SANTA MADRE DI DIO Lectio Anno c Prima lettura: Numeri 6,22-27 Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla ad Aronne e ai suoi figli dicendo: “Così benedirete gli Israeliti: direte loro: Ti benedica il Signore e ti custodisca.
Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia.
Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace”.
Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò».
v La formula di benedizione che i sacerdoti devono ripetere è composta da tre stichi ciascuno dei quali comprende due emistichi.
Nella prima parte di ogni verso è ripetuto il nome ineffabile JHWH, che dà solennità al contesto e nello stesso tempo sottolinea che proprio da Dio viene ogni benedizione.
Secondo una tradizione ebraica tutte le volte che nella Bibbia compare questo nome si intende sottolineare l’attributo della misericordia di Dio (cf.
Es 34,5-6).
Nella benedizione la misericordia e la condiscendenza del Signore sono sperimentate in modo eminente.
La benedizione del Signore è un atto della sua grazia misericordiosa, del suo beneplacito.
Il Signore ha l’iniziativa e «custodisce» il popolo che si è scelto, ma l’avverarsi concreto della benedizione è anche legato strettamente alla risposta degli uomini e delle donne di Israele, che hanno accettato il patto e si sono impegnati a metterne in pratica le norme (cf.
Deut 28,2-14).
L’auspicio dell’azione favorevole e premurosa del Signore del v.
24 è rafforzato dalle metafore dei due versetti seguenti.
L’immagine della luce del volto come simbolo di felicità in contrapposizione al volto «oscuro», simbolo di lutto di tristezza, di sfiducia è un’immagine comune trasferita a Dio.
Spesso, soprattutto nei Salmi, si usano le immagini del «mostrare il volto» e «nascondere il volto», da parte di Dio per indicare i frutti della felicità o dell’infelicità.
La faccia, lo sguardo di Dio rivolto in maniera favorevole è portatore di pace (shalom), vale a dire liberazione da ogni male e concordia totale fra gli uomini, le donne, le creature e l’intero creato.
Il versetto 27 ci mostra come la triplice invocazione divina fa parte di un atto liturgico: i sacerdoti, mentre pronunziano il nome del Signore, alzano le mani verso l’assemblea con un gesto che accompagna e illustra agli occhi del popolo le parole pronunciate: «Voi mettete il mio nome sopra il popolo ed io vi benedirò».
Il salmo 67 (66) riprende le immagini della benedizione sacerdotale e le mette in bocca ai fedeli come invocazione.
La pietà e la benedizione del Signore, illustrate con lo splendore del volto del Signore, come nelle parole che Dio mette in bocca ai sacerdoti, sono invocate da Israele come segno per le genti (gojim).
La luce del volto del Signore si trasforma in radice di «conoscenza» per tutte le genti (cf.
Is 11,9).
Questa conoscenza è un’esperienza complessa fatta di intelligenza, di sentimento, di volontà e di azione destinata a tutta la terra; essa ha un oggetto preciso, la via di Dio cioè la sua stessa vita, i suoi progetti, il suo comportamento amoroso e benefico (Sal 77,14; 138,5; 98,2); tale infatti è l’accezione dell’ebraico derek «via» e tale è il senso suggerito dal parallelo « salvezza ».
La via e la salvezza del Signore operanti in Israele vengono ora profeticamente annunziate al mondo intero.
Israele è perciò il testimone privilegiato e l’apostolo dell’amore divino per l’intera umanità.
Il coro universale dei popoli è invitato ad associarsi al cantico che si leva da Israele.
L’antifona del Salmo presuppone una risposta positiva delle nazioni.
Esse hanno visto la benedizione di Dio ad Israele, ed essa viene riconosciuta come opera di Dio.
Il Dio di Israele è riconosciuto Dio di tutte le nazioni, che egli governa e giudica con giustizia.
Dalla conoscenza di Dio nasce da parte dei popoli la risposta a Dio, risposta di lode, di ringraziamento, di «benedizione», tipica della tradizione di Israele.
Alla conoscenza e alla lode subentra ora la gioia universale espressa attraverso due verbi classici della felicità quello dell’esultanza interiore (samah) e quello dell’esaltazione frenetica (ranan).
Sembra quasi di assistere all’apertura di un’era messianica (cf.
Is 9,1-2).
Egli è colui che «giudica con rettitudine»; il giudizio giusto è l’attività politica primaria del vero sovrano (Is 11,3-4).
Dio ha nelle sue mani tutta la trama della storia…
L’umanità intera in un entusiasmo universale (Sal 48,12; 97,8) e cosmico (96,11-13; 98,7-9; 99,4; 148) celebra la via storia del Signore, cioè il suo progetto giusto contro cui si accaniscono gli empi.
