Il pluralismo valorizza la diversità

Pubblichiamo questi articoli apparsi sul Corriere della Sera poiché hanno suscitato molto dibattito sulla stampa italiana e  possono costituire un interessante base per la discussione.  L’integrazione degli islamici Giovanni Sartori In tempi brevi la Ca­mera dovrà pronun­ciarsi sulla cittadi­nanza e quindi, an­che, sull’«italianizzazio­ne» di chi, bene o male, si è accasato in casa no­stra.  Il problema viene combattuto, di regola, a colpi di ingiurie, in chia­ve di «razzismo».
Io dirò, più pacatamente, che chi non gradisce lo straniero che sente estraneo è uno «xenofobo», mentre chi lo gradisce è uno «xenofi­lo ».
E che non c’è intrinse­camente niente di male in nessuna delle due rea­zioni.
Chi più avversa l’immi­grazione è da sempre la Lega; ma a suo tempo, nel 2002, anche Fini fir­mò, con Bossi, una legge molto restrittiva.
Ora, in­vece, Fini si è trasformato in un acceso sostenitore dell’italianizzazione rapi­da.
Chissà perché.
Fini è un tattico e il suo dire è «asciutto»: troppo asciut­to per chi vorrebbe capi­re.
Ma a parte questa gira­volta, il fronte è da tempo lo stesso.
Berlusconi ap­poggia Bossi (per esserne appoggiato in contrac­cambio nelle cose che lo interessano).
Invece il fronte «accogliente» è co­stituito dalla Chiesa e dal­la sinistra.
La Chiesa deve essere, si sa, misericordio­sa, mentre la xenofilia del­la sinistra è soltanto un «politicamente corretto» che finora è restato male approfondito e spiegato.
Due premesse.
Primo, che la questione non è tra bianchi, neri e gialli, non è sul colore della pelle, ma invece sulla «integra­bilità» dell’islamico.
Se­condo, che a fini pratici (il da fare ora e qui) non serve leggere il Corano ma imparare dall’espe­rienza.
La domanda è allo­ra se la storia ci racconti di casi, dal 630 d.C.
in poi, di integrazione degli islamici, o comunque di una loro riuscita incorpo­razione etico-politica (nei valori del sistema politi­co), in società non islami­che.
La risposta è sconfor­tante: no.
Il caso esemplare è l’In­dia, dove le armate di Al­lah si affacciarono agli ini­zi del 1500, insediarono l’impero dei Moghul, e per due secoli dominaro­no l’intero Paese.
Si avver­ta: gli indiani «indigeni» sono buddisti e quindi pa­ciosi, pacifici; e la maggio­ranza è indù, e cioè poli­teista capace di accoglie­re nel suo pantheon di di­vinità persino un Mao­metto.
Eppure quando gli inglesi abbandonarono l’India dovettero inventa­re il Pakistan, per evitare che cinque secoli di coesi­stenza in cagnesco finisse­ro in un mare di sangue.
Conosco, s’intende, an­che altri casi e varianti: dalla Indonesia alla Tur­chia.
Tutti casi che rivela­no un ritorno a una mag­giore islamizzazione, e non (come si sperava al­meno per la Turchia) l’av­vento di una popolazione musulmana che accetta lo Stato laico.
Veniamo all’Europa.
In­ghilterra e Francia si sono impegnate a fondo nel problema, eppure si ritro­vano con una terza gene­razione di giovani islami­ci più infervorati e incatti­viti che mai.
Il fatto sor­prende perché cinesi, giapponesi, indiani, si ac­casano senza problemi nell’Occidente pur mante­nendo le loro rispettive identità culturali e religio­se.
Ma — ecco la differen­za — l’Islam non è una re­ligione domestica; è inve­ce un invasivo monotei­smo teocratico che dopo un lungo ristagno si è ri­svegliato e si sta vieppiù infiammando.
Illudersi di integrarlo «italianizzan­dolo » è un rischio da gi­ganteschi sprovveduti, un rischio da non rischia­re.
