II DOMENICA DI NATALE Lectio Anno c Prima lettura: Siracide 24,1-4.8-12, neo-vulg.24,1-4.12-16 La sapienza fa il proprio elogio, in Dio trova il proprio vanto, in mezzo al suo popolo proclama la sua gloria.
Nell’assemblea dell’Altissimo apre la bocca, dinanzi alle sue schiere proclama la sua gloria, in mezzo al suo popolo viene esaltata, nella santa assemblea viene ammirata, nella moltitudine degli eletti trova la sua lode e tra i benedetti è benedetta, mentre dice: «Allora il creatore dell’universo mi diede un ordine, colui che mi ha creato mi fece piantare la tenda e mi disse: “Fissa la tenda in Giacobbe e prendi eredità in Israele, affonda le tue radici tra i miei eletti” .
Prima dei secoli, fin dal principio, egli mi ha creato, per tutta l’eternità non verrò meno.
Nella tenda santa davanti a lui ho officiato e così mi sono stabilita in Sion.
Nella città che egli ama mi ha fatto abitare e in Gerusalemme è il mio potere.
Ho posto le radici in mezzo a un popolo glorioso, nella porzione del Signore è la mia eredità, nell’assemblea dei santi ho preso dimora».
v Il capitolo 24 del Siracide è un poema con protagonista la sapienza, che presenta se stessa, come in Proverbi 8.
Nel brano che leggiamo oggi la presentazione è su due piani: la terra e il cielo.
La sapienza loda se stessa e si glorifica (kauchaomai) in mezzo al suo popolo e nell’assemblea dell’Altissimo.
I verbi greci sono al futuro uno di questi: kauchesetai è uguale sia in mezzo al popolo che nell’assemblea dell’Altissimo.
L’autopresentazione su due piani è tipica di una certa letteratura del medio giudaismo, che personalizza la Sapienza e la Legge, che il Siracide identifica come un’unica realtà, e ne pone la preesistenza presso Dio, prima della creazione del mondo.
La Sapienza può lodare se stessa, perché è uscita «dalla bocca dell’Altissimo».
L’origine della sapienza è da Dio e il suo insegnamento viene da Lui.
È da Dio che la Sapienza riceve il mandato in mezzo ad Israele.
Essa partecipa della potenza divina, è una mediatrice privilegiata, che partecipa direttamente di alcune qualità dell’Altissimo.
Le immagini per dire il suo essere vicina a Dio e nello stesso tempo in Israele riprendono quelle dell’Esodo: «ho ricoperto come nube la terra…
il mio trono era una colonna di nubi» (Sir 24,3-4; cf Es 13 21-22; 14,19-20; 33,9-11; 40,38). La Sapienza cerca un luogo fra tutti i popoli, come dimora; il creatore le comanda: «fissa la tenda in Giacobbe e prendi eredità in Israele».
L’immagine della tenda rimanda di nuovo ad Esodo, come la nube (cf.
Es 25,8-9; 26,1-37).
Nella tenda la sapienza diventa «sacerdote di Dio», e in questa veste si stabilisce in «Gerusalemme» (Sir 24,11 cf 1Re 8,10-13; Is 6,1-4, la città amata (cf.
Sal 50,2).
Israele, popolo glorioso, eredità del Signore (Sir 24,12 cf.
Deut 32,9; Zac 2,16) diventa dimora privilegiata della «sapienza» divina.
La Sofia (sapienza in greco) acquista i tratti della shekinà ebraica, vale a dire l’immanenza di Dio nel suo popolo, di cui condivide le sorti.
Seconda lettura: Efesini 1,3-6.15-18 Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo.
In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato.
Perciò anch’io [Paolo], avendo avuto notizia della vostra fede nel Signore Gesù e dell’amore che avete verso tutti i santi, continuamente rendo grazie per voi ricordandovi nelle mie preghiere, affinché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi.
v «Benedetto sia il Padre del nostro Signore Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione…» (Ef l,3).
Innalzare un inno di benedizione a Dio per i doni che ci ha concesso è tipico della tradizione ebraica seguita anche da Luca che mette in bocca a Maria il «Magnificat» e a Zaccaria un inno dall’inizio molto simile a questo: «Benedetto il Signore Dio di Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo» (Lc 1,68).
