Natale del Signore Gesù (anno C)

NATALE DEL SIGNORE   Lectio Anno c     Prima lettura: Isaia 52,7-10          Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza, che dice a Sion: «Regna il tuo Dio».
Una voce! Le tue sentinelle alzano la voce, insieme esultano, poiché vedono con gli occhi il ritorno del Signore a Sion.
Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme.
Il Signore ha snudato il suo santo braccio davanti a tutte le nazioni; tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio.
    v Il nostro brano, appartenente al così detto secondo Isaia, immagina di descrivere la gioia entusiasta del popolo esiliato, che ascolta un divino messaggero, annunziante che l’esilio è finito e Dio è tornato nella santa città, dimostrandosi salvatore potente.
La nostra liturgia interpreta il brano in chiave messianica.
                                                                      Seconda lettura: Ebrei 1,1-6          Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo.
Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente.
Dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, sedette alla destra della maestà nell’alto dei cieli, divenuto tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato.
Infatti, a quale degli angeli Dio ha mai detto: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato»? e ancora: «Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio»? Quando invece introduce il primogenito nel mondo, dice: «Lo adorino tutti gli angeli di Dio».
    v L’introduzione della anonima lettera agli Ebrei si armonizza assai bene con la lettura evangelica.
Anch’essa infatti sembra volerci svelare la misteriosa identità di Gesù Cristo.
Prima di tutto, ci è detto egli è il Figlio di Dio ed è venuto nel mondo per parlarci (come si vede, anche questo testo è vicino a definire Gesù Cristo Verbo di Dio), in qualità di creatore e signore (in quanto erede) di tutte le cose (vv.
1-2).
In secondo luogo, di questo Figlio di Dio, del quale si magnifica ancora la potenza della parola, è detto che, avendo realizzato la purificazione del mondo è assiso alla destra di Dio, superando in dignità gli stessi angeli (vv.
3-6).
  Vangelo: Giovanni 1,1-18          In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.
Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta.
Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui.
Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce.
Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo.
Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto.
Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto.
A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.
E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità.
Giovanni gli dà testimonianza e proclama: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me».
Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia.
Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.
    Esegesi      I primi 18 versetti del c.
I del quarto vangelo contengono certamente una composizione poetica, che non segue le norme della metrica greca, ma le cadenze e le regole della poesia semitica, basata su vari tipi di parallelismo e antitesi cadenzati.
Nella composizione poetica sono però inseriti dei brani in prosa di tipo narrativo o esplicativo.
Le due inserzioni narrative riguardano la testimonianza storica resa da Giovanni Battista al Verbo di Dio: vv.
6-8 e v.
15.
L’inserzione esplicativa del v.
13 sembra ampliare la descrizione dei figli di Dio del v.
12; quella del v.
17 commenta l’accenno alla grazia, fatta nel verso precedente, ricordando che questa è propria di Gesù Cristo, così come la legge è propria di Mosè; il v.
18 fa certamente da conclusione all’intero inno e potrebbe anche farne parte.
È probabile che l’inno a Gesù come Verbo (cioè parola) di Dio esistesse, nelle comunità formatesi attorno all’apostolo Giovanni, come inno liturgico e che il redattore del quarto vangelo lo abbia utilizzato, così come pare abbia fatto Paolo in Fil 2,5ss e in Col l,12ss e altri agiografi in altri libri del Nuovo Testamento.
     La ricchezza delle idee espresse nell’inno, velate per di più dal linguaggio allusivo e fluttuante che è proprio della poesia, non ci consente di farne qui l’intera analisi.
Ci contentiamo di sottolineare i motivi che lo hanno fatto scegliere come lettura evangelica della terza Messa di Natale.
     Ci sono due problemi che la primitiva predicazione cristiana ha dovuto affrontare e che tutt’ora sono ineludibili: il primo è quello della identità personale di Gesù Cristo (chi è costui?); il secondo è quello del rifiuto opposto a Gesù Cristo e al suo vangelo, a cominciare dal suo stesso popolo.
Ambedue i problemi li hanno tenuti presenti i nostri quattro vangeli e, in particolare, i vangeli dell’infanzia di Matteo e Luca.
Si ha l’impressione che il prologo del vangelo di Giovanni voglia rispondere soprattutto a questi due problemi.
