III Domenica di Avvento anno C

III DOMENICA DI AVVENTO   Lectio Anno c     Prima lettura: Sofonia 3,14-18          Rallègrati, figlia di Sion, grida di gioia, Israele, esulta e acclama con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme! Il Signore ha revocato la tua condanna, ha disperso il tuo nemico.
Re d’Israele è il Signore in mezzo a te, tu non temerai più alcuna sventura.
In quel giorno si dirà a Gerusalemme: «Non temere, Sion, non lasciarti cadere le braccia! Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te è un salvatore potente.
Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia».
    v  La prima lettura dà il là di intonazione alla liturgia odierna, invitando alla gioia.
Letta in connessione con il Vangelo, la ragione sta nella venuta del Messia, quella storica che riviviamo nel Natale, quella teologica che si attua nella vita veramente cristiana di ogni credente.
     Due minuscole unità compongono il presente brano: un invito alla gioia (vv.
14-15) e una parola di consolazione (vv.
16-18).
Le due parti hanno un comune fondamento, dato dalla presenza di Dio.
Egli non si mostra più giudice, ma amore.
Egli è ciò che il suo Nome esprime: JHWH, il Dio verace, il Dio presente, il Dio salvatore.
Per contestualizzare il brano e capire la sua esplosione festosa, occorre sapere che su Gerusalemme si era abbattuto minaccioso il giudizio divino.
I nemici erano lo strumento nelle mani della divina giustizia per mostrare la scissione avvenuta tra Dio e il suo popolo.
Ora, grazie anche alla predicazione profetica, era venuta una salutare reazione da parte del popolo, pronto alla conversione.
Il profeta gli annuncia: «Il Signore ha revocato la tua condanna, ha disperso il tuo nemico» (v.
75).
In termini più positivi, il Signore sta in mezzo al suo popolo, segno di una comunione ritrovata.
L’alleanza ha ripreso a palpitare, respirando con i due polmoni, quello di Dio e quello del popolo.
Qui sta primariamente la fonte della gioia, affidata al giubileo del v.
14, di cui risuona una eco nell’annuncio dell’angelo a Maria (cf.
Lc 1,28: da tradurre con «rallegrati» e non con il bolso «ti saluto»).
   L’idea del Dio in mezzo al suo popolo anima pure il brano consolatorio (vv.
16-18).
«In quel giorno» rimanda ad una situazione non facilmente definibile nel tempo, ma non per questo ipotetica.
Il suo carattere escatologico la colloca tra i grandi interventi di Dio, che prenderanno piena forma nel NT.
Dio ha sospeso il giudizio di condanna contro il suo popolo traditore: egli lo vuole salvare, solo in forza dell’incommensurabile amore verso di esso.
Lui si presenta re di Israele, e pure domina su tutti i popoli della terra.
Non si è ancora totalmente manifestata la sua potenza regale, ma l’imminente manifestazione della salvezza diventa segno, inizio e condizione di una signoria completa.
    Anche se il presente risulta difficile, chi ripone la propria fiducia nella potenza di Dio salvatore non deve temere nulla.
Di più, può contare sull’amore di Dio che rinnova e che invita alla festa (cf.
v.
18).
  Seconda: Filippesi 4,4-7          Fratelli, siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti.
La vostra amabilità sia nota a tutti.
Il Signore è vicino! Non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti.  E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù.
       v Il brano si trova nella parte conclusiva della lettera, quando è il momento delle ultime raccomandazioni, e contiene cinque frizzanti imperativi.
La scelta liturgica si spiega per il binomio gioia-vicinanza del Signore: l’invito alla gioia e l’esortazione a compiere il bene verso tutti sono motivati da Paolo con la frase che il Signore è vicino.
    Il discorso si allarga dai singoli (cf.
i precedenti vv.
2-3) alla comunità.
Questa riceve l’esortazione alla gioia, tema che attraversa tutta la lettera.
Mentre prima erano individuati motivi concreti che causavano la gioia (cf.