Il verbo greco eulogeo, che traduciamo con benedire, significa nella letteratura extrabiblica: dire bene di qualcuno, sinonimo di ringraziare glorificare, cantare gli elogi.
Nel LXX e nel NT è usato nel senso del verbo ebraico, barak che ricorre sia per Dio che benedice, sia per l’uomo che canta le lodi di Dio.
Il Padre del nostro Signore Gesù Cristo è il Dio di Israele, che si può benedire, perché egli stesso ha preso l’iniziativa di benedire.
L’inno paolino è costruito su questa circolarità: da Dio agli uomini in Cristo e dagli uomini in Cristo a Dio.
L’iniziativa divina è sottolineata con forza; la scelta di farci diventare «figli» nel «figlio» e la conseguente possibilità di «essere puri e immacolati al cospetto di Dio» è atto di pura grazia divina.
Come Cristo è in Dio preesistente alla creazione, così noi siamo scelti da lui «prima della creazione del mondo».
Tutto quello che siamo, tutto quanto compiamo dipende dal beneplacito (eudokía) della volontà divina.
Il termine greco eudokía è lontano da qualsiasi idea di arbitrarietà; esso veicola l’idea del piacere e del desiderio buoni.
Dio è per così dire «affettivamente» coinvolto nella scelta degli uomini e delle donne, che nel Figlio Gesù diventano figli e figlie adottive.
Il Dio biblico non è un Dio distaccato, ma un Dio, se così si può dire, che si compiace, gioisce, è geloso, si adira, si pente…
Egli è infinitamente superiore alle creature, ma si china su di loro con lo sguardo amoroso e compiacente di un padre e una madre.
Consci di questa vicinanza e resi figli in Cristo eleviamo il nostro inno di benedizione «a lode dello splendore della sua grazia» (Ef 1,6).
L’inno prosegue fino al v.
14, ma la liturgia ne sospende la lettura alla prima strofa e la riprende al v.
15 fino al 18, nei quali Paolo esprime le motivazioni che lo inducono ad elevare continui ringraziamenti e suppliche al Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria.
Egli ringrazia per la fede e l’amore verso «tutti i santi» (i cristiani) dei destinatari della sua lettera.
Egli invoca per loro lo spirito di sapienza e di rivelazione, che li renda capaci di una sempre maggiore conoscenza di Dio.
Vangelo: Giovanni 1,1-18 In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.
Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta.
Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui.
Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce.
Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo.
Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto.
Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto.
A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.
E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità.
Giovanni gli dà testimonianza e proclama: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me».
Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia.
Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.
Esegesi «In principio» richiama l’inizio di tutte le Scritture (bereshit, greco ev archè Gen 1,1, Gv 1,1) e fa da inclusione ai primi due versetti del prologo di Giovanni, che formano così una strofa.
L’accostamento alle Scritture continua con l’insistenza di Giovanni sui termini luce e tenebre (Gv 1,4-5 – Gen 12-5).
Il «principio» di cui parla Giovanni allude sicuramente all’inizio delle Scritture, ma allude a una dimensione ancora più profonda di quella a cui si riferisce la Genesi, perché si pone prima dell’inizio del creare di Dio.
«In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio».
Il titolo «il Verbo» (o logos) per indicare la persona di Gesù è usato in forma assoluta solo nel prologo e con delle specificazioni solo nella letteratura giovannea (Il Verbo della vita in 1Gv 1,1 e il Verbo di Dio in Ap 19,13).
Gli esegeti non sono d’accordo sull’origine di questo titolo.
Il contenuto teologico del Logos giovanneo è molto vicino alla riflessione giudaica sulla Sapienza, che è presentata come mediatrice della creazione e della salvezza (Pv 8,22; Sap 9,1; Sir 24,1-7).
La terminologia sapienziale era già in uso nella chiesa primitiva (cf.
Mt 11,19; 1Co 1,30), ma Giovanni evita il termine «Sapienza» e sceglie «Logos».
L’esclusione di sapienza è dettata, dicono alcuni studiosi di Giovanni, prima di tutto dal fatto che si tratta di un termine femminile che sarebbe suonato male in ambiente ellenistico, dove invece era corrente il termine Logos, diffuso anche in ambiente giudeo-ellenistico attraverso l’opera di Filone Alessandrino, che presenta il Logos come mediatore della creazione e della salvezza, una specie di causa esemplare del mondo (cf.