L’umanità percepisce il primato trascendente di Dio.
Si potrebbe allegare a commento la mirabile dichiarazione dell’inno a Sion di Is 2,3: «Verranno molti popoli e diranno:.
venite saliamo al monte di JHWH, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci indichi le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri» (cf.
G.
RAVASI, Il Libro dei Salmi, vol.
II, EDB 1983, p.
355s).
Seconda lettura: Galati 4,4-7 Fratelli, quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli. E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: Abbà! Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio.
v I pochi versetti della lettera ai Galati che la liturgia ci fa leggere oggi ci aprono qualche spiraglio nella comprensione del mistero della persona di Gesù e della sua opera di salvezza.
«Quando venne la pienezza del tempo Dio mandò il suo Figlio» (Gal 4,4).
Che significa la «pienezza del tempo»? È un’immagine per esprimere il tempo in cui la storia si incontra con l’azione diretta di Dio.
Siamo di fronte al paradosso dell’incontro del tempo con l’eterno di Dio; c’è un intervento diretto di Dio nella storia, che però lascia che la storia continui ancora con il suo divenire fatto di bene e di male.
Siamo in un momento dentro e fuori del tempo stesso.
Un paradosso strettamente legato all’immanenza di Dio, che però non viene meno alla sua trascendenza, e insito nell’incarnazione del Verbo, Figlio di Dio di cui sta parlando Paolo.
Dio ha mandato suo Figlio, che è Dio come Lui, ma è «nato da donna» è quindi creatura umana.
È «nato sotto la legge», cioè è nato ebreo, appartenente al popolo di Dio, «per riscattare quelli che erano sotto la Legge» cioè gli ebrei.
Paolo ha smesso qui i toni polemici verso la legge, che si avverano in altre parti della lettera.
Là infatti si trattava di distogliere i cristiani da interpretazioni indebite dei precetti della legge, qui, invece, egli usa il termine «sotto la legge» come sinonimo di ebreo, la cui identità non è definibile a prescindere dal riferimento alla legge (Torah) di Dio.
Paolo si limita a rilevare dei dati di fatto, senza commentarli.
Dio ha mandato suo Figlio, lo ha fatto nascere ebreo e gli ha dato una missione nei confronti degli ebrei.
Quando si riflette sulla persona di Gesù e la sua missione non si può prescindere da questi dati.
Il fine ultimo della missione di Gesù «perché ricevessimo l’adozione a figli» passa, per volere di Dio, attraverso il farsi uomo ebreo, per riscattare gli ebrei, da parte del Figlio.
Chi trasforma gli uomini e le donne in figli e figlie di Dio è lo Spirito del Figlio, donato dal Padre.
Si tratta di un mutamento profondo, che Paolo qui sintetizza nella capacità di rivolgersi a Dio come Padre, con completa fiducia e in piena libertà.
Vangelo: Luca 2,16-21 In quel tempo, [i pastori] andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia.
E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro.
Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori.
Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore.
I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro.
Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo. Esegesi Il brano che leggiamo oggi ci presenta due episodi distinti: l’incontro dei pastori col neonato Gesù (Lc 2,16-20) e la sua circoncisione (21).
Come Maria (Lc 1,39) raggiunta dall’annuncio dell’angelo, i pastori vengono «affrettandosi» (Lc 2,16; cf.
19,5-6); essi hanno intuito che sono stati raggiunti da un invito divino, a cui bisogna rispondere subito, senza indugi.
I pastori trovano Maria, Giuseppe e il neonato posto in una mangiatoia (brefos keimenon ev te fante Lc 2,16), che è il «segno» indicato dall’angelo; perché potessero riconoscere la verità delle loro parole (Lc 2,12).
I pastori raggiunti dall’annuncio e avutane la conferma, si fanno a loro volta annunciatori.
Quanti ascoltano sono presi da stupore mentre i pastori, reagiscono lodando Dio per quello che hanno «udito e visto».
L’ascolto è il modo normale di accostarsi alla rivelazione divina, la fede scaturisce dall’ascolto della parola ed è fede autentica quando c’è la risposta.
All’«udire» viene da Luca affiancato anche un «vedere», che è un vedere interiore, non l’esperienza di un prodigio strepitoso.
È comunque un’esperienza coinvolgente, e chi la prova sente l’esigenza di condividerla con i vicini.
Gli atteggiamenti sottolineati nel momento dell’annuncio e conseguenti all’intuizione che si tratta di una rivelazione divina, nei pastori e nei loro uditori sono: lo stupore, il bisogno di condivisione e l’atteggiamento di lode verso il Signore.
Per riuscire, però, a leggere interiormente quanto si è «udito e visto» bisogna aggiungere l’atteggiamento di Maria, che «custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19.