     Risponde al primo problema la denominazione di Gesù Cristo come Verbo, ossia Parola di Dio: in quanto Parola di Dio egli appartiene all’area di Dio ed è al di fuori o al di sopra del tempo, in principio (vv.
1-2); l’intera creazione dipende da lui, perché è opera sua (v.
3) e, in particolare da lui deriva la vita, che è lo splendore della creazione ed è in se stessa rivelazione o manifestazione di Dio, vale a dire luce degli uomini (v.
4), contrastata ma non vinta dalle tenebre, cioè dall’ignoranza e dal peccato degli uomini (v.
5): finalmente, questo verbo di Dio, preannunciato dalla testimonianza dell’inviato divino Giovanni Battista (vv.
6-5), si fece carne e prese la sua dimora fra gli uomini, rivelando a loro la gloria del Padre (v.
14).
Questa è la densa e articolata risposta data al problema della identità di Gesù.
     Il secondo problema, quello del rifiuto patito da Gesù nella sua stessa patria, non riceve una spiegazione semplicistica, ma è svelato in tutta la sua dimensione cosmica e universale: esso va riportato cioè al rifiuto che sempre le tenebre hanno opposto alla luce (vv.
5.10-11).
Più che fare infiniti discorsi sull’argomento, occorre vedere ciò che accade a quelli che accolgono il Verbo di Dio fatto uomo: diventano figli di Dio e vengono riempiti dalla grazia, cioè dall’amore del Padre (vv.
12.16).
  Meditazione      «Un giorno santo è spuntato per noi…
oggi una splendida luce è discesa sulla terra».
Il canto al vangelo di questa eucaristia bene ci introduce nello spirito di questo giorno, giorno reso santo da quella «splendida luce» che ha illuminato la notte oscura dell’umanità e ora brilla nella pienezza del suo fulgore.
Il prologo del vangelo di Giovanni (Gv 1,1-18), che con felice intuizione la Chiesa fa proclamare nella Messa del giorno, descrive l’itinerario di questa «luce» che dalle ‘origini’ e dalle ‘altezze’ di Dio ‘scende’ nel mondo per rischiarare le sue tenebre e ridonargli nuova vita.
Là infatti dove arriva la luce, la vita può diffondersi e rifiorire; al contrario, dove tutto è avvolto dal buio, c’è solo il deserto e la morte.
All’inizio della creazione, quando «la terra era informe e deserta» e in essa tutto era ancora tenebra, la prima realtà che Dio fece sorgere dalla potenza della sua parola fu proprio la luce: «Dio disse: “Sia la luce!”.
E la luce fu» (Gen 1,1-3).
La vita prende avvio dalla luce e la luce, a sua volta, simboleggia la vita nel suo dilatarsi e crescere, prendendo forma e colore: «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini» (Gv l,4).
     Il tema della luce attraversa tutto il quarto vangelo e costituisce uno dei motivi fondamentali dell’intera narrazione, costruita appunto sul dualismo e sul contrasto luce/tenebre.
Gesù stesso, durante il suo ministero, non esiterà a dichiarare: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8,12).
Ma il motivo della luce è strettamente legato anche a tutta la tematica del ‘vedere’: senza luce è infatti preclusa ogni possibilità di visione delle realtà di questo mondo (il buio rende tutti in qualche modo ‘ciechi’).
La prima lettura e il salmo responsoriale insistono sul fatto che «la salvezza del nostro Dio» giunta a noi in questi giorni ultimi (cfr.
Eb 1,2) è stata veduta da «tutti i confini della terra» (Is 52,10; Sal 97,3).
Allo stesso modo l’evangelista Giovanni, al culmine del suo prologo, dove con poche e incisive parole narra il momento cruciale e irripetibile dell’incarnazione del Verbo («E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi»), introduce il ‘noi’ della comunità credente proprio con l’azione del ‘vedere’: «e noi abbiamo contemplato la sua gloria» (Gv 1,14).
Nessuno può vedere Dio, dice tutta la Scrittura, e Giovanni dal canto suo ripete: «Dio nessuno lo ha mai visto», ma, aggiunge subito: «il Figlio unigenito…
è lui che lo ha rivelato» (v.
18).