G.
Segalla, Giovanni, Nuovissima Versione della Bibbia Paoline, p.
141).
La riscoperta del termine Sofia come titolo cristologico è recente e frutto della riflessione femminista e può, se non usato in maniera acritica ed esclusiva, aiutare a scoprire gli attributi per così dire «femminili» di Dio, presentati dalle Scritture.
Il «Verbo era presso Dio»: il greco esprime la vicinanza a Dio del Verbo con una preposizione pros che non indica la posizione statica di vicinanza, ma l’orientamento verso.
Il «Verbo era Dio» è il punto di arrivo delle tre affermazioni sul Verbo, che portano a contemplare il mistero intradivino.
Il Verbo era rivolto verso Dio, il suo sguardo e la sua vita erano tutte intradivine, ma Giovanni, affermando che «il mondo è stato fatto per mezzo di lui» (Gv 1,3; cf.
Gn 1,1; Col 1,15-16; Eb 1,2-3), spezza la «circolarità» intradivina per orientare lo sguardo di Dio, anzi la sua parola, verso l’altro da sé.
Il Verbo di Dio diviene così la parola creatrice (Gn 1,1.3.6.9.14.20.24.26; Sal 33,6-9), cioè parola capace di uscire dalla fecondità di Dio per dare vita al mondo.
Il primo capitolo di Giovanni ricorre all’immagine della luce e delle tenebre (collegata dalla Genesi all’origine del mondo) anche per «attualizzare» drammaticamente nel tempo le «opere del principio».
Luce e tenebre divengono infatti il luogo dell’accoglimento o, all’opposto, il luogo del rifiuto (Gv 1,5.10)».
(Piero Stefanini, Sia santificato il tuo nome.
Commento ai Vangeli della domenica.
Anno A, p.
44).
Il Verbo deve fare i conti con il rifiuto, perché è una «luce» particolare, che non abbaglia, ma lascia alle «tenebre» la possibilità di non scomparire; fuor di metafora il Verbo si rivela come vita e rivela il Padre (Gv 1,18), ma in modo da lasciare la libertà di accoglierlo o di rifiutarlo.
La risposta deve essere libera, perché il risultato dell’accoglienza è diventare «figli di Dio» (Gv 1,12-13; cf 1Gv 5,13; Ga 3,26).
Per questo il Verbo «si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14).
Dentro al quadro di accoglimento e rifiuto fatto in termini generali, l’evangelista richiama la figura di Giovanni il Battista, come modello di accoglienza della luce, che si è rivelata ed è venuta nel mondo.
Egli ha accolto il mandato di Dio ed è diventato testimone della luce (Gv 1,6- 8.15; cf.
Mt 3,1; Mc 1,4.7; Lc 1,13-17.57-80).
Meditazione Torniamo in questa domenica a fissare lo sguardo sul mistero dell’incarnazione aiutati dal Prologo di Giovanni, che la liturgia, dopo averlo proclamato nella Messa del giorno di Natale, ci fa ascoltare anche oggi, questa volta alla luce della Sapienza di Dio, come viene descritta dal Siracide (prima lettura).
Di fatto, il capitolo 24 del Siracide, insieme al capitolo 8 del libro dei Proverbi, costituiscono il principale punto di riferimento antico-testamentario per l’inno con cui si apre il Quarto Vangelo.
L’origine della Sapienza è in Dio; creata fin dal principio, rimane in eterno.
Dopo aver riempito di sé l’intera creazione, dall’alto dei cieli fino agli abissi della terra, ha fissato la sua tenda in Israele, ha posto le sue radici nella storia di questo popolo.
Presente nel cosmo e nella storia, rivela il mistero di Dio, mostrandone tanto la trascendenza quanto la prossimità alle vicende degli uomini.
Colei che ha la sua dimora lassù, e il suo trono su una colonna di nubi, è la stessa Sapienza che abita in Gerusalemme, e pone la sua tenda tra le tende degli uomini.
Dio è il Trascendente e il Prossimo, l’Altro e il Somigliante, lo Straniero e il Vicino.
La sua Parola discende dall’alto dei cieli e nello stesso tempo sale dall’esperienza storica dei figli dell’uomo.