Corriere della Sera 20 dicembre 2009 Una replica ai pensabenisti sull’Islam di Giovanni Sartori Il mio editoriale del 20 dicembre «La integrazione degli islamici» resta attuale perché la legge sulla cittadinanza resta ancora da approvare (alla Camera).
Nel frattempo altri ne hanno discusso su questo giornale.
Tra questi il professor Tito Boeri mi ha dedicato (Corriere del 23 dicembre) un attacco sgradevole nel tono e irrilevante nella sostanza.
Il che mi ha spaventato.
Se Boeri, che è professore di Economia del lavoro alla Bocconi e autorevole collaboratore di Repubblica, non è in grado di capire quel che scrivo (il suo attacco ignora totalmente il mio argomento) e dimostra di non sapere nulla del tema nel quale si spericola, figurarsi gli altri, figurarsi i politici.
Il Nostro esordisce così: «Dunque Sartori ha deciso che gli immigrati di fede islamica non sono integrabili nel nostro tessuto sociale, non devono poter diventare cittadini italiani».
In verità il mio articolo si limitava a ricordare che gli islamici non si sono mai integrati, nel corso dei secoli (un millennio e passa) in nessuna società non-islamica.
Il che era detto per sottolineare la difficoltà del problema.
Se poi a Boeri interessa sapere che cosa «ho deciso», allora gli segnalo che in argomento ho scritto molti saggi, più il volume «Pluralismo, Multiculturalismo e Estranei» (Rizzoli 2002), più alcuni capitoletti del libriccino «La Democrazia in Trenta Lezioni » (Mondadori, 2008).
Ma non pretendo di affaticare la mente di un «pensabenista», di un ripetitore rituale del politicamente corretto, che perciò sa già tutto, con inutili letture.
Mi limiterò a chiosare due perle del suo intervento.
Boeri mi chiede: «Pensa Sartori che chi nasce in Italia, studia, lavora e paga le tasse per diventare italiano debba abbandonare la fede islamica?».
Ovviamente non lo penso.
Invece ho sempre scritto che le società liberal- pluralistiche non richiedono nessuna assimilazione.
Fermo restando che ogni estraneo (straniero) mantiene la sua religione e la sua identità culturale, la sua integrazione richiede soltanto che accetti i valori etico-politici di una Città fondata sulla tolleranza e sulla separazione tra religione e politica.
Se l’immigrato rifiuta quei valori, allora non è integrato; e certo non diventa tale perché viene italianizzato, e cioè in virtù di un pezzo di carta.
Al qual proposito l’esempio classico è quello delle comunità ebraiche che mantengono, nelle odierne liberaldemocrazie, la loro millenaria identità religiosa e culturale ma che, al tempo stesso, risultano perfettamente integrate nel sistema politico nel quale vivono.
Ultima perla.
Boeri sottintende che io la pensi come «quei sindaci leghisti» eccetera eccetera.
No.
A parte il colpo basso (che non lo onora), la verità è che io seguo l’interpretazione della civiltà islamica e della sua decadenza di Arnold Toynbee, il grande e insuperato autore di una monumentale storia delle civilizzazioni (vedi Democrazia 2008, pp.
78-80).
Il mio pedigree di studioso è in ordine.
È quello del mio assaltatore che non lo è.
Il Corriere ha poi pubblicato il 29 dicembre le lettere di due lettori i quali, a differenza del professor Boeri, hanno capito benissimo la natura e l’importanza del problema che avevo posto, e che chiedevano lumi a Sergio Romano.
Ai suoi «lumi» posso aggiungere il mio? Romano, che è accademicamente uno storico, fa capo alle moltissime variabili che sono in gioco, ai loro molteplici contesti, e pertanto alla straordinaria complessità del problema.
D’accordo.
Ma nelle scienze sociali lo studioso deve procedere diversamente, deve isolare la variabile a più alto potere esplicativo, che spiega più delle altre.