51).
Anche Maria aveva provato stupore, era corsa in fretta a «vedere il segno», che le aveva indicato l’angelo, aveva fatto partecipe Elisabetta della sua rivelazione e aveva innalzato le lodi del Signore.
Tutto questo deve però diventare vita di tutti i giorni e per riuscire a farlo con lo stesso spirito e sicuri di fare la volontà del Signore bisogna meditare continuamente la parola di Dio e applicarla alle nuove situazioni.
Il versetto 21 ci porta in un’altra scena, di cui è protagonista la famiglia di Gesù: la circoncisione, narrata da Luca come una assoluta normalità.
In base a quanto è prescritto dalla legge (Gen 17,12; 21,4; Lev 12,3) all’ottavo giorno viene circonciso Gesù.
Con questo gesto Gesù viene introdotto a pieno titolo nel popolo della «santa alleanza».
La circoncisione infatti trae origine dall’alleanza (Gen 17,10-11) ed è il modo con cui essa si prolunga di generazione in generazione: «Così la mia alleanza sussisterà, nella vostra carne quale alleanza perenne» (Gen 17,13).
Alludono a questo significato profondo della circoncisione le parole dell’inno che Luca mette in bocca a Zaccaria, quando riprende la parola in occasione della circoncisione di Giovanni.
Egli benedicendo il Signore per i suoi doni dice fra l’altro: «Così egli ha concesso misericordia ai nostri padri e si è ricordato della sua alleanza santa (diatheke haghia), del giuramento fatto ad Abramo nostro padre…» (Lc 1,72-73).
Al momento della circoncisione viene scelto il nome del bambino, che, come per Giovanni (Lc 1,31), è il nome indicato dall’angelo.
Questa annotazione ci indica che si tratta di un bambino sul quale la presenza e l’appartenenza a Dio è particolare e il suo futuro è segnato completamente da questa appartenenza.
I genitori, rinunciando a scegliere il nome, si mostrano pronti a rispettare la volontà di Dio sul bambino.
Meditazione Due tematiche confluiscono nella liturgia odierna.
A otto giorni dalla celebrazione del Natale, questa solennità riprende la rivelazione della Parola fatta carne nel mistero della nascita del Figlio di Dio, concentrando in particolare l’attenzione sulla divina maternità di Maria (la Theotokos, secondo l’antica formula coniata dal concilio di Efeso del 431).
Ma collocata all’inizio dell’anno civile, questa festa, attraverso i testi liturgici e scritturistici, assume anche una particolare connotazione ‘augurale’, strappando l’inizio di un nuovo anno ad una pura successione cronologica per collocarlo all’interno del tempo stesso di Dio, tempo di pienezza e di compimento.
Queste due tematiche non sono semplicemente giustapposte; il linguaggio simbolico-liturgico ha la forza di congiungerle e rivelarci così una particolare visione teologica del tempo che ogni credente è chiamato a vivere.
Il tempo di Dio è un tempo di salvezza, un tempo compiuto; ma salvezza e compimento hanno un nome e un volto Gesù Cristo.
Come ci ricorda Paolo: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge…
perché ricevessimo l’adozione a figli» (Gal 4,4).
La liturgia della Parola mette in rilievo un’espressione biblica che rivela in modo sorprendente questa irruzione del tempo di Dio nel tempo dell’uomo.
Si tratta del concetto di benedizione.
«Ti benedica il Signore e ti custodisca…»: così inizia la solenne benedizione di Nm 6,22-27, scelta dalla odierna liturgia come prima lettura.
Nel linguaggio scritturistico, la benedizione di Dio non è un semplice augurio carico di sacralità e neppure comunica solo una particolare appartenenza di una realtà (persona, spazio, tempo) al mondo di Dio (come una ‘consacrazione’).
Indica piuttosto un’azione di Dio che porta l’uomo alla pienezza e alla felicità.
L’uomo benedetto da Dio è colui che sa vivere le relazioni con le varie dimensioni della vita nella prospettiva stessa di Dio e, in un certo senso, è testimone di Dio.
La sua riuscita nella vita è la prova che Dio è con lui, che agisce nel mondo e vuole il pieno sviluppo dell’uomo.
Il testo di Nm 6 usa alcune immagini per esprimere questa relazione positiva tra Dio e uomo.
La benedizione diventa così la consapevolezza di essere custoditi da Dio (v.
24) e di essere guardati nella totale gratuità (v.
25), uno sguardo che è sorgente di vita e di pace (v.
26).
Ed è proprio la pace (altro tema che si inserisce in questa festa liturgica) la pienezza dei beni che Dio offre all’uomo.