1,18; 2,17-18), ora l’appello è generale e insistito.
La gioia ha tre aspetti: una radice interiore, un’espressione esterna e una causa ben precisa.
La radice è il Signore: sempre si tratta di gioia in Lui («rallegratevi nel Signore»), per distinguerla nettamente da realtà che portano lo stesso nome ma che hanno contenuto diverso: qui Paolo si preoccupa di bloccare le imitazioni.
La gioia che invade l’intimo dell’individuo e della comunità, investe pure l’esterno, tutti gli altri, sotto forma di «affabilità».
Infine viene indicata la causa, consistente nell’avvicinarsi del Signore.
Questa precisazione orienta e determina il contenuto della gioia cristiana; è la presenza di Cristo che garantisce e assicura una condizione di benessere per sé e per gli altri: «L’attesa della parusia è per l’apostolo un motivo parenetico centrale» (J.
Ernst).
    La vicinanza del Signore, già reale presenza per molti aspetti, funge da deterrente contro ansie incontrollate: chi lascia operare nella propria vita la semplice parola ‘il Signore è vicino’, esperimenta già ora la pace di Dio.
Paolo non pensa tanto alla pace tra gli uomini, ma alla calma interiore del cuore, che ha il suo fondamento nelle promesse di Dio.
Il cri-stiano che organizza la propria esistenza alla luce di Cristo, non si lascia irretire da lacci che frenano il suo impegno o che smorzano la sua serenità di fondo.
Anche sotto questo punto si comprende il precedente invito alla gioia.
Paolo non fa mistero circa le reali e spesso dure difficoltà dell’esistenza cristiana ed è già stato chiaro, alludendo fin dall’inizio alle sue catene (cf.
1,13).
Ma è altrettanto convinto che non giova lasciarsi prendere da ansiose inquietudini (cf.
in greco il verbo merimnao, lo stesso di Mt 6,25.31.34) che bloccano e rendono improduttivi; positivamente, tutto prende senso e valore nella comunione con Cristo/Dio di cui la «pace» del v.
7 è la sacramentalizzazione.
La fiducia in Dio si concretizza nel manifestare a Lui la nostra situazione, attraverso «preghiere, suppliche e ringraziamenti».
Non è certo un ‘far conoscere’ qualcosa che non sa, ma è il modo per l’uomo di mantenere il filo diretto con Dio, nel dialogo di amore, nel sereno abbandono alla Sua volontà, nella fiduciosa attesa davanti a Lui.
Colui che è capace di pregare e di ringraziare depone il suo affanno in Dio.
    Potrebbero sembrare belle parole di circostanza, se non venissero dalla vita stessa di Paolo che ha dimostrato di leggere tutto, persecuzione compresa, con gli occhi illuminati dalla luce della Provvidenza (cf.
1,15-20).
Paolo si trova in prigione quando scrive la presente lettera.
Egli pensa alla sua comunità di Filippi e pensa altresì a Cristo che ha sempre riempito la sua vita.
Egli pensa al ritorno di Cristo, mediante la morte che può giungere da un momento all’altro.
Paolo ha detto il suo sì anche a questa situazione estrema e rimane un uomo felice pur nella catena e nella incertezza del suo futuro.
L’incontro con Cristo trasforma in aurora di vita quello che, umanamente parlando, ha il sapore crepuscolare del fallimento o della repentina conclusione.
  Vangelo: Luca 3,10-18        In quel tempo, le folle interrogavano Giovanni, dicendo: «Che cosa dobbiamo fare?».
Rispondeva loro: «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto».
Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?».
Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato».
Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi, che cosa dobbiamo fare?».
Rispose loro: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe».
Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali.
Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco.
Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».
Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo.
       Esegesi      Nei versetti che precedono il nostro brano avevamo assistito a un vigoroso appello alla conversione, non privo di toni forti, tipici della personalità e del messaggio del Battista.
Ora il tono in parte si smorza, senza perdere vigore, e trapassa nella consolante esortazione che tutti possono concorrere a preparare degnamente la venuta del Messia.
