L’incarnazione, la modernità e la grammatica dell’uomo di Angelo Scola La fede cristiana sa che l’unica possibilità di narrare Iddio si trova nell’ascolto di quanto Egli ha voluto liberamente comunicarci.
E la comunicazione diretta dell’Invisibile ha un nome proprio, è una persona vivente: Gesù Cristo, l’Interprete di Dio.
Il Vangelo di Giovanni dice fin dall’inizio a chiare lettere: “Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Giovanni, 1, 18). In Gesù, morto e risorto, Dio ci viene incontro in quanto Dio.
Hans Urs von Balthasar ricorda che “il Dio che si immanentizza con Gesù Cristo nel mondo non si può, a partire da quest’ultimo, né costruire (Hegel), né postulare (Baio).
Viene esperito come pura “grazia” (Giovanni, 1, 14.16.17)”.
L’umanità singolare del Figlio di Dio ha reso escatologicamente presente Dio stesso nella storia attraverso la testimonianza dello Spirito Santo che apre a ogni uomo, in modo personale, l’accesso al rapporto fra il Figlio e il Padre.
È così che, alla luce della vita, passione, morte e risurrezione del Figlio incarnato si possono reperire, anche oggi, i “tratti inconfondibili” della presenza di Dio operante nella storia o almeno gli “indizi” per cui tutti possono avere notitia di Dio.
L’espressione di Balthasar è molto ardita: “Dio (…) viene esperito”.
Come è possibile che Dio venga esperito? Il teologo basilese scioglie il nodo in questi termini: “Il Verbo incarnato “è venuto nella sua proprietà” (1, 11), dunque non va semplicemente in terra straniera (come dice Karl Barth), bensì in un Paese di cui conosce la lingua: non soltanto l’aramaico galileo, ma più a fondo la lingua della creatura in quanto tale.
La logica della creatura non è straniera alla logica di Dio (…) Gesù non è una verità immaginata, ma è la pura verità, perché egli presenta nella forma mondana la spiegazione adeguata di Dio, il Padre”.
E qui Balthasar aggiunge una notazione importante: “Gesù non ha avuto bisogno (per questa spiegazione) delle imagines Trinitatis l’essere mondano come tale, la sua realtà quotidiana gliene offriva più che abbastanza”.
Dio parla di sé all’uomo “abbreviandosi nel Verbo incarnato” (Verbum abbreviatum, Origene d’Alessandria).
Per dire Dio occorre approfondire la grammatica di questa lingua della creatura assunta dal Verbo incarnato.
Grammatica che riesce a narrarci il Divino.
Così il fedele sarà in grado di confessarlo come il suo Signore e Dio, e ogni uomo, anche non credente, lo potrà riconoscere nei termini indicati da Paolo nella Lettera ai Romani (Romano Guardini).
La perenne grammatica dell’umano cui abbiamo fatto riferimento attesta anzitutto l’integralità e l’elementarità dell’esperienza umana, cioè la sua indistruttibile semplicità.
Come dice Karol Wojtyla in Persona e atto, “questa esperienza nella sua sostanziale semplicità supera qualunque incommensurabilità e qualunque complessità”.
In ossequio alla convinzione dogmatica della fede cattolica la creazione, pur ferita dal peccato originale, non si è mai corrotta fino a perdere i suoi tratti essenziali; e mai si potrà corrompere completamente.
Dio, dopo il peccato originale, non ha “scaricato” né il mondo né gli uomini.
Perciò l’occhio del credente sarà sempre attento a riconoscere e indagare i tratti tipici dell’esperienza umana che nella sua originaria semplicità costituisce la prima narrazione di Dio al “fratello uomo”.
Tale esperienza universale identifica la nostra condizione creaturale così come Dio l’ha voluta e conservata pur nel suo indebolimento per il peccato.
La sua permanenza è, di per se stessa, “testimonianza epistemologica” a Dio.
Qual è il contenuto sostanziale di questa testimonianza? La ragione stessa, con la sua capacità trascendentale di ospitare il reale intelligibile, in un nesso inscindibile con il dinamismo desiderante e insieme libero della volontà.
Questa è, dunque, l’esperienza umana integrale ed elementare colta nella sua radicalità.
La grammatica della lingua in cui comunicano il Verbo incarnato e la creatura ha però altre articolazioni essenziali.
Tra queste bisogna soffermarsi sulle tre polarità costitutive dell’unità duale dell’io.
Mi riferisco al dato antropologico essenziale che vede l’uomo uno nella dualità di anima-corpo, di uomo-donna e di individuo-società.
Anche attraverso questo dato antropologico Dio narra Se stesso e ancor più si lascia narrare nell’incontro con il “testimone fedele” (cfr.
Apocalisse, 1, 5; 3, 14), Gesù Cristo, in cui queste polarità – segnate da un insopprimibile elemento di tensione drammatica perché mettono in gioco la libertà del singolo – trovano adeguata stabilizzazione.
