a chiedergli se la difficoltà nel dialogo con gli ebrei non sia più profonda.
Se, cioè, non abbia ragione un suo illustre collega, Elmar Salmann, il quale sostiene che il Novecento è stato dominato dal pensiero ebraico in tutti i campi del sapere, da Freud a Kafka, da Einstein a Derrida.
Un pensiero, sostiene il teologo benedettino in un recente saggio (“Passi e passaggi nel cristianesimo”, Cittadella Editrice), “che determina il nostro inconscio, ci determina in modo totalmente naturale nella nostra visione dei valori del mondo”.
Questo pensiero postmoderno – frammentario, democratico, multipolare – con la sua “impossibilità di un centro della storia” rende ardua la prospettiva di una sola verità (Gesù Cristo) che è ancora la pretesa dei cristiani.
Le vittime dello sterminio sono i vincitori sul piano delle idee e questo il cattolicesimo non può ignorarlo.
Kasper non si scompone: “Abbiamo una verità comune: la fede nell’unico Dio creatore del cielo e della terra.
Possiamo dire che il cristianesimo ha universalizzato la fede ebraica nel solo Dio.
Certo, è vero che grandi pensatori del Novecento erano ebrei, ma costoro hanno avuto grande influsso sulla teologia cristiana.
Basta pensare a Buber o a Lévinas con la loro filosofia dialogica.
D’altra parte gli studiosi ebrei ci hanno aiutato a entrare nella Bibbia e la stessa ricerca su Gesù è cambiata grazie a loro; quando io studiavo teologia il problema era l’ellenizzazione del cristianesimo, Bultmann, oggi si parla del contesto ebraico della Scrittura.
D’altra parte anche gli ebrei hanno subito l’influsso cristiano, basta pensare alla liturgia: la sinagoga di Roma somiglia a una chiesa.
Perciò non vedrei la cosa in termini di competizione”.
Kasper lo dice anche nell’autobiografia: “I cristiani ricordano agli ebrei che l’Alleanza di Dio con Abramo si rivolge a tutti i popoli, che non possiamo chiuderci in un ghetto, ma dobbiamo allargare il monoteismo ebraico a tutto il mondo e testimoniare il Dio unico all’umanità, come ha fatto la missione cristiana… Nel libro del profeta Zaccaria c’è una bella immagine per la relazione tra ebrei e cristiani, a cui anche la ‘Nostra aetate’ fa riferimento: quando il messia arriverà noi saremo spalla a spalla.
Dunque, non uno contro l’altro, ma, per quanto distinti, spalla a spalla, l’uno accanto all’altro solidali nel servizio comune alla pace e alla salvezza del mondo”.
Sarà, ma qualche volta i fratelli fanno a spallate.
in “il Foglio” del 14 gennaio 2010
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