    Il brano ha un marcato carattere esortativo.
Distinguiamo una prima parte (vv.
10-14), in cui Giovanni sollecita tre gruppi a comportarsi correttamente, da una seconda (vv.
15-17), con la testimonianza che il Precursore dà su Gesù, esortando implicitamente a seguirlo.
Il v.
18 mantiene una funzione conclusiva e sembra pure un passaggio del testimone da Giovanni a Gesù, grazie al verbo ‘evangelizzare’ («annunciava la buona novella»).
    Giovanni svolge una duplice attività: predica e battezza.
La prima è funzionale alla seconda, in quanto le sue parole devono portare le persone al pentimento.
Segno visibile di quella volontà di cambiare vita è l’acqua che i pellegrini ricevono dal Battista.
Non si tratta certo di battesimo in senso cristiano, ma comunque di ‘battesimo’, se prendiamo la parola nel suo significato etimologico di ‘immersione’.
Il battesimo-sacramento sarà possibile solo dopo la morte e risurrezione di Gesù; per il momento ci si prepara ricevendo il battesimo di Giovanni.
Esso è molto più di un semplice gesto esteriore perché implica la buona volontà di migliorare la propria esistenza alla luce della predicazione.
Non basta una decisione interiore di cambiar vita: occorre vedere anche all’esterno la novità.
Da qui l’esigenza di assumere comportamenti concreti che si indirizzano secondo le indicazioni del Battista che ha il primario compito di «dare al suo popolo la conoscenza della salvezza» (Lc 1,77).
    Nella esemplificazione dei comportamenti da tenere, passiamo a un nuovo registro dove impressiona il calore di una comprensione che apre le porte a tutti.
Non è certo ‘indulgenza’ del predicatore, ma coerenza con il messaggio che egli annuncia: un messaggio che vuole raggiungere tutti indistintamente, superando le antiche barriere che creavano steccati e divisioni: non solo tra popolo eletto e altre nazioni, ma pure all’interno degli stessi ebrei.
Incontriamo una pacata istruzione che ha tutta l’aria di essere un minicatechismo oppure un vademecum di teologia e di saggezza, di comprensione e di incoraggiamento.
Luca lascia trasparire anche qui la sua sensibilità universalista («le folle interrogavano Giovanni») Se ha una preferenza, questa va tutta per gli emarginati.
    Infatti mette sul palcoscenico del suo interesse le categorie che noi diremmo ‘a rischio’: odiati esattori di tasse che collaboravano con l’occupante romano e che spesso calcavano la mano sulla povera gente diventando autentici strozzini (cf.
5,30; 19,7), oppure soldati mercenari che facevano il gioco dei potenti.
La salvezza non ha ‘colore’ o ‘tessera di appartenenza’ come qualcuno amava, e qualche volta anche oggi ama, far credere.
La salvezza è dono di Dio, quindi espressione della gratuità del suo amore che, in quanto tale, non ha ‘corsie privilegiate’.
Tutti sono potenziali destinatari di tale dono e lo saranno effettivamente nella misura in cui si apriranno nella disponibilità della loro vita.
È a questa apertura che punta Giovanni, invitando e sollecitando tutti.
I segni di rinnovamento vertono esclusivamente sull’amore al prossimo: la gente deve imparare a condividere, i pubblicani a praticare la giustizia, i soldati a trattare con umanità.
     Oltre alla universalità, altro dato interessante per entrare nella sfera della salvezza è la normalità.
Non sono richiesti miracoli né atteggiamenti di eccezione per fruire del dono della salvezza: solo il corretto esercizio della propria professione.
È come dire che le persone si santificano nel tessuto della loro storia quotidiana, facendo bene quello che devono.
Viene valorizzata al massimo una ‘sana laicità’ intendendo per laicità l’inserimento nel tessuto della storia.
A meno che si tratti di un’attività manifestamente disonesta (per esempio il furto o la prostituzione), tutte le professioni hanno una dignità che va onorata con il proprio impegno.