Nel nostro caso la variabile islamica (il suo monoteismo teocratico) risulta essere la più potente.
S’intende che questa ipotesi viene poi sottoposta a ricerche che la confermano, smentiscono e comunque misurano.
Ma soprattutto si deve intendere che questa variabile «varia», appunto, in intensità, diciamo in grado di riscaldamento.
Alla sua intensità massima produce l’uomo- bomba, il martire della fede che si fa esplodere, che si uccide per uccidere (e che nessuna altra cultura ha mai prodotto).
Diciamo, a caso, che a questo grado di surriscaldamento, di fanatismo religioso, arrivano uno-due musulmani su un milione.
Tanto può bastare per terrorizzare gli infedeli, e al tempo stesso per rinforzare e galvanizzare l’identità fideistica (grazie anche ai nuovi potentissimi strumenti di comunicazione di massa) di centinaia di milioni di musulmani che così ritrovano il proprio orgoglio di antica civiltà.
Ecco perché, allora, l’integrazione dell’islamico nelle società modernizzate diventa più difficile che mai.
Fermo restando, come ricordavo nel mio fondo e come ho spiegato nei miei libri, che è sempre stata difficilissima.
in Corriere della sera 5 1 2010 No al multiculturalismo ideologico di G.
Sartori A quanto pare il tema della cittadinanza agli islamici è sentito.
Il Corriere ha selezionato ieri 11 lettere, ricavate da un totale di quasi 450 accolte su 23 pagine di Internet.
Ne ignoro la distribuzione.
Ma un mio amico ha calcolato che più della metà di queste lettere sono a mio favore, e che le altre sono per lo più divagazioni ondeggianti tra il sì e il no.
Grazie a tutti, anche perché ho così modo di estendere il discorso (seppure complicandolo un po’).
Primo.
Non si deve confondere tra il multiculturalismo che esiste in alcuni Paesi, che c’è di fatto, e il multiculturalismo come ideologia, come predicazione di frammentazione e di separazione di etnie in ghetti culturali.
Per esempio la Svizzera è oggi, di fatto, un Paese multiculturale che funziona bene come tale, anche se il lieto fine ha richiesto addirittura una guerra intestina.
Invece Belgio e Canada sono oggi due Paesi bi-culturali in difficoltà, specie il primo.
Anche la felix Austria fu, sotto gli Asburgo, un grande Stato multiculturale che però si è subitamente disintegrato alla fine della prima guerra mondiale.
Comunque, i casi citati sono o sono stati multiculturali di fatto.
Il multiculturalismo ideologico di moda è invece una predicazione che distrugge il pluralismo e che va perciò combattuta.
Secondo.
Contrariamente a quanto scritto da alcuni lettori, è il pluralismo che valorizza e pregia la diversità.
Ma una diversità fondata su cross-cutting cleavages, su affiliazioni e appartenenze che si incrociano, che sono intersecanti, e non, come nel caso dell’ideologia multiculturale, da affiliazioni coincidenti che si cumulano e rinforzano l’una con l’altra.
Pertanto è sbagliato, sbagliatissimo, raccontare che ormai viviamo tutti in società multiculturali, e che questo è inevitabilmente il nostro destino.
Invece sinora viviamo quasi tutti, nell’Occidente, in società pluralistiche in grado di assorbire e di gestire al meglio l’eterogeneità culturale.
Attenzione, allora, a non attribuire al multiculturalismo pregi che sono invece del pluralismo.
Terzo.
Un’altra confusione da evitare è tra conflitti religiosi e conflitti etnici.
Questi ultimi sono purtroppo eterni e ricorrenti.
Lo sono anche, tra l’altro, all’interno del mondo musulmano.
Per esempio gli iraniani sono etnicamente persiani, non arabi; e la comune fede islamica non ha impedito, di recente, una sanguinosissima guerra tra l’Iraq di Saddam Hussein e l’Iran degli ayatollah.