Noi vediamo «la gloria di Dio» nella «carne» dell’uomo Gesù, nell’umanità fragile e debole che il Verbo ha assunto venendo in questo mondo.
Ancora una volta, il contrasto si fa stridente: la carne, questa realtà caduca e mortale (erba che secca e fiore che appassisce, dicono i profeti: cfr.
Is 40,6-7) diventa epifania di Dio, luogo che irradia lo splendore della sua gloria (cfr.
Eb 1,3).
     La celebrazione del Natale non cessa di accrescere il nostro stupore mostrandoci che quel «bambino nato per noi» (antifona d’ingresso, che riprende Is 9,5) non è altro che il Verbo di Dio, la Parola eterna che è divenuta carne, la Salvezza che tutti i popoli attendevano di vedere.
È in questo piccolo e inerme bambino che «il Signore ha snudato il suo santo braccio davanti a tutte le nazioni» (Is 52,10), come ci dice il profeta Isaia con un’immagine plastica e incisiva.
‘Snudare il braccio’ vuol dire mostrare tutta la propria forza e potenza, esibire la propria grandezza nella capacità di compiere prodigi che non temono confronti.
Certamente, sentire proclamare questa parola con lo sguardo ancorato al presepe di Betlemme, a quel bimbo «avvolto in fasce che giace nella mangiatoia», non può non suscitare in noi una sorta di meraviglia confusa, di grato smarrimento, di pensoso palpitare del cuore…
     Nel prologo della lettera agli Ebrei (seconda lettura) ci imbattiamo nella solenne affermazione che «Dio ha parlato a noi nel Figlio» (Eb 1,2).
Se «in principio» (Gen 1,1; cfr.
Gv 1,1) Dio aveva già fatto risuonare la sua parola creatrice e, nel corso del tempo, aveva continuato a parlare «molte volte e in diversi modi» attraverso i profeti (Eb 1,1), è soltanto ora, «in questi giorni», che dice la sua parola ultima e definitiva nel suo Figlio amato.
Gesù è la Parola, «il Verbo», attraverso cui Dio dice veramente e fino in fondo se stesso.
Se Dio non ha mai smesso di parlare – cioè di comunicarsi attraverso il fragile mezzo della parola, mai imposta e sempre esposta al possibile rifiuto -, è però negli ultimi tempi che la sua parola acquista una nuova e più radicale dimensione, assumendo tutto lo spessore e la concretezza della ‘carne’.
È a questa carne che Dio affida il suo incontenibile desiderio di comunicazione e di comunione con l’uomo, prendendo su di sé il rischio di una condivisione piena e totale della nostra condizione umana.
Forse è a questo che allude la colletta di questa eucaristia quando dice che «in modo mirabile ci hai creati a tua immagine, e in modo più mirabile ci hai rinnovati e redenti…».
Il «modo» di parlare nella carne del Figlio diventa «più mirabile» del modo con cui la parola potente di Dio ha creato l’uomo e il mondo intero.
Ed è solamente per questa via, segnatamente (o mirabilmente) ‘carnale’, che a noi è data la possibilità di accogliere fino in fondo questa parola, ricevendo così in dono la grazia di «diventare figli di Dio» (Gv 1,12).
  Preghiere e Racconti Quella volta che Francesco… Amico, questo Natale del Signore voglio vederlo!».
Così disse, all’inizio del dicembre 1223, Francesco di Assisi all’amico Giovanni Velita, un possidente di terreni collinosi a Greccio, presso Rieti.
E il Santo spiegò all’amico cosa intendesse per “vedere” il Natale.
Nacque, da quel’intesa, il presepio com’è conosciuto nella cultura cristiana, nella pietà e nell’arte dei paesi latini.
Francesco è un credente dal cuore di fanciullo e dalla fervida e festosa fantasia.
La sua fede “vede” ciò che crede, ma le mancava l’“oggetto” da vedere nella figura e nella forma concreta; il Poverello, in quel secolo di ferro e di fuoco, ma anche di grandi santi, poeti e profeti della fede, non era soddisfatto di una “lacuna” costante nella rappresentazione della nascita del Figlio di Dio.
Conosceva, grazie ai suoi pellegrinaggi a Roma, la Natività nei mosaici delle grandi basiliche, ma non gli bastava.