Secondo la tradizione giudaica, la rivelazione fondamentale di Dio, la Torah contenuta nei cinque libri di Mosè (il nostro Pentateuco, dalla Genesi al Deuteronomio), trova il suo commento e la sua interpretazione nei Profeti e negli Scritti sapienziali.
La Profezia è spesso paragonata alla manna del deserto, un pane che discende dal cielo; la Sapienza all’acqua che sgorga dalla roccia, dalla terra.
C’è una parola di Dio che viene dall’alto e che possiamo ascoltare perché c’è un profeta che ce l’annuncia in suo nome, così come c’è una parola di Dio che sale e matura dal di dentro dell’esperienza umana, e che possiamo riconoscere a condizione di saper rileggere con sapienza e discernimento la nostra vita e la nostra storia.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo prega per gli Efesini, chiedendo che «il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui» (v.
18).
Possiamo forse intendere così queste parole: abbiamo bisogno dello spirito di rivelazione, che ci consenta di ascoltare e comprendere ciò che Dio ci rivela dall’alto, e che spesso rimane indeducibile dall’esperienza che viviamo.
È allora indispensabile un annuncio profetico, una parola che ci colpisce e ci sorprende, che ci dona uno sguardo diverso su noi, sugli altri, sulla realtà nel suo insieme e su tutto ciò che accade.
La rivelazione di Dio è sempre un’illuminazione, che consente a una luce diversa di abitare nei nostri occhi e nel nostro sguardo.
Nello stesso tempo, abbiamo bisogno di uno spirito di sapienza, che ci permetta di discernere quei segni di Dio nascosti nelle pieghe ordinarie della nostra vita.
Per vivere e per credere necessitiamo sia della manna che scende dal cielo, sia dell’acqua che sgorga dalla roccia.
In Gesù di Nazaret queste due linee, quella discendente della manna e quella ascendente dell’acqua, si incontrano e si unificano.
Non per nulla spesso i testi del Nuovo Testamento ce lo presentano come l’ultimo e definitivo profeta, ma anche come la sapienza incarnata.
Un solo esempio fra i tanti: all’inizio del vangelo di Matteo, nel suo primo grande discorso, «Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli.
Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: beati…» (Mt 5,1-2).
Gesù sale su ‘il monte’ (con l’articolo, non è un monte qualsiasi) come il nuovo Mosè, e si mette a parlare, ma più esattamente il testo greco narra che ‘aprì la sua bocca’, con un tipico modo di dire sapienziale.
Nella grande proclamazione delle beatitudini, segno della prossimità del Regno, Gesù parla come il compimento insuperabile di tutta la Profezia e di tutta la Sapienza di Israele, e la sua parola non abolisce, ma porta a compimento la Torah di Mosè.
Su questi aspetti insiste anche il prologo giovanneo.
Gesù è il Figlio Unigenito, colui che dal principio è rivolto verso il seno del Padre; solo lui lo conosce e può rivelarcelo.
Non possiamo fare a meno della sua rivelazione per conoscere in verità il volto di Dio.
Non ci è dato di giungervi per altre vie, che presumano di poter fare a meno di lui e della sua parola, della sua persona, della sua storia.
È lui la vera manna, il pane vero che discende dal cielo per dare la vita al mondo (cfr.
Gv 6).
Nello stesso tempo, come fa la Sapienza descritta dal Siracide, Gesù pone la sua tenda in mezzo a noi.
Anche se traduciamo «venne ad abitare in mezzo a noi» (v.
14), il testo greco evoca espressamente questo suo attendarsi tra noi.
Non solo tra noi, ma in noi, perché ora la tenda di Dio è la carne di un uomo.
Ed è proprio nella debolezza, nella fragilità, nella mortalità di questa carne (sarx in greco), che noi possiamo contemplare tutta la gloria di Dio.
Anche la carne dell’uomo, ciò che nell’uomo appartiene maggiormente alla terra, dalla terra viene e alla terra ritorna, diventa luogo epifanico di Dio.
Non solo l’acqua sgorga dalla roccia, ma potremmo dire simbolicamente che la roccia stessa diviene acqua.
E Gesù, se è manna che scende dal cielo, per Giovanni è anche roccia, pozzo che può donare alla nostra vita l’acqua vera che ci disseta in eterno (cfr.