Le religioni possono invece coesistere pacificamente ignorandosi l’una con l’altra.
Si combattono quando sono «calde», invasive, fanatizzate; non altrimenti.
Quarto.
Qual è il vero Islam? Gli intellettuali musulmani accasati in Occidente  si affannano quasi tutti a spiegare che non è quello propagandato dai fondamentalisti.
Anche io ho letto, ovviamente, il Corano, che è simile all’Antico Testamento nel suggerire tutto e il suo contrario.
Ma il fatto è che gli islamisti contrari al fondamentalismo hanno voce e peso soltanto con gli occidentali.
 Il diritto islamico viene stabilito, nei secoli, dai dottori della legge, gli ulama.
Sono loro a stabilire quali sono, o non sono, gli sviluppi conformi alla dottrina coranica; e anche in Occidente il comportamento dei fedeli è dettato, ogni venerdì, nella moschea dal discorso del Khateb che accompagna la preghiera pubblica.
La moschea, si ricordi, non è solo un luogo di culto, una chiesa nel nostro significato del termine, è anche la città-Stato dei credenti, la loro vera patria.
Quinto.
I rimedi.
Tutti si chiedono quali siano, eppure sono ovvi.
È stato il bombardamento del «politicamente corretto» che ce li ha fatti dimenticare o dichiarare superati.
A suo tempo i tedeschi accolsero milioni di turchi come «lavoratori ospiti»; noi avevamo e abbiamo i permessi di soggiorno a lunga scadenza; gli Stati Uniti concedono agli stranieri la residenza permanente.
Sono tutte formule che si possono, se e quando occorre, migliorare e «umanizzare».
Ma sono certo preferibili alla creazione del cittadino «contro-cittadino» che, una volta conseguita la massa critica necessaria, crea e vota il suo partito islamico che rivendica diritti islamici se così istruito nelle moschee.
Non dico che avverrà; ma se il fondamentalismo si consolida, potrebbe avvenire.
È un rischio che sarebbe stupido correre.
O almeno a me così sembra.
in “Corriere della Sera” del 7 gennaio 2010 I musulmani e i tempi dell’integrazione di Tito Boeri Caro Direttore, dunque Giovanni Sartori ha deciso che gli immigrati di fede islamica non sono integrabili nel nostro tessuto sociale, non devono poter diventare cittadini italiani (Corriere del 20 dicembre, ndr).
Non si tratta di un’affermazione di poco conto.
Parliamo di circa un milione e mezzo di persone che oggi vivono in Italia.
Da cosa trae Sartori questa convinzione? Da un’analisi dei processi di integrazione degli immigrati di fede islamica in Paesi a più antica immigrazione? Si direbbe di no.
Il 77 per cento dei maghrebini di seconda generazione immigrati in Francia ha sposato una persona di cittadinanza francese.
Dichiarano di sentirsi francesi tanto quanto gli altri immigrati.
In Germania un figlio di immigrato turco (al 90 per cento di religione islamica) ha la stessa probabilità di un figlio di immigrato italiano di sposarsi con una persona nata in Germania.
Si identificano di più con il Paese che li ha accolti di quanto non facciano i figli dei nostri emigrati.
Nel Regno Unito gli immigrati del Pakistan o del Bangladesh, le due più grandi comunità di fede islamica ivi presenti, si integrano allo stesso modo degli indiani, dei caraibici e dei cinesi.
Si sentono britannici e parte del Regno Unito più degli immigrati di fede cristiana, anche se mantengono la loro religione.
Si integrano economicamente e socialmente, nel lavoro, sposandosi con persone del Paese che li accoglie e parlando a casa l’inglese, indipendentemente da quanto spesso vadano in moschea, da quanto siano devoti all’Islam.
Ritengono di poter essere al tempo stesso britannici e musulmani.