Giovanni non richiede a nessuno di cambiare mestiere, esige piuttosto di vivere bene la propria vocazione.
Ottima preparazione per attendere degnamente il Messia.
     Di Lui Giovanni parla con vigore, alzando le note nel rigo della sua testimonianza.
Compito di Giovanni è solo preparatorio, preparare «un popolo ben disposto» (Lc 1,17).
Egli prepara la strada a chi viene dopo di lui, al Messia.
Egli si dimostra ben vaccinato contro il virus da protagonismo e dichiara apertamente di non essere il Messia.
Questi gode di una dignità che non ha confronto.
Essa viene espressa negativamente con la distinzione tra i due, e positivamente per il contenuto della missione di Gesù.
La distanza abissale che separa Giovanni dal Messia viene affidata dapprima all’immagine dello sciogliere i lacci dei sandali.
Era questo il compito riservato abitualmente allo schiavo.
Giovanni non si ritiene nemmeno degno di essere lo schiavo del Messia.
Quindi la sostanza arriva nei versetti successivi che conservano un colorito palestinese e aprono a una prospettiva escatologica.
Prendendo lo spunto dalla pratica del contadino che sull’aia utilizzava il ventilabro (attrezzo di legno a forma di pala con il quale si gettava in aria il grano: questo, più pesante, cadeva a terra e la pula era portata via dal vento) per separare il grano dalla pula, Giovanni presenta Gesù come ‘il giudizio di Dio’, colui che distingue e che determina.
In termini semplificati: è Gesù l’elemento discriminante e decisivo, colui per il quale occorre impegnarsi se si vuole raggiungere la salvezza; il rifiuto di Gesù equivale al rifiuto della salvezza.
  Meditazione      Nel nostro cammino di attesa dell’avvento del Signore Gesù, siamo ancora accompagnati, in questa terza domenica, dalla figura di Giovanni il Battista e dalla sua parola.
Quest’uomo austero e senza compromessi, che ha scelto il deserto arido come sua dimora perché si rivelasse in tutta sua forza l’unica parola che è capace di rendere feconda la vita dell’uomo, continua a parlare anche a noi, ad invitarci a preparare nelle nostre esistenze, nel nostro cuore, la via del Signore perché possiamo vedere la sua salvezza.
Afferrato dalla parola di Dio che è scesa su di lui nel deserto per consacrarlo ad esser profeta del Messia, Giovanni ha sentito con forza tutta la radicalità e l’urgenza di una scelta che sia unicamente per il Signore.
E con toni forti e taglienti l’ha proclamata perché ogni uomo potesse prenderne coscienza: la parola infuocata che esce dalle labbra del Battista mette a confronto l’uomo con l’imminente giudizio di Dio e non lascia spazio a compromessi e ipocrisie.
A coloro che andavano a fasi battezzare, Giovanni dice: «Razza di vipere, chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate dunque frutti degni della conversione…
La scure è posta alla radice degli alberi, perciò ogni albero che non da buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco» (Lc 3,7-9).
Dio è ‘Colui che viene’, colui che è immediatamente ‘vicino’ e che chiama l’uomo all’ultima presa di coscienza seria e responsabile.
Di fronte a Lui non c’è possibilità di scampo, né in un rito rassicurante (il battesimo) , né nella presunzione di possedere già la salvezza («non cominciate a dire fra voi: Abbiamo Abramo per padre…»: cfr.
8).
Non è possibile mascherarsi dietro un rito, svuotandolo del suo contenuto; il battesimo ricevuto, per inverarsi, deve avere come conseguenza un mutamento di vita.
     L’attesa del Messia che Giovanni annuncia è infuocata e certamente ciascuno sente il timore di incontrare il volto di giustizia di Colui che viene a portare la salvezza.
La radicalità di questa parola profetica, d’altra parte, contrasta con l’annuncio di gioia che questa terza domenica di Avvento ci invita ad accogliere (e forse per questo i vv.
7-9 di Lc 3 sono stati omessi nella lettura liturgica).