In quei sublimi cicli pittorici, il Figlio di Dio pur avvolto in fasce, è quasi sempre raffigurato come un principe, dalla faccia seria, senza splendore d’innocenza e d’infanzia.
Francesco deve aver coltivato a lungo la speranza di “vedere” realmente la presenza di Cristo neonato, e ha cercato un’immagine viva del Bambino di Betlemme, fatta di carne, di uno sguardo, un gemito, un sorriso.
Il discorso di Francesco a Giovanni Velita non è riferito certo alla lettera, ma il senso è preciso: “Preparami, per questo Natale del Signore, una grotta, della paglia, un asino, un bue, dei pastori e una mangiatoia, vuota però.
La cornice è nostra, ma la presenza è soltanto quella che a lui piacerà mostrarci.
E un sacerdote celebri, nella notte, il sacrificio eucaristico.
A tutto il resto penserà il Signore”.
Giovanni Velita obbedisce felice.
La collina boscosa, nella notte, si riempie di gente, di canti, di grida di bambini, di animali, pecore e agnelli.
Dopo aver proclamato il Vangelo, Francesco parla alla gente stupefatta, curiosa, trepida davanti a quella mangiatoia vuota.
La voce del Poverello trema, raccontano i suoi biografi: sembra un belato d’agnello e ogni volta che pronuncia il nome di Gesù, si commuove fino alle lacrime.
Alla consacrazione, nella mangiatoia si manifesta la presenza di un bambino vivo.
Sta lì, e dorme, come quello di Betlemme, come tutti i bambini della terra.
Chi è? Chi l’ha posto in quel luogo? Da dove è venuto? Dove sono Maria e Giuseppe? Francesco non ha bisogno di dare risposte.
Ha già detto tutto: “Stanotte la carne dell’uomo è stata glorificata per sempre.
Il Figlio di Dio l’ha assunta, vi è nato un uomo come noi, per restarci accanto fino alla fine del tempo.
E il nostro Signore povero, figlio di Maria.
Adoriamolo”.
Si piega sulla mangiatoia e solleva tra le braccia il bambino, per mostrarlo alla gente incredula e felice.
Poi le fiaccole, i fuochi e le voci si spengono.
Ma nella teologia e nel folclore, nella pietà e nell’arte, quel rito strano e a suo modo inaudito, resterà per sempre indelebile.
Francesco con questo semplice rito, ha ricreato il Natale di Betlemme e ha “inventato” il presepio.
Ha messo in circolo, nell’arte di tutti i secoli, “il volto” di Cristo bambino, annullando la “maschera” di un Dio giudice severo e senza pietà.
Il Santo di Assisi, da profeta e poeta dell’innocenza, con il Presepio di Greccio ha riacceso e fortificato la “memoria” della natività di Betlemme, dalla quale la cristianità può recuperare innocenza e coraggio, fedeltà ed amore.
È il senso stimolante di due versi di Thomas Merton: «E finalmente io apprendo d’essere nato — oramai non più in Francia — ma a Betlemme».
(Carlo Maria MARTINI – Pietro MESSA, L’infinito in una culla.
San Francesco e la gioia del Natale, Assisi, Porziuncola, 2009, 7-13).
  Trovato neonato in una stalla   Trovato neonato in una stalla: polizia e servizi sociali indagano «Arrestati un falegname e una minorenne».
  Betlemme, Giudea   L’allarme è scattato nelle prime ore del mattino, grazie alla segnalazione di un comune cittadino che aveva scoperto una famiglia accampata in una stalla.
Al loro arrivo gli agenti di polizia, accompagnati da assistenti sociali, si sono trovati di fronte ad un neonato avvolto in uno scialle e depositato in una mangiatoia dalla madre, tale Maria H.
di Nazareth, appena quattordicenne.
Al tentativo della polizia e degli operatori sociali di far salire la madre e il bambino sui mezzi blindati delle forze dell’ordine, un uomo, successivamente identificato come Giuseppe H.
di Nazareth, ha opposto resistenza, spalleggiato da alcuni pastori e tre stranieri presenti sul posto.
Sia Giuseppe H.
che i tre stranieri, risultati sprovvisti di documenti di identificazione e permesso di soggiorno, sono stati tratti in arresto.
Il Ministero degli Interni e la Guardia di Finanza stanno indagando per scoprire il Paese di provenienza dei tre clandestini.
Secondo fonti di polizia i tre potrebbero essere degli spacciatori internazionali, dato che erano in possesso di un ingente quantitativo d’oro e di sostanze presumibilmente illecite.
Nel corso del primo interrogatorio in questura gli arrestati hanno riferito di agire in nome di Dio, per cui non si escludono legami con Al Quaeda.
Le sostanze chimiche rinvenute sono state inviate al laboratorio per le analisi.
La polizia mantiene uno stretto riserbo sul luogo in cui è stato portato il neonato.
Si prevedono indagini lunghe e difficili.
Un breve comunicato stampa dei servizi sociali, diffuso in mattinata, si limita a rilevare che il padre del bambino è un adulto di mezza età, mentre la madre è ancora adolescente.
Gli operatori si sono messi in contatto con le autorità di Nazareth per scoprire quale sia il rapporto tra i due.
Nel frattempo Maria H.
è stata ricoverata presso l’ospedale di Betlemme e sottoposta a visite cliniche e psichiatriche.
Sul suo capo pende l’accusa di maltrattamento e tentativo di abbandono di minore.
  (Dario Guerini, in <http://www.facebook.com/notes/dario-guerini/buon-natale/190558089997>, 10 dicembre 2009).
    «Sia questo per voi il segno; troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia» (Lc 2, 12).
Fissiamo l’attenzione su alcuni punti.
 I pastori Un primo spunto di riflessione è offerto proprio dai destinatari del messaggio dell’angelo del Natale: i pastori.
Essi vengono privilegiati da questa primizia di annuncio non tanto perché poveri – come sempre abbiamo pensato -, quanto perché ritenuti inaffidabili, abituati com’erano a non andare troppo per il sottile nella distinzione tra il proprio e l’altrui.
Inadatti alla testimonianza come i pubblicani e gli esattori delle tasse, sono, però, credibili per Dio, che sceglie i disprezzati e li giudica idonei ad accogliere una straordinaria rivelazione.
Ed ecco delinearsi una prima indicazione per noi, figli fedeli della casa paterna: Dio non richiede credenziali ne affida le verità che lo riguardano a chi esibisce il certificato di buona condotta.
Nelle nostre comunità hanno peso le parole di coloro che hanno l’unica colpa di non essere nessuno? Che non sanno parlare perché non c’è stato mai chi ha tentato di ascoltarli? Quanto risuonano in chiesa le voci della piazza, accanto al gregoriano? Quanto sono credibili per noi le verità testimoniate da chi è al di fuori della nostra cerchia, della confraternita a cui apparteniamo, della sacrestia che frequentiamo?   L’angelo del Natale Un secondo spunto viene offerto dal messaggio.
Contiene una promessa, indicata da un verbo di movimento: «Troverete» (Lc 2,12).
Il trovare presuppone una ricerca, un cammino, un esodo.
Per i pastori si trattò solo di abbandonare i fuochi del bivacco e le capanne di fronde erette a difesa dalle intemperie.
Per noi le partenze sono molto più laceranti: ci viene chiesto di abbandonare i recinti delle nostre sicurezze, i calcoli delle nostre prudenze, il patrimonio culturale di cui siamo solerti conservatori.
È un viaggio lungo e faticoso, quasi un salto nel buio.
Si tratta infatti di ripercorrere, a ritroso, secoli e secoli di storia; di rileggere, con occhi diversi, le varie tappe della civiltà, per ritrovare le origini del cristianesimo nella grotta di Betlemme.
E non è detto che la meta della nostra ricerca sia un Dio glorioso.
Ci vengono garantiti solo dei segni: un bambino, le fasce, la mangiatoia: i segni della debolezza, del nascimento e della povertà di Dio.
Un bambino inerme.
Simbolo di chi non può vantare alcuna prestazione.
Di chi può solo mostrare, piangendo, la propria indigenza.
A questo punto il discorso sulla debolezza di i Dio, più che assumere le cadenze del moralismo (tale, cioè, da spingerci ad amare i deboli, gli indifesi, i non garantiti), dovrebbe stimolare la riflessione teologica sul perché Dio ha deciso di spiazzare tutti manifestando la sua gloria nei segni del non-potere, della non-violenza.