Si sbagliano forse? Pensa Sartori, come quei sindaci leghisti che si battono contro la costruzione di moschee nelle loro città, che chi nasce in Italia, studia, lavora e paga le tasse da noi, per diventare italiano debba abbandonare la fede islamica? Non voglio certo negare che ci sia un problema di integrazione degli immigrati in generale e dei musulmani in particolare.
Ma trattare di questi problemi con superficialità, alimentando pregiudizi tanto diffusi quanto lontani dalla realtà non aiuta certo a risolverli.
Impedire poi ai musulmani di praticare la loro religione da noi, a differenza di quanto avviene in Paesi che da decenni ospitano grandi comunità di fede islamica, e precludere loro a priori la cittadinanza italiana, serve solo ad allungare i tempi dell’integrazione.
Corriere della sera 04 gennaio 2010 Integrazione e società di Tito Boeri Caro Direttore i terribili avvenimenti di Rosarno mostrano in modo inequivocabile quanto sia cruciale il tema dell’integrazione degli immigrati nella società italiana, su cui lei ha deciso di aprire un dibattito sul suo giornale.
Ci dicono che i flussi migratori sono non solo fonte di grandi benefici economici, ma anche di gravi tensioni sociali per le comunità che li ospitano.
Dimostrano al contempo come sia riduttivo (e intellettualmente disonesto) confinare alla dimensione religiosa il problema dell’integrazione.
La tesi sull’”impossibile integrazione degli islamici” è stata sostenuta sulle sue colonne con riferimenti storici quanto meno azzardati (non è vero che i mussulmani hanno imposto la propria fede con forza in India sotto l’impero dei Moghul, non è vero che solo la cultura islamica ha prodotto chi si fa uccidere per uccidere, basti pensare ai kamikaze o ai guerrieri Tamil), e su testi di autori, come Toynbee, scomparsi 35 anni fa, quindi impossibilitati a studiare il lungo processo di integrazione delle minoranze islamiche nelle società europee contemporanee.
Non un solo dato è stato citato a supporto di questa tesi così impegnativa.
Né sono stati presi in considerazione le statistiche che avevo fornito e che documentano che l’integrazione di minoranze mussulmane nei paesi a più antica immigrazione è difficile, ma tutt’altro che impossibile.
Il compito di uno studioso è quello di fornire informazioni sui casi tipici, sui grandi numeri (di aneddoti ed eccezioni è costellata la nostra vita quotidiana).
Approfitto allora di questo spazio per far nuovamente parlare i dati, questa volta sulla realtà dell’immigrazione nel nostro paese, alla luce della prima indagine rappresentativa degli immigrati clandestini condotta in Italia, a cura della Fondazione Rodolfo Debenedetti, nel novembre-dicembre 2009.
Primo dato: un italiano su tre non vorrebbe avere un mussulmano come vicino di casa; pochi meno di quanti non vorrebbero estremisti (di destra o sinistra) o malati di aids nella porta accanto; tre volte la percentuale di italiani che non vorrebbero ebrei come vicini di casa.
Secondo dato: gli immigrati in provenienza da paesi mussulmani parlano più spesso l’italiano, mandano i loro figli alla scuola pubblica e hanno più frequenti contatti con italiani delle altre minoranze, soprattutto dei cinesi.
Terzo dato: gli immigrati, di tutte le etnie, lavorano più degli italiani (il loro tasso di occupazione è del 15 per cento superiore al nostro) sebbene circa un quarto di loro sia presente irregolarmente nel nostro paese, non abbia permesso di soggiorno e regolare contratto di lavoro.
Il primo dato spiega molte reazioni dei lettori; fa riflettere anche sul comportamento di chi, dopo aver compiaciuto la vox populi, conta il numero di commenti favorevoli raccolti sul sito web del suo giornale.
Il secondo dato apre speranze sull’integrazione dei mussulmani nel nostro paese; soprattutto se sapremo investire, come in altri paesi, nel sistema scolastico, come strumento per trasmettere la nostra identità culturale.
Pone dubbi sulla decisione di imporre un tetto del 30 per cento agli immigrati nelle nostre scuole.