Le parole di consolazione che risuonano nell’annuncio del profeta Sofonia aprono il cuore di Gerusalemme alla gioia, accogliendo il Signore che viene: «…il tuo Dio in mezzo a te è un salvatore potente.
Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia» (Sof 3,17).
E anche per Paolo l’imminente venuta del Signore non può produrre altro che gioia nel cuore del credente: «Siate sempre lieti nel Signore…
Il Signore è vicino!» (Fil 4,4-5).
La testimonianza del Battista è così estranea a questa gioia? Quale salvezza attendeva il Battista? Che cosa pensava del Messia? Si è sbagliato? Giovanni non si è sbagliato: il Messia che ha annunciato è quello atteso, ma ogni venuta del Signore ha sempre qualcosa di imprevisto.
Giovanni era chiamato a preparare la via e dunque il suo compito era quello di richiamare l’uomo alla sua responsabilità, alla urgenza e alla serietà di una reale conversione.
E anche se l’annuncio del Precursore è veramente carico di minaccia, la meta ultima non è il castigo, bensì l’insistente richiamo alla conversione che deve concretizzarsi nei frutti degni (v.
8).
Questo è il compito di Giovanni.
Sarebbe toccato poi al Signore Gesù rivelare tutta la gioia che scaturisce dalla compassione e dal perdono di Dio per coloro che riconoscono il loro bisogno di salvezza, per i piccoli e i poveri, per gli affaticati e gli oppressi, per i pubblicani e le prostitute.
E il volto di Dio che Gesù ha annunciato non è in contrasto con quello che Giovanni proclamava nel deserto; semplicemente è un volto altro, al di là e sopra ogni giustizia.
È il volto della misericordia.
Giovanni, nel profondo della sua esistenza così simile al deserto nel quale dimorava, ha avuto la grazia di intravedere, come da lontano, questo volto.
A quest’uomo così essenziale, tale visione è bastata per riempire di gioia la sua vita (cfr.
Gv 3,29) e comprendere che la parola di Dio è certamente giudizio, ma è soprattutto e prima di tutto evangelo, annuncio pieno di gioia.
E lo vediamo proprio nei versetti di Luca che seguono l’invito alla conversione (vv.
10-15).
Giovanni nel deserto predica una conversione, e lo fa con toni infuocati.
Ma tutta il suo annuncio diventa consolazione e gioiosa notizia.
Tutto è riportato alla bellezza dell’evangelo, tutto è in relazione con quella gioiosa parola di salvezza che è Gesù.
E anzitutto Giovanni orienta tutta la sua vita a quell’unica parola che salva.
La sua persona non ha importanza e la sua voce è solo prestata all’unica parola che dona salvezza: «Viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali» (v.
16).
Il tono di Giovanni allora diventa umile, pacato, pieno dello Spirito consolatore: è come un fratello maggiore che ci prende per mano e ci guida a Gesù: è lui che è il più forte, è lui l’Agnello che prende su di sé il peccato del mondo, è lui che può perdonare.
Si potrebbero porre sulle labbra di Giovanni le parole di Sofonia: «Non temere Sion, non lasciarti cadere le braccia! Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te è un salvatore potente.
Gioirà per te…» (Sof 3, 16-17).
     E coloro che, forse un po’ spaventati dalle parole dure uscite dalla bocca di Giovanni, domandano: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?» (v.
12), si sentono rivolgere una risposta profondamente semplice ed evangelica, che indica loro un cammino possibile, quotidiano, di conversione.
Giovanni non invita gli uomini a fuggire nel deserto, a rivestirsi di peli di cammello e a nutrirsi di miele selvatico e di locuste.
L’itinerario proposto dal Battista per portare frutti degni di conversione è nella linea dei profeti: il luogo della conversione è la vita in cui deve prendere forma la parola di Dio.
La solidarietà e la condivisione, la giustizia e la lealtà sono i frutti degni che maturano in una vita che ha accolto seriamente la parola di Dio.
In fondo, ciò che Giovanni propone a coloro che domandano – «che cosa dobbiamo fare?» (vv.
10.12.14) – è semplicemente calare la gioia del vangelo, la misericordia e il perdono di Dio, il suo amore, nei gesti che ogni giorno ognuno è chiamato a compiere, nel lavoro che è chiamato a svolgere, nei rapporti che deve intessere, nel mondo in cui vive.
Ognuno vedrà la salvezza di Dio se la sua vita, nelle dimensioni più semplice e quotidiane, si convertirà alla novità e alla gioia che il Messia dona con la sua venuta.
     E, in fondo, così è anche vissuto Giovanni il Battista, quest’uomo così austero e senza compromessi.
La gioia è diventata il tono profondo della sua vita.
Anche se il suo volto e la sua parola erano dure e infuocate, il suo cuore viveva costantemente immerso nella gioia.
Anzi la gioia è stato il frutto maturo della sua vita radicalmente donata e affidata alla parola di Dio, una vita per questo essenziale, dura e allo stesso tempo umile e gioiosa.
Da una parte l’umiltà di Giovanni è quasi drammatica; ma proprio per questo riesce già a camminare nella luce della gioia evangelica.
E questa umiltà trasforma la violenza e la du-rezza del suo linguaggio in consolazione ed evangelo: «Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo» (v.
18).
Quella gioia a cui oggi anche la liturgia ci invita, è stata, a dispetto di tutto, la vocazione di Giovanni.
         Preghiere e Racconti   Domenica gaudete Questa domenica, la terza del tempo di Avvento, è detta “Domenica gaudete”, “siate lieti”, perché l’antifona d’ingresso della Santa Messa riprende un’espressione di san Paolo nella Lettera ai Filippesi che così dice: “Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti”.
E subito dopo aggiunge la motivazione: “Il Signore è vicino” (Fil 4,4-5).
Ecco la ragione della gioia.
Ma che cosa significa che “il Signore è vicino”? In che senso dobbiamo intendere questa “vicinanza” di Dio? L’apostolo Paolo, scrivendo ai cristiani di Filippi, pensa evidentemente al ritorno di Cristo, e li invita a rallegrarsi perché esso è sicuro.
Tuttavia, lo stesso san Paolo, nella sua Lettera ai Tessalonicesi, avverte che nessuno può conoscere il momento della venuta del Signore (cfr 1 Ts 5,1-2) e mette in guardia da ogni allarmismo, quasi che il ritorno di Cristo fosse imminente (cfr 2 Ts 2,1-2).
Così, già allora, la Chiesa, illuminata dallo Spirito Santo, comprendeva sempre meglio che la “vicinanza” di Dio non è una questione di spazio e di tempo, bensì una questione di amore: l’amore avvicina! Il prossimo Natale verrà a ricordarci questa verità fondamentale della nostra fede e, dinanzi al Presepe, potremo assaporare la letizia cristiana, contemplando nel neonato Gesù il volto del Dio che per amore si è fatto a noi vicino.
In questa luce, è per me un vero piacere rinnovare la bella tradizione della benedizione dei “Bambinelli”, le statuette di Gesù Bambino da deporre nel presepe.
Mi rivolgo in particolare a voi, cari ragazzi e ragazze di Roma, venuti stamattina con i vostri “Bambinelli”, che ora benedico.
Vi invito a unirvi a me seguendo attentamente questa preghiera: Dio, nostro Padre, tu hai tanto amato gli uomini da mandare a noi il tuo unico Figlio Gesù, nato dalla Vergine Maria, per salvarci e ricondurci a te.
Ti preghiamo, perché con la tua benedizione queste immagini di Gesù, che sta per venire tra noi, siano, nelle nostre case, segno della tua presenza e del tuo amore.
Padre buono, dona la tua benedizione anche a noi, ai nostri genitori, alle nostre famiglie e ai nostri amici.
Apri il nostro cuore, affinché sappiamo ricevere Gesù nella gioia, fare sempre ciò che egli chiede e vederlo in tutti quelli che hanno bisogno del nostro amore.