Tuttavia una vita contrassegnata dal successo e dalla felicità non è automaticamente prova decisiva di amicizia con Dio.
Già la Scrittura è consapevole della ambiguità di questi segni (cfr.
tutta la visione presente nel libro di Giobbe).
La benedizione di Dio attraversa tutta la storia di Israele, e dell’umanità intera, aprendo orizzonti sempre più vasti e lasciando intravedere una pienezza che è data dalla scelta di Dio stesso di abitare con l’uomo.
Il frutto maturo dell’alleanza, la pienezza di ogni benedizione è Gesù.
Così si esprime Elisabetta nell’incontro con Maria: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo» (Lc 1,42).
È il frutto del grembo di Maria colui che riceve la pienezza di ogni benedizione.
E in Maria, in colei che ha dato al Figlio di Dio il volto dell’uomo, è l’umanità intera che riceve, nella gratuità, il compimento di ogni dono che scende dall’alto.
Veramente in Cristo, il Padre «ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli» (Ef 1,3).
E, come ci ricorda Paolo in Gal 4,4, il tempo in cui Dio ha pienamente benedetto l’uomo in Gesù (la pienezza del tempo) diventa luogo in cui noi possiamo continuamente fare esperienza di ogni benedizione.
In questa prospettiva si può allora leggere il testo di Lc 2,21.
Il compimento dell’ottavo giorno, quello prescritto dalla legge di Mosè per la circoncisione, diventa soprattutto il giorno segnato da un nome: «gli fu messo il nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo» (Lc 2,21; cfr.
anche 1,31).
Gesù è un nome che viene dall’alto ed indica il compiersi della salvezza.
E proprio qui è custodita la benedizione di Dio: nella salvezza donata in Cristo, attraverso la quale viene comunicata all’uomo la vita stessa di Dio, anzi viene rivelato all’uomo il suo nome più vero, quello di essere figlio nel Figlio.
L’ottavo giorno è, simbolicamente, il nostro tempo, quella pienezza del tempo con la sua inesauribile carica di benedizione che perdura, nel mistero della Chiesa, sino alla venuta di Cristo.
In questo tempo ogni uomo può entrare in relazione con Dio «nel nome di Gesù» (è la realtà profonda del battesimo) e in lui riceve ogni ‘benedizione’.
Possiamo allora dire che la liturgia, collocando questa pienezza di benedizione all’inizio dell’anno, quando riprendiamo in qualche modo il cammino di fronte al tempo, ci offre uno sguardo di speranza.
È anzitutto la speranza in un Dio che ci chiama ad essere suoi figli, che ci accoglie presso di lui e ci dona la sua comunione: ci ha donato ciò che ha di più caro, il Figlio; ci ha donato la sua stessa vita nello Spirito; è continua a farlo a ciascuno di noi, ad ogni uomo, con il suo perdono, con il suo desiderio di vedere tutta l’umanità radunata alla sua mensa, nel suo Regno.
Ma è anche la speranza che hanno saputo vedere i pastori nel volto del bambino a Betlemme e hanno saputo comunicarla nella lode e nella gioia.
I pastori ci insegnano che la speranza che siamo chiamati ad annunciare (l’evangelo) non è così evidente: solo se si va senza indugio e se si hanno occhi per vederla, questa speranza si disvela a noi.
La speranza che dobbiamo cercare è quella di Dio, è quella del bambino di Betlemme.
E Dio preferisce nascondere la sua speranza come un seme: non nella potenza o nella grandezza (questa è la speranza degli uomini), ma nell’umiltà di un inizio che porta in sé tutta la bellezza e la novità di un compimento.
Colui che è benedetto è veramente testimone di questa speranza: «riferirono ciò che del bambino era stato detto loro…
I pastori se ne tornarono glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto» (Lc 2,17.20).
E, infine, possiamo imparare da Maria a vivere di questa speranza.
«Maria – ci testimonia Luca – custodiva queste cose, meditandole nel suo cuore» (v.
19).
Maria ha saputo raccogliere tutti quei semi di speranza che vedeva e udiva attorno a sé; li ha nascosti nel suo cuore e sono diventati oggetto di lunga e paziente attesa.
Nonostante le sconfitte e le delusioni che ha incontrato nel suo cammino di fede, questi semi di speranza hanno trasfigurato lo sguardo di Maria, esso ha saputo sempre andare oltre ed è per questo che è rimasta presso la croce assieme al discepolo amato, colui che custodisce la speranza dell’amore.
Così nel massimo del fallimento e della esperienza di morte, la croce, Maria, che «custodiva queste cose, meditandole nel suo cuore», ha potuto scorgere ciò che fa nuove tutte le cose, quell’amore di un Dio che ha tanto amato il mondo da donare il suo Figlio.
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