Gv 4).
Innalzato sulla Croce e percosso dal colpo di lancia, così come Mosè aveva percosso la roccia, Gesù dona alla nostra sete l’acqua viva nel suo Spirito e nel suo sangue.
È lui la luce vera, quella che illumina ogni uomo (cfr.
Gv 1,9).
Non solo per orientare il nostro cammino, ma per consentirci di riconoscere anche nella nostra carne i segni discreti della presenza gloriosa di Dio in noi.
In principio era il Verbo, scrive Giovanni, era il Logos, la Parola.
Al principio di tutto, nel disegno originario di Dio, c’è il desiderio di comunicarsi, di rivelarsi, di dialogare.
E Dio sa ricorrere a molteplici linguaggi per entrare in relazione con noi: il linguaggio della storia e quello della natura, il linguaggio profetico della rivelazione e quello più universale della sapienza, il linguaggio della memoria e quello dell’attesa.
Che ci sia davvero donato, come prega Paolo, uno spirito di rivelazione e uno spirito di sapienza, perché possiamo imparare ad ascoltare e a capire questi molteplici modi con cui Dio parla e si rivela, e impariamo a nostra volta a parlarli per divenire, come Giovanni, testimoni credibili della luce vera che viene nel mondo, illumina ogni uomo, senza esclusioni o restrizioni di sorta, e non è vinta, neppure quando pare che le tenebre siano incapaci di accoglierla.
Preghiere e Racconti IN MEZZO A NOI «Possa egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi».
(Ef 1, 18) «Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto.
A quanti però l’hanno accolto, ha dato il potere Di diventare figli di Dio».
(Gv 1, 11-12) Dobbiamo rimeditare il mistero del Natale in termini forse meno emotivi e più sapienziali.
Vengono adoperati, infatti, testi biblici pacati e solenni, frutto essi stessi di elaborate sedimentazioni tecnologiche teologiche.
Sembra quasi che la chiesa, preoccupata che le feste natalizie abbiano preso una piega un tantino più allegra del dovuto, voglia provocarci a supplementi di riflessione, a scavi interiori e a più esigenti prese di posizione.
Non possiamo, ovviamente, consumare tutte le vivande che ci vengono approntate sulla tavola della Parola.
C’è ne sono in abbondanza come non mai: non per nulla siamo ancora nel clima del Natale! Faremo perciò una selezione, resa obbligatoria dall’esigenza di dovercene andare con un forte tema generatore nella mente, che non ci lasci disorientati in mezzo a tanta ricchezza e ci nutra per l’intera settimana.
Svilupperemo, allora, questo messaggio: «Gente, Dio ha posto la sua tenda in mezzo a noi.
Siamo liberi di accoglierlo o di rifiutarlo.
Se lo accogliamo, però, la vita finalmente acquisterà senso per tutti!».
Dio ha posto la sua tenda in mezzo a noi È un messaggio che, se non ci fa trasalire più, è perché non scorre sulle coordinate del coinvolgimento esistenziale, della carica emotiva e dell’intuizione del dono.
Diciamocelo con franchezza: quello della coabitazione, anzi della «inabitazione» di Dio tra gli uomini, è un annuncio spento per molti cristiani.
Se una comunità di sieropositivi si insedia tra i palazzi dei ricchi, si scatena il rifiuto.
Un centro di accoglienza per tossicodipendenti provoca reazioni per chi vi abita accanto.
Quando una famiglia di marocchini viene ad abitare in un condominio, spesso è tutto il palazzo che si ribella.
Quando gli zingari impiantano i carrozzoni nelle adiacenze di ville appartenenti a persone «perbene», è un’iradiddio generale.
Per il verso contrario, si fa a gara per accaparrarsi, accanto alle proprie abitazioni i servizi più importanti; si specula al limite della illegalità pur di avere un impianto che valorizzi la zona dove si abita.
A chi chiede l’indirizzo di casa si aggiunge con fierezza che a pochi metri di distanza c’è la villa di Gianni Morandi o il residence di Maradona.
Ma la notizia che Dio diventa nostro coinquilino non ci fa organizzare ne cortei di protesta né i fuochi d’artificio per la gioia.