Ci sono comuni in cui l’80 per cento della popolazione è straniera: dovremmo forse impedire ai figli di questi immigrati di andare a scuola? Il terzo dato è cruciale per capire come contrastare davvero l’immigrazione clandestina, nei fatti e non con le parole.
Rafforzando i controlli sui posti di lavoro per contrastare l’impiego in nero degli immigrati si può essere molto più efficaci che introducendo nuove leggi (come quelle che istituiscono il reato di immigrazione clandestina) destinate a non essere applicate.
Non ho le rocciose certezze di alcuni suoi editorialisti che hanno risposte su tutto: dalle riforme costituzionali, al rapporto fra islam e immigrazione, al modo con cui salvare la Terra dagli effetti del cambiamento climatico.
Essendo indiscutibilmente più limitato, temo di non avere risposte a molti quesiti posti dai lettori.
Ma di una cosa sono convinto: queste risposte non possono alimentarsi sui pregiudizi né essere trovate nelle (peraltro autorevoli) pagine di libri scritti alcuni decenni fa.
Dovremo avere tutti l’umiltà di dubitare, di osservare per imparare, di farci aiutare dai dati e dai numeri.
In fondo è proprio questo che trovo interessante nel mio lavoro.
La ringrazio ancora per lo spazio che mi ha gentilmente concesso.
Corriere della sera 10 gennaio 2010 Le fermezza e l’ipocrisia Angelo Panebianco Sappiamo da tempo che l’immigrazione è il fenomeno che forse più inciderà sul futuro dell’Europa.
Conteranno sia la quantità dei flussi migratori che la qualità delle risposte europee.
In Italia sembriamo tuttora impreparati ad affrontare in modo razionale e convergente un fenomeno col quale conviviamo ormai da anni.
Ci sono almeno tre temi su cui non c’è consenso nazionale e, per conseguenza, mancano codici di comportamento e pratiche comuni fra gli operatori delle principali istituzioni.
Non c’è consenso, prima di tutto, su che cosa si debba intendere per «integrazione» degli immigrati.
A parole, tutti la auspicano ma che cosa sia resta un mistero.
Ad esempio, si può ridurla alla questione dei tempi per la concessione della cittadinanza? O ciò non significa partire dalla coda anziché dalla testa? Poiché nulla meglio delle micro-situazioni getta luce sui macro-fenomeni, si guardi a che cosa davvero intendono per «integrazione» certi operatori istituzionali.
Ciò che succede, ormai da diversi anni, in molte scuole, durante le feste natalizie (e le inevitabili polemiche si infrangono contro muri di gomma) è rivelatore.
Ci sono educatori (è inappropriato definirli diseducatori?) che hanno scelto di abolire il presepe e gli altri simboli natalizi, lanciando così agli immigrati non cristiani (ma anche ai piccoli italiani) il seguente messaggio: noi siamo un popolo senza tradizioni o, se le abbiamo, esse contano così poco ai nostri occhi che non abbiamo difficoltà a metterle da parte per rispetto delle vostre tradizioni.
Intendendo così il rispetto reciproco e la «politica dell’integrazione», quegli educatori contribuiscono a preparare il terreno per futuri, probabilmente feroci, scontri di civiltà.
E lasciamo da parte ciò che possiamo solo immaginare: cosa essi raccontino, sulle suddette tradizioni, nelle aule, ai piccoli italiani e stranieri.
C’è poi, in secondo luogo, la questione dell’immigrazione islamica.
Tipicamente (le critiche di Tito Boeri – 23 dicembre – e di altri, alle tesi di Giovanni Sartori – 20 dicembre – sulla difficoltà di integrare i musulmani, ne sono solo esempi), la posizione fino ad oggi dominante fra gli intellettuali liberal (e cioè politicamente corretti) è stata quella di negare l’esistenza del problema.