  La veste del bambino Le fasce sono simbolo del nascondimento di Dio, velano la sua presenza perché la sua luce non ciechi i nostri occhi.
Saranno ritrovate nel sepolcro, per terra, quando lui, il Signore, avrà sconfitto la morte e dichiarato abolite tutte le croci.
Ma da quando Maria le ha utilizzate per la prima volta quella notte, suo Figlio non ha mai smesso di riutilizzarle.
Ancora oggi continua a giacere avvolto in fasce.
Qui, se per poco ci mettiamo a «sbendare», le coperte s’infittiscono paurosamente: migliaia di volti spauriti a cui nessuno ha mai sorriso; membra sofferenti che nessuno ha accarezzato; lacrime mai asciugate; solitudini mai riempite; porte a cui mai nessuno ha bussato.
E si potrebbe continuare all’infinito, in un interminabile rosario di sofferenze.
È qui che Dio continua a vivere da clandestino.
A noi il compito di cercarlo; di cominciare a bazzicare certi ambienti non troppo piacevoli; di lasciarci ferire dall’oppressione dei poveri, prima di cantare le nenie natalizie davanti al presepio.
Guardare oltre le fasce, riconoscere un volto, trovare trasparenze perdute, coltivare sogni innocenti: non è un andare incontro alla felicità?   La culla del neonato La mangiatoia è il simbolo della povertà di tutti i tempi; vertice, insieme alla croce, della carriera rovesciata di Dio che non trova posto quaggiù.
È inutile cercarlo nei prestigiosi palazzi del potere dove si decidono le sorti dell’umanità: non è lì.
È vicino di tenda dei senza-casa, dei senza-patria, di tutti coloro che la nostra durezza di cuore classifica come intrusi, estranei, abusivi.
La mangiatoia è però anche il simbolo del nostro rifiuto «È venuto nella sua casa, ma i suoi non lo hanno accolto» (Gv 1, 11).
È l’epigrafe della nostra non accoglienza.
La greppia di Betlemme interpella, in ultima analisi, la nostra libertà.
Gesù non compie mai violazioni di domicilio: bussa e chiede ospitalità in punta di piedi.
Possiamo chiudergli la porta in faccia.
Possiamo, cioè, condannarlo alla mangiatoia: che è un atteggiamento gravissimo nei confronti di Dio.
Sì, è molto meno grave condannare alla croce, che condannare alla mangiatoia.
Se però gli apriremo con cordialità la nostra casa e non rifiuteremo la sua inquietante presenza ha da offrirci qualcosa di straordinario: il senso della vita, il gusto dell’essenziale, il sapore delle cose semplici, la gioia del servizio, lo stupore della vera libertà, la voglia dell’impegno.
Lui solo può restituire al nostro cuore, indurito dalle amarezze e dalle delusioni, rigogli di nuova speranza.
  (Don Tonino Bello, Avvento.
Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 79-84).
Che cosa significa “tempo compiuto” o “vita compiuta”       I mistici hanno riflettuto su questo concetto della pienezza del tempo.
Per Meister Eckhart il tempo è stato compiuto con l’incarnazione di Dio.
Il tempo è il luogo nel quale l’uomo diviene uno con Dio.
Se siamo uno con il Dio eterno, allora il tempo è compiuto.
Agostino riprende l’espressione di san Paolo della pienezza del tempo: “Ma quando giunse la pienezza del tempo, apparve anche colui che voleva liberarci dal tempo.
Infatti, liberati dal tempo, dovremmo giungere a quella eternità dove non c’è nessun tempo”.
Per Paolo la pienezza del tempo consiste nel fatto che Dio ha inviato suo Figlio nel mondo (Gal 4,4).
In Gesù è uno Dio e uomo, tempo ed eternità.
Se siamo in Cristo, prendiamo parte a Dio e alla sua pienezza, alla sua eternità.
(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2008, 185).
    * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo D’Avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
68.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– Don Tonino Bello, Avvento e Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.
– Carlo Maria MARTINI – Pietro MESSA, L’infinito in una culla.
San Francesco e la gioia del Natale, Assisi, Porziuncola, 2009, 7-13).
 

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