Perché questa apatia? Come ricogliere lo stupore dell’annuncio che Dio «ha posto la sua tenda in mezzo a noi»? Oggi è il momento buono per far comprendere tutto lo spessore di questa notizia che rasenta l’assurdo, anzi lo sorpassa.
Liberi di accoglierlo o di rifiutarlo Ecco che all’improvviso siamo posti con le spalle al muro, nella crocifissione della scelta più radicale della nostra vita: accogliere o rifiutare che Dio collochi la sua «tenda in mezzo a noi».
Stringi stringi, è il vero «caso serio» dell’esistenza.
Che fare di fronte a questa provocazione? Denunciare Gesù come abusivo? Aizzargli contro il malumore popolare perché disturba la quiete pubblica? Rimetterlo in croce o metterlo in ridicolo? Far finta di niente, tanto prima o poi si stancherà e andrà via? Oppure accoglierlo con i segni della festa e sperimentare con lui i misteri gaudiosi, gloriosi e dolorosi della vita? Oggi, di fronte al macigno che ci ruzzola addosso le parole di Giovanni: «Venne tra la sua gente, ma i suoi non lo hanno accolto» (Gv 1,11) tutto ci è permesso fuorché rimanere neutrali.
Se lo si accoglie, la vita acquisterà senso A quanti lo hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio».
È in questa accoglienza che si gioca il senso del vivere.
Più che senso, è meglio dire sapienza.
Cioè sapore, gusto.
Il sale nella minestra: quello che manca oggi.
Se Maria presenziasse con Gesù, come un giorno in Cana di Galilea, ai nostri banchetti, non direbbe più: «Figlio, non hanno più vino» (Gv 2,3), ma direbbe: «Figlio, non hanno più sale».
Si recupera a questo punto tutto il messaggio sulla sapienza.
Essa è un dono che Dio manda sulla terra perché, «dopo aver officiato nella tenda santa davanti a lui», venga finalmente a fare compagnia agli uomini e «fissi la tenda in Giacobbe» (Sir 24,8).
Di questo senso, di questo orientamento decisivo, di questo intimo significato delle cose, di questo profondo perché, oggi sentiamo tutti un incredibile bisogno.
Scoprire, sotto lo scorrere dei grani del tempo, il filo nascosto che articola i giorni, senza frantumarli in monadi chiuse.
Leggere, sotto la scorza degli avvenimenti, tristi o luttuosi, la tensione ultima che li lega al Regno.
Udire la voce segreta che geme nell’universo, sofferente per i travagli del parto.
Intuire che i frammenti di gioia che si sperimentano quaggiù fanno parte di un mare di felicità, in cui un giorno faremo tutti naufragio.
Percepire che il nostro vuoto può essere riempito solo «dalla sua pienezza» (Gv 1, 16).
È così grande il dono, che san Paolo sente il bisogno di chiedere per tutti da Dio questo «spirito di sapienza» (Et 1, 17).
A noi non resta che augurarci che «possa egli davvero illuminare gli occhi della nostra mente per farci comprendere a quale speranza ci ha chiamati».
Se le cose stanno così, benvenuta «tenda di Dio in mezzo a noi» ! (Don Tonino Bello, Avvento.
Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 91-96).
È Natale É Natale ogni volta che sorridi a un fratello e gli tendi la mano; ogni volta che rimani in silenzio per ascoltare un altro; ogni volta che riconosci con umiltà i tuoi limiti e la tua debolezza.
È Natale ogni volta che permetti al Signore di amare gli altri attraverso di te.
Preghiamo di essere capaci di accogliere Gesù a Natale non nella fredda mangiatoia del nostro cuore, ma in un cuore pieno di amore e di umiltà, un cuore caldo di amore reciproco.
(Madre Teresa di Calcutta) Il giovane e il vecchio C’era una volta un uomo seduto all’ingresso di una città….
un giovane si avvicinò e gli chiese: – “sono nuovo di qui, com’è la gente che abita in questa città?” Il vecchio rispose: – “dimmi, com’era la gente nella città da dove vieni?” – “egoista e cattiva, ed è perciò che ero contento di andare via” – “Troverai la stessa gente anche qui” rispose il vecchio.
Qualche tempo dopo, un altro giovane si avvicinò e fece la stessa domanda: – “sono appena arrivato, dimmi com’è la gente di questa città?”.
Il vecchio rispose allo stesso modo: – “dimmi, ragazzo, com’era la gente della città da dove vieni?” – “era gente buona, accogliente, benevola e onesta.
Ho molti amici là e ho fatto fatica a lasciarli”.
– “Troverai la stessa gente anche qui” – rispose il vecchio.
Un mercante che aveva ascoltato le due conversazioni, appena il secondo giovane si allontanò, rimproverò il vecchio: – “come puoi dare risposte così diverse alla stessa domanda posta da due persone?” Il vecchio rispose: “figlio mio, ognuno porta il proprio universo nel cuore: Non importa da dove provenga: colui che non ha trovato nulla di buono nel passato, non troverà niente neanche qui.
Inoltre colui che aveva amici nell’altra città, troverà qui amici leali e fedeli.
Perché, vedi, le persone sono nei nostri confronti ciò che noi troviamo in loro”.
Preghiera al padre della verità, della sapienza e della felicità “O Dio, creatore dell’universo, concedimi prima di tutto che io ti preghi bene, quindi che mi renda degno di essere esaudito, e infine di ottenere da te la redenzione.
O Dio, per la cui potenza tutte le cose che da sé non sarebbero, si muovono verso l’essere; o Dio, che non permetti che cessi d’essere neanche quella realtà i cui elementi hanno in sé le condizioni di distruggersi a vicenda; o Dio, che hai creato dal nulla questo mondo, di cui gli occhi di tutti avvertono l’alta armonia; o Dio, che non fai il male ma lo permetti perché non avvenga il male peggiore; o Dio, che manifesti a pochi, i quali si rivolgono a ciò che veramente è, che il male non è reale; o Dio, per la cui potenza l’universo, nonostante la parte non adatta al fine, egualmente lo raggiunge; o Dio, dal quale la dissimilitudine non produce l’estrema dissoluzione, poiché le cose peggiori si armonizzano con le migliori; o Dio, che sei amato da ogni essere che può amare, ne sia esso cosciente o no; o Dio, nel quale sono tutte le cose, ma che la deformità esistente nell’universo non rende deforme, né il male meno perfetto, né l’errore meno vero; o Dio, che hai voluto che soltanto gli spiriti puri conoscessero il vero; o Dio, padre della verità, padre della sapienza, padre della vera e somma vita, padre della felicità, padre del buono e del bello, padre della luce intelligibile, padre del nostro risveglio e della nostra illuminazione, padre del pegno che ci ammonisce di tornare a te! Te invoco, Dio verità, fondamento, principio e ordinatore della verità di tutti gli esseri che sono veri; o Dio sapienza, fondamento, principio e ordinatore della sapienza di tutti gli esseri che posseggono sapienza, o Dio vera e somma vita, fondamento, principio e ordinatore della vita degli esseri che hanno vera e somma vita; Dio beatitudine, fondamento, principio e ordinatore della beatitudine di tutti gli esseri che sono beati; o Dio bene e bellezza, fondamento, principio e ordinatore del bene e della bellezza di tutti gli esseri che sono buoni e belli; o Dio luce intelligibile, fondamento, principio e ordinatore della luce intelligibile di tutti gli esseri che partecipano alla luce intelligibile; o Dio, il cui regno è tutto il mondo che è nascosto al senso; o Dio, dal cui regno deriva la legge per i regni della natura; o Dio, dal quale allontanarsi è cadere, verso cui voltarsi è risorgere, nel quale rimanere è avere sicurezza; o Dio, dal quale uscire è morire, al quale avviarsi è tornare a vivere, nel quale abitare è vivere; o Dio, che non si smarrisce se non si è ingannati, che non si cerca se non si è chiamati, che non si trova se non si è purificati; o Dio, che abbandonare è andare in rovina, a cui tendere è amare, che vedere è possedere; o Dio, al quale ci stimola la fede, ci innalza la speranza, ci unisce la carità; o Dio, per mezzo del quale trionfiamo dell’avversario: ti scongiuro! O Dio, che abbiamo accolto per non soggiacere a morte totale; o Dio, da cui siamo stimolati alla vigilanza; o Dio, col cui aiuto sappiamo distinguere il bene dal male; o Dio, col cui aiuto fuggiamo il male e operiamo il bene; o Dio, col