La vita benedettina

ROBERTO NARDIN E ALFREDO SIMÓN, La vita benedettina, Roma, Città Nuova Editrice, 2009, pagine 170, euro 10 La vita benedettina: così venne chiamato il documento conclusivo del Congresso degli abati che il 30 settembre 1967 si tenne a Roma, nell’abbazia primaziale di Sant’Anselmo.
Si tratta di un testo ritenuto fondamentale – quasi una magna charta – in quanto in esso fu condensata la prima applicazione del concilio Vaticano II alla vita monastica.
La vita benedettina è diventato così un punto di riferimento per la stesura, richiesta dal rinnovamento conciliare, delle nuove costituzioni delle varie congregazioni monastiche.
La nuova traduzione italiana del documento – che all’epoca venne pubblicato in francese – è ora disponibile in una versione, curata da Enrico Mariani, che tiene anche conto del testo in latino che, poco più di quarant’anni or sono, fu approvato sempre dallo stesso Congresso.
Il testo è contenuto in un volume ( da poco in libreria realizzato da due studiosi benedettini docenti in diverse università ecclesiastiche, tra cui il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo.
Nel libro la nuova versione de La vita benedettina è accompagnata da alcuni studi che ricostruiscono la genesi storica del documento, ne analizzano il testo e sinteticamente ripropongono lo sviluppo della spiritualità monastica dalle lontane origini ai giorni nostri.
Pubblichiamo di seguito la parte conclusiva – intitolata Dal concilio Vaticano II ad oggi – dello studio del primo dei due autori e quasi integralmente la prefazione al volume, a firma dell’abate primate della Confederazione benedettina.
Il concilio Vaticano II presenta la vita monastica in continuità con la sua tradizione:  separata dal mondo e contemplativa.
Al tempo stesso, sono molti e a livelli diversi gli stimoli offerti alla spiritualità monastica dai movimenti di rinnovamento ecclesiale che convergono nel Vaticano II e dal quale si sviluppano.
“Così il movimento biblico ha permesso il recupero della lectio divina come fonte di spiritualità; quello patristico ha stimolato la riscoperta dei Padri come maestri della vita monastica, quello liturgico ha consentito il recupero della centralità e della valenza teologica dell’opus Dei e della celebrazione eucaristica nella vita della comunità e quello ecumenico ha stimolato la comprensione del monachesimo come luogo di comunione e di dialogo” (Robero Nardin, La formazione permanente:  alcune coordinate).
Inoltre, ancora il Vaticano II ha stimolato il monachesimo alla riscoperta delle proprie radici sia in rapporto alla vita ecclesiale, sia attraverso una rilettura attenta delle fonti della vita monastica mediante un’ermeneutica volta all’analisi di tutto un ricco patrimonio documentario agiografico, legislativo ed epistolare alla ricerca del carisma originario, del monachesimo e delle singole tradizioni monastiche.
Si è trattato di un rinnovamento essenziale in quanto “forte era il distacco dalla propria tradizione spirituale e culturale a cui si suppliva mediante una formazione di tipo generico o il ricorso a frasi fatte e a luoghi comuni.
Il ritorno alle proprie fonti auspicato dal Concilio era, specialmente per il monachesimo italiano, un fenomeno ancora lontano e solo grazie all’influsso di dom Jean Leclercq (+ 1993) esso avrebbe avuto inizio a partire dagli anni Settanta” (Gregorio Penco, Monachesimo, chiesa, società alla fine del secondo millennio).
Tra le “frasi fatte” e d’epoca recente la più famosa è ora et labora, espressione questa che, pur non essendo presente nella Regola di san Benedetto, tuttavia ci riporta alle origini del monachesimo in cui per lavoro (labora) s’intendeva il lavoro dell’ascesi e, nel caso specifico, considerato inseparabile dalla preghiera (ora).
Il recupero della lectio divina, quale fonte prioritaria della spiritualità monastica, costituisce il frutto più importante del rinnovamento post conciliare.
La stessa espressione lectio divina, infatti, presente dall’epoca patristica, dal XIII secolo divenne sempre più rara e bisognerà attendere la pubblicazione di due significativi studi degli anni Venti del secolo scorso per riprenderne gradualmente l’uso.
Lo studio del monachesimo antico e medievale, inoltre, permetteva di stimolare sia il recupero della lettura spirituale della Scrittura come fulcro del rinnovamento monastico del Novecento, sia la consapevolezza che la lectio divina costituiva l’elemento essenziale della spiritualità monastica, al di là delle epoche e delle diverse forme con le quali il monachesimo era apparso.
Sembra opportuno, quindi, sintetizzare la vita monastica non tanto nel recente ora et labora, quanto, invece, nell’espressione che ricorda il Liber de modo bene vivendi (1174) del cistercense Tommaso di Froidmont:  ora, lege et labora.
Nella seconda metà del XX secolo, inoltre, il monachesimo rivela la propria fecondità in una duplice direzione.
Da un lato, mostrando la presenza di comunità monastiche in molte Chiese nei Paesi in via di sviluppo, dall’altro, attraverso la nascita di nuove comunità d’ispirazione monastica nei Paesi industrializzati.
In entrambi i casi, pur nelle situazioni diverse, emergono gli stimoli provocati dal Vaticano II.
In particolare la centralità della Parola e l’attenzione ai Padri all’interno d’una rivalutazione della vita monastica quale valore in se stessa e non nella misura in cui è finalizzata a opere particolari:  caritative, educative, pastorali, missionarie, assistenziali o culturali.
Si comprende, pertanto, come il valore della vita monastica non si ponga nei servizi svolti (diakonia), ma nella vitale testimonianza (martyria) della communio quale segno profetico dell’escatologico regno di Dio.
Le nuove comunità monastiche e le diverse collocazioni continentali mettevano e mettono in discussione certezze che venivano considerate assolute nell’ambito del monachesimo, come l’uso dell’abito quale unica veste del monaco, il gregoriano quale unico canto liturgico (ricordo di Cluny), il lavoro manuale, possibilmente agricolo, quale unico lavoro monastico (ricordo di Cîteaux).
Inoltre, l’universale chiamata alla santità ribadita dal Vaticano II faceva emergere la dignità dello stato laicale rispetto a quello clericale, ma anche il valore e la piena dignità della vocazione del monaco rispetto a quella del monaco-sacerdote, con conseguente sempre maggiore consapevolezza della necessità di un unico percorso formativo.
Gli studi sul monachesimo nel Medioevo, poi, mettevano sempre più in luce un sacerdozio monastico, né ministeriale, né missionario.
Più di recente s’è messo in rilievo come la vocazione monastica si ponga nella stessa linea della vocazione cristiana, fondata sul battesimo, e non come una parte migliore di essa.
“Il monaco si rivela insomma anzitutto come un cristiano posto in permanente tensione critica nei confronti del mondo in cui vive senza identificarvisi mai totalmente, perché vive se stesso come un’attesa di pienezza, una tensione che lo apre a un oltre che si realizzerà soltanto nell’escatologia” (Innocenzo Gargano, Spiritualità monastica oggi).
Si tratta d’una tensione verso e nell’eschaton in cui il monaco non solo attende il “non ancora” dell’incontro definitivo, ma vive il “già” della vita in Cristo.
Il monachesimo, allora, realizza nell’oggi del tempo la propria dimensione profetica quale costante epiclesi-epifania invocazione-manifestazione dello Spirito per fecondare segretamente la storia.
Da rilevare, infine, la notevole richiesta di ospitalità monastica degli ultimi decenni.
Si tratta di un fenomeno che, al di là delle mode e del “consumismo spirituale”, manifesta come la spiritualità d’ispirazione monastica sia in sintonia – o si identifichi – con la spiritualità cristiana tout court, in cui le tre dimensioni  evidenziate  per  l’epoca delle origini – conversatio, communio e caritas – appartengono, in realtà, alla spiritualità monastica di tutte le epoche.
(©L’Osservatore Romano – 6 gennaio 2010)

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