Come se in tutti i Paesi europei, quale che sia la politica verso i musulmani, non si constati sempre la stessa situazione: ci sono, da un lato, i musulmani integrati, che vivono quietamente la loro fede, e non rappresentano per noi alcun pericolo (coloro che, a destra, ne negano l’esistenza facendo di tutta l’erba un fascio sono altrettanto dannosi dei suddetti liberal) ma ci sono anche, dall’altro, i tradizionalisti militanti, rumorosi e assai numerosi, più interessati ad occupare spazi territoriali per l’islam nella versione chiusa e oscurantista che a una qualsiasi forma di integrazione.
E lascio qui deliberatamente da parte i jihadisti e i loro simpatizzanti.
Salvo osservare che i confini che separano i tradizionalisti militanti contrari all’uso della violenza e i simpatizzanti del jihadismo sono fluidi, incerti e, probabilmente, attraversati spesso nei due sensi.
Negare il problema è, francamente, da irresponsabili.
Ultima, ma non per importanza, c’è la questione dell’immigrazione clandestina, che porta con sé anche i fenomeni legati allo sfruttamento da parte della criminalità organizzata (e il caso di Rosarno ne è un esempio).
Non c’è nemmeno consenso nazionale sul fatto che i clandestini vadano respinti.
Da un lato, ci sono settori (xenofobi in senso proprio) della società che non hanno interesse a tracciare una linea netta fra clandestini e regolari essendo essi contro tutti gli immigrati.
Ma tracciare una linea netta non interessa, ovviamente, neanche ai fautori dell’accoglienza indiscriminata.
Non ci sono solo troppi prelati e parroci che parlano ambiguamente di accoglienza senza mettere mai paletti (accoglienza verso chi? alcuni? tutti? Con quali criteri? Con quali risorse?).
Ci sono anche operatori istituzionali che ci mettono del loro.
Un certo numero di magistrati, ad esempio, ha deciso che il reato di clandestinità è in odore di incostituzionalità.
Immaginiamo che la Corte costituzionale si pronunci domani con una sentenza favorevole alla tesi di quei magistrati.
Bisognerebbe allora mandare a memoria la data di quella sentenza perché sarebbe una data storica, altrettanto importante di quelle dell’unificazione d’Italia e della Liberazione.
Con una simile sentenza, la Corte stabilirebbe solennemente che ciò che abbiamo sempre creduto uno Stato non è tale, che la Repubblica italiana è una entità «non statale».
Che cosa è infatti il reato di clandestinità? Nient’altro che la rivendicazione da parte di uno Stato del suo diritto sovrano al pieno controllo del territorio e dei suoi confini, della sua prerogativa a decidere chi può starci legalmente sopra e chi no.
Se risultasse che una legge, regolarmente votata dal Parlamento, che stabilisce il reato di clandestinità, è incostituzionale, ne conseguirebbe che la Costituzione repubblicana nega allo Stato italiano il tratto fondante della statualità: la prerogativa del controllo territoriale.
Né si può controbattere citando il trattato di Schengen, che consente ai cittadini d’Europa di circolare liberamente nei Paesi europei aderenti.
Schengen, infatti, è frutto di un accordo volontario fra governi e, proprio per questo, non intacca il principio della sovranità territoriale.
La questione dell’immigrazione ricorda quella del debito pubblico.
Il debito venne accumulato durante la Prima Repubblica da una classe politica che sapeva benissimo di scaricare un peso immenso sulle spalle delle generazioni successive.
In materia di immigrazione accade la stessa cosa: esiste un folto assortimento di politici superficiali, di xenofobi, di educatori scolastici, di intellettuali liberal, di preti (troppo) accoglienti, di magistrati democratici, e di altri, intento a fabbricare guai.
Fatta salva la buona fede di alcuni, molti, probabilmente, pensano che se quei guai, come nel caso del debito, si manifestassero in tutta la loro gravità solo dopo un certo lasso di tempo, non avrebbe più senso prendersela con i responsabili.
Corriere della sera 08 gennaio 2010

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *