JOHN MICKLETHWAIT E ADRIAN WOOLDRIDGE, God Is Back: How the Global Revival of Faith Is Changing the World, Penguin Press, 2009, pp.
416.
Contrariamente a quello che si riteneva in Europa, Dio non è morto, anzi sta benissimo, e anche il capitalismo sta meglio di quello che pensavamo.
Infatti, dato che sarà il mercato globale a decidere dove Dio tornerà, e soprattutto quale Dio tornerà, sarà un Dio cristiano, occidentale e americano.
Questa è, in estrema sintesi, la tesi di fondo dell’ultimo libro di John Micklethwait e Adrian Wooldridge, God Is Back: How the Global Revival of Faith Is Changing the World (Penguin Press, 2009, 416 pagine).
Già autori di vari reportage, tra cui un volume sui vari volti della destra americana, la “right nation” (tradotto da Mondadori nel 2005, La destra giusta.
Storia e geografia dell’America che si sente giusta perché è di destra), i due giornalisti di punta dell’Economist dipingono un interessante panorama della “rivincita di Dio” in corso nel mondo post-11 settembre.
Di recente alcuni libri hanno annunciato una controffensiva in difesa di Dio da parte di una generazione di neo-apologisti (tra i più recenti usciti in America: Robert Wright, The Evolution of God; Karen Armstrong, The Case for God; Nicholas Wade, The Faith Instinct) che hanno lanciato una reazione al proselitismo antireligioso e populista della triade Dawkins-Harris-Hitchens.
L’appassionante God Is Back parte da una prospettiva di geopolitica delle fedi.
Micklethwait e Wooldridge non sono avvocati della tesi dello “scontro di civiltà” interpretato dai teocon americani, ma fanno propria la lezione di Samuel Huntington circa la necessità di comprendere la dimensione religiosa della politica internazionale e di elaborare una lettura politica (ed economica) delle relazioni interreligiose nel mondo globalizzato.
La prima parte del libro dipinge due vie alternative verso la modernità: la via europea e la via americana.
Di fronte ad un’Europa laicista in cui l’ateismo pubblico è la condizione richiesta ai personaggi pubblici, la storia degli Stati Uniti rappresenta l’esatto contrario, cioè una democrazia che si regge su un pilastro religioso e trascendente, cioè sulla religione, «e non mi importa quale essa sia» (per citare le parole del presidente Eisenhower).
La maggiore differenza rispetto all’Europa è che l’America si divide sull’interpretazione della religione nello spazio pubblico, più che sull’opportunità di dare alla religione uno spazio pubblico.
Ma lo scenario è in mutamento su entrambi i lati dell’Atlantico.
Se in America, dagli anni Ottanta in poi, il cristianesimo evangelical è passato da mera lobby culturale a forza politica organizzata, secondo gli autori anche in Europa si comincerà presto a sentire l’effettorimbalzo causato da una spinta migratoria in gran parte proveniente da paesi arabi e/o a maggioranza musulmana.
Ma tra Europa e America vi è ancora un evidente “God gap”, una fondamentale differenza nella percezione del ruolo della religione in politica: questa differenza è impersonata dal tentativo di alfabetizzazione teologica del neo-cattolico Tony Blair, un tentativo finora malriuscito e incompreso da entrambe le parti dell’Atlantico (il suo corso su “fede e globalizzazione” a Yale ha sollevato critiche per l’ignoranza dell’ex premier inglese circa concetti-base della “teologia pubblica” che avrebbe dovuto insegnare).
La storia recente degli Stati Uniti è testimone del gap.
La lunga campagna elettorale per le presidenziali del 2008 si era risolta a favore di Obama anche grazie alle sua capacità di “outgodding”, cioè di articolare meglio la questione religiosa rispetto agli altri candidati: meglio sia di Hillary Clinton (che tentò di usare in modo cinico il caso del reverendo Wright), sia di John McCain (che, intervistato, non era certo di sapere a quale chiesa appartenesse).
Però la vittoria di Obama non significa la fine delle “culture wars” attorno alla questione religiosa in America: ne è testimone il caso di Sarah Palin, «la più radicata nella subcultura evangelical di qualsiasi altro candidato alla Casa Bianca» (p.
124).
Quanto a “cultural warrior”, per gli autori di God Is Back «quello con la maggiore esperienza nel campo conservatore è la Chiesa cattolica (…) il cui appetito per la battaglia culturale è aumentato in modo visibile sotto Giovanni Paolo II» (p.
347).
Ma se la lotta all’aborto sembra essere il campo di battaglia preferito dei cattolici, il nuovo evangelicalismo americano (quello del pastore Rick Warren) si è aperto alle questioni della povertà, dell’immigrazione, della solidarietà internazionale, dell’ambientalismo.
Grazie alla formidabile spinta missionaria del cristianesimo di matrice evangelicale e pentecostale in tutti i continenti, il cristianesimo è in ripresa, e gli autori riconoscono l’esistenza di diverse aree di tensione politico-religiosa sull’atlante mondiale: l’Africa centrale, India e Pakistan, la Cina.
Tuttavia è tra Europa, America e islam che si deciderà la lotta.
Per i due autori è assai più verosimile che l’Europa si avvicini al modello americano piuttosto che una secolarizzazione della politica americana.
Tuttavia, è la maggiore capacità degli americani di gestire il “God business”, il marketing di Dio, che spinge Micklethwait e Wooldridge a vedere l’America come il mercato trainante nella concorrenza tra cristianesimo e islam: «L’America contribuisce al revival religioso globale da due lati: come maggior esportatore mondiale di religione e come maggior fornitore mondiale di quel capitalismo che aumenta la domanda di religione.
Gli americani stanno esportando oppio e allo stesso tempo stimolando la domanda di oppiacei» (p.
244).
Al contrario della cultura politica europea, l’Economist non ha dimenticato né la lunga durata della “politica di Dio” né la lezione di Marx sui rapporti tra economia, politica e religione.
Tocca agli europei decidere se è ragionevole lasciare che di “religione e politica” si occupino i chierici e i manager.
Il marketing delle religioni di Massimo Faggioli in “Europa” del 16 dicembre 2009
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