cui aiuto non cediamo ai perturbamenti; o Dio, col cui aiuto siamo soggetti con rettitudine al potere e con rettitudine l’esercitiamo; o Dio, col cui aiuto apprendiamo che sono anche di altri le cose che una volta reputavamo nostre e sono anche nostre le cose che una volta reputavamo di altri; o Dio, col cui aiuto non ci attacchiamo agli adescamenti e irretimenti delle passioni; o Dio, col cui aiuto la soggezione al plurimo non ci toglie l’essere uno; o Dio, col cui aiuto il nostro essere migliore non è soggetto al peggiore; o Dio, col cui aiuto la morte è annullata nella vittoria; o Dio, che ci volgi verso di te; o Dio, che ci spogli di ciò che non è e ci rivesti di ciò che è; o Dio, che ci rendi degni di essere esauditi; o Dio, che ci unisci; o Dio, che ci induci alla verità piena; o Dio, che ci manifesti la pienezza del bene e non ci rendi incapaci di seguirlo né permetti che altri lo faccia; o Dio, che ci richiami sulla vita; o Dio, che ci accompagni alla porta; o Dio, che fai sì che si apra a coloro che picchiano; o Dio, che ci dai il pane della vita; o Dio, che ci asseti di quella bevanda, sorbendo la quale non avremo più sete; o Dio, che accusi il mondo sul peccato, la giustizia e il giudizio; o Dio, col cui aiuto non siamo influenzati da coloro che non credono; o Dio, col cui aiuto riproviamo coloro i quali affermano che le anime non possiedono alcun merito dinanzi a te; o Dio, col cui aiuto non diveniamo adoratori degli elementi inetti e impotenti; o Dio, che ci purifichi e ci prepari ai premi divini: viemmi incontro benevolo! In qualsiasi modo io possa averti pensato, il Dio uno sei tu, e tu vieni in mio aiuto, una eterna e vera essenza, dove non ci sono discordia, oscurità, cangiamento, bisogno, morte, ma somma concordia, somma chiarezza, somma costanza e durata, somma pienezza, somma vita; dove nulla manca, nulla ridonda, dove colui che genera e colui che è generato sono una medesima cosa; Dio, cui sono soggette tutte le cose prive di autosufficienza, cui obbedisce ogni anima buona; per le cui leggi ruotano i poli, le stelle compiono le loro orbite, il sole rinnova il giorno, la luna mitiga la notte, e tutto il mondo, mediante le successioni e i ritorni dei tempi, conserva, per quanto la materia sensibile lo comporta, la grande uniformità dei fenomeni, attraverso i giorni con l’alternarsi del giorno e della notte, attraverso i mesi con le lunazioni, attraverso gli anni con i ritorni di primavera, estate, autunno e inverno, attraverso i lustri col compimento del corso solare, attraverso i secoli col ritorno delle stelle alle loro origini; o Dio, per le cui leggi esistenti per tutta la durata della realtà non si permette che il movimento difforme delle cose mutevoli sia turbato, ma che venga ripetuto, sempre secondo uniformità, nella dimensione rotante dei tempi; per le cui leggi è libera la scelta dell’anima e sono stati stabiliti premi per i buoni e pene per i cattivi con leggi fisse e universali; o Dio, da cui provengono a noi tutti i beni e sono allontanati tutti i mali; o Dio, sopra del quale, fuori del quale e senza il quale non c’è nulla; o Dio, sotto il quale è il tutto, nel quale è il tutto, col quale è il tutto; che hai fatto l’uomo a tua immagine e somiglianza, il che può comprendere chi conosce te stesso: ascolta, ascolta, ascolta me, mio Dio, mio Signore, mio re, mio padre, mio fattore, mia speranza, mia realtà, mio onore, mia casa, mia patria, mia salvezza, mia luce, mia vita; ascolta, ascolta, ascolta me nella maniera tua, soltanto a pochi ben nota!” (Agostino, Soliloqui, 1,1.2-4) * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo D’Avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
68.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– Don Tonino Bello, Avvento e Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.
– Carlo Maria MARTINI – Pietro MESSA, L’infinito in una culla.
San Francesco e la gioia del Natale, Assisi, Porziuncola, 2009, 7-13).
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