Te lo chiediamo nel nome di Gesù, tuo amato Figlio, che viene per dare al mondo la pace.
Egli vive e regna nei secoli dei secoli.
Amen.
(Le parole del Papa, Benedetto XVI, alla recita dell’Angelus, 14-XII-2008).    Il Vangelo della gioia «Il Signore è fedele per sempre rende giustizia agli oppressi, da il pane agli affamati.
Il Signore libera i prigionieri.
Il Signore ridona la vista ai ciechi, il Signore rialza chi è caduto, il Signore ama i giusti, il Signore protegge lo straniero».
(Sal 145)   C’è una splendida invocazione con la quale chiediamo al Padre di poter accogliere, riconoscenti, il Vangelo della gioia.
Viene così indicato il tema che, con modulazioni diverse, percorre con tale insistenza i testi biblici da indurre ad enumerare i termini che appartengono alla famiglia di «santa letizia», e che risuonano continui nella liturgia.
«Rallegratevi nel Signore, ve lo ripeto: rallegratevi, il Signore è vicino» (Fil 4, 4.5).
Se l’invito alla gioia oggi è perentorio come non mai, non meno chiare sono le indicazioni che ci vengono offerte affinché si possa accogliere fruttuosamente il Vangelo della gioia.
Rischiando forse la semplificazione, potremmo individuare le condizioni di fondo, per esserne destinatari sicuri, in questi tre atteggiamenti: umiltà, fedeltà, utopia.
Se poi le categorie astratte ci risultano difficili, possiamo dire che la gioia del Natale viene accordata agli umili, agli uomini fedeli e ai sognatori.
  Umiltà Qualche finezza etimologica non guasta.
E allora è utile capire che la parola letizia ha la stessa radice di letame.
II verbo latino laetare, infatti, significa fecondare, concimare, rendere fertile.
Letame è, appunto, lo strame che rende ubertosa la terra.
E letizia è quel sentimento di ricchezza interiore che deriva dal rigoglio spirituale.
Così come lieto è un aggettivo il cui significato originario è fecondo, cioè fertile, rigoglioso.
Sembra fuori posto osservare che certi messaggi del cielo si insinuano perfino nelle radici delle parole? E appare davvero esibizione di bravura far notare che, se nei versetti dei salmi si dice «ascoltino gli umili e si rallegrino», l’abbinamento tra umiltà (espressa dal letame) e letizia non è proprio puramente casuale? E può definirsi esercitazione sterile quella che sottolinea le tante connessioni tra i poveri e il lieto annunzio che viene ad essi portato? E può essere giudicato fuori tema il riferimento a Maria, protagonista silenziosa, la quale ha dato la spiegazione di tanta esultanza in Dio suo salvatore proprio nell’umiltà della sua serva? (Lc 1, 47.48).
Ed è indugio sui versanti del moralismo facile il richiamo alla necessità di fare il vuoto dentro di sé, per farsi ricolmare di beni dal Signore? Del resto tutta quella turba di indigenti che affollano i testi biblici e che sono soccorsi da Dio e che gioiscono per liberazioni raggiunte, non ci dice forse che l’umiltà è la condizione indispensabile perché le speranze di salvezza si tramutino in realtà?   Fedeltà La gioia cristiana deriva da due fontane.
La prima è la certezza che Dio è fedele e non viene meno alle sue promesse.
Se egli ha assicurato il suo aiuto, si può star certi che non si tira più indietro.
Il nostro, insomma, è un Dio di parola.
«Il Signore è fedele per sempre»: è il grande attacco del salmo 145 il quale prosegue enumerando emblematicamente le categorie degli umili che confidano in Dio e che non resteranno delusi: dagli oppressi agli orfani, dagli affamati alle vedove, dai carcerati agli stranieri.
«Irrobustite le mani fiacche, rendete salde le ginocchia vacillanti.
Dite agli smarriti di cuore: “Coraggio! Non temete, ecco il vostro Dio: giunge la ricompensa divina”».
È il profeta Isaia (35, 3) che esorta i poveri, soprattutto nei momenti dello sconforto, a fare assegnamento sulla fedeltà del Signore.
La gioia non tarderà ad irrompere.
La seconda fontana di gioia è la fedeltà che noi dobbiamo conservare nei confronti del Signore, fino a quando egli tornerà: «Siate pazienti fino alla venuta del Signore».
Una pazienza che significa perseveranza, fiducia incrollabile e perdurante, capacità di superare la prova, attitudine alla tenacia anche nelle avversità, forza che non si affievolisce, tempra non scalfibile nel tempo.
A questo punto, non è male riflettere se alle radici di tante nostre tristezze non ci siano forse dei processi patologici di infedeltà, nonostante le mille professioni di fede, e se, di fronte a un Dio di parola, non dovremmo rivedere seriamente certe nostre strutture comportamentali, connotate dal tradimento cronico e dalla slealtà sistematica.
  Utopia «Fuggiranno tristezza e pianto» (Is 35, 10).
È la più osata battuta di Isaia.
La più incredibile.
Messa al termine di una pagina intrisa di sogni, vibra al limite dell’allucinazione: steppe che fioriscono come narcisi, deserti che risuonano di canzoni, zoppi che saltano come cervi, muti che esplodono negli urli della gioia.
Ma si tratta di intemperanze dovute a un particolare genere letterario, e che, quindi, vanno prosciugate di un abbondante tasso di assurdo perché diventino più assimilabili alle nostre logiche terra terra? O sono, invece, i primi segnali di quel mondo altro, il più vero, il cui avvento, nonostante i nostri sospiri liturgici, facciamo ancora fatica ad affrettare perché, omologati ai canoni del più gelido realismo, non percepiamo quanto sia umbratile la cosiddetta concretezza delle nostre esperienze? O sono il banco di prova del nostro gioioso abbandono alla Parola, superato felicemente il quale, Gesù ci giudicherà destinatari di quella beatitudine che è risuonata nel Vangelo: «Beato colui che non si scandalizza di me»? (Don Tonino Bello, Avvento e Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 67-72) Porto una responsabilità       Anche se come singolo non posso ottenere che tutto vada per il meglio, posso portare il mio contributo perché qualche cosa in questo mondo migliori.
Non posso sottrarmi alla responsabilità con la scusa che gli altri dominano il mondo.
Ognuno lascia una traccia in questo mondo con la sua vita.  E da queste tracce il mondo viene plasmato.
Ho la responsabilità di lasciare là dove vivo un traccia buona e feconda.
Posso e devo contribuire perché  il mondo intorno a me diventi migliore, perché in me e attraverso di me il bene diventi visibile in questo mondo.
Non posso lasciare questo compito ad altri.
Devo cominciare da me.
(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 140).
Preghiera Mi sorprende anche quest’anno la tua promessa, Signore: mentre sono in cammino con la Chiesa, per prepararmi al natale, sentire che sei tu ad aprirmi una strada per la conversione.
Mi apri una strada raggiungendomi con la tua Parola: mentre io la ascolto spesso stancamente e senza entusiasmo, tu mi ricordi che l’incontro con essa è più forte della potenza degli imperi e dei grandi di questo mondo e che trasforma anche la mia vita in storia di salvezza.
Insegnami ad ascoltare, insegnami il silenzio.
Mi apri una strada promettendo di abbattere monti e colmare valli.
Se non fosse perché lo dici tu, sarei tentato di pensare che si tratti per me di una battaglia persa in partenza: che io non smetta, Signore, di lottare contro le montagne dell’orgoglio, dell’ira, dei vizi e non mi spaventi per le lacune della mia risposta poco generosa.
Mi apri una strada indicandomi i tanti deserti che trovo intorno a me e gli spazi vuoti che la nostra carità non sa mai colmare: che io possa, Signore, fare la mia parte, senza scoraggiarmi per il tanto che non posso e non so fare.
  * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo D’Avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
68.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– Don Tonino Bello, Avvento e Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.
   

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