Non si tratta, sia ben chiaro, di un annullamento della tensione propria di tali polarità, né di un suo superamento attraverso una impossibile sintesi superiore.
Cristo scioglie l’enigma uomo ma non pre-decide il dramma del singolo (Hans Urs von Balthasar).
Ancora una volta nella manifestazione della corrispondenza, per grazia, tra l’esperienza umana nella sua semplicità originaria e l’avvenimento dell’autocomunicazione salvifica del Dio Trinità in Gesù Cristo, si illumina il percorso di tutti gli uomini.
Così, per esempio, nelle strabilianti scoperte della fisica, della biologia e delle neuroscienze a proposito della corporeità e della psichicità umana sarà sempre riconoscibile la dimensione spirituale costitutiva dell’humanum.
Il valore educativo della differenza sessuale, a sua volta, permetterà di far luce sull’importanza dell’altro e sulla sua incatturabilità; mentre nella “relazione di riconoscimento” (Francesco Botturi) risulterà più evidente il valore della socialità umana accompagnata dalla comprensione che il vero essere è relazione sostanziale con l’altro e moto di allontanamento da sé (Pavel Florenskij).
All’interno di queste relazioni buone il “linguaggio mondano” in cui si è abbreviato il Verbo incarnato risuona inoltre in modo inconfondibile nel dono dell’unità e della misericordia, tracce storicamente rilevabili della caritas di Dio nei confronti degli uomini.
Il peccato, con il suo seguito di morte, sofferenza e dolore, ha l’inconfondibile marchio della divisione fino alla scomposizione.
Il male separa e distrugge, rompe, come ha mostrato la storia del XX secolo con le sue tragiche utopie che hanno portato il buio dell’eclissi di Dio al suo grado più tenebroso (Benedetto XVI).
È perciò decisivo identificare la sostanza squisitamente divina del perdono e della misericordia, fonte unica dell’unità della persona e dell’unità fra coloro che prima erano divisi.
Analogatum princeps resta sempre il gesto di Gesù Cristo che sulla Croce offre Se stesso al Padre, nell’unità dello Spirito Santo, per riconciliare il mondo con Dio.
La nuova Alleanza, nel sangue di Gesù, riconferma la prima Alleanza di Dio con i patriarchi, con Mosè, e la porta a definitivo compimento.
Dall’interno di questo infinito gesto di misericordia, di cui il Nuovo Testamento non è che la documentazione e l’annuncio, parlano i segni che la rendono presente: dal Crocifisso fino all’azione del memoriale eucaristico (e degli altri sacramenti) e ai gesti di testimonianza vissuta nei diversi ambiti dell’umana esistenza.
Nel perdono efficace dei peccati degli uomini si può ritrovare l’unità perduta a cui tutti gli uomini in vario modo anelano, come vediamo nelle multiformi espressioni culturali e artistiche di ogni civiltà.
(©L’Osservatore Romano – 12 dicembre 2009) Anche la bruttezza (non la bruttura) può salvare il mondo di Gianfranco Ravasi “Il Signore vi parlò dal fuoco.
Voce di parole voi ascoltavate.
Nessuna figura voi vedevate: era solo una voce” (Deuteronomio, 4, 12).
“Se un pagano viene e ti dice: Mostrami la tua fede! (…) tu portalo in chiesa e mostra a lui la decorazione di cui è ornata e spiegagli la serie dei sacri quadri” (Giovanni Damasceno, PG, 95, 325).
Sono questi i due estremi antitetici di uno spettro cromatico ideale.
Esso si apre col gelido precetto aniconico del Decalogo che, sia pure per evidente apologetica anti-idolatrica, aveva intimato l’arresto all’arte sacra d’Israele: “Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra né di quanto è nelle acque sotto la terra” (Esodo, 20, 4).
Ma si è alla fine giunti all’immenso patrimonio artistico cristiano, a cui faceva cenno il cantore delle icone, san Giovanni Damasceno. L’arte è, allora, la narrazione visiva dell’esperienza dell’incontro con un volto, una parola, un’immagine veramente visibile perché incarnata.
San Paolo andrà anche oltre, completando cristologicamente e cristianamente la dottrina dell'”immagine-icona” di Dio sviluppata dal passo di Genesi, 1, 27.
Infatti, egli afferma che i cristiani, come figli adottivi di Dio, sono “predestinati a essere conformi all’immagine (eikòn) del Figlio suo, primogenito tra molti fratelli” (Romani, 8, 29).
Il cristiano è, di conseguenza, immagine dell’immagine di Dio e l’arte è l’icona dell’immagine dell’immagine, perché attraverso i vari volti umani essa ricompone il volto di Cristo che è impronta del volto divino.
Alla fine, come affermava Macario il Grande nella sua prima Omelia, “l’anima che è stata pienamente illuminata dalla bellezza indicibile della gloria luminosa del volto di Cristo, è ricolma dello Spirito Santo (…) è tutta occhio, tutta luce, tutta volto” (PG, 34, 451).
In conclusione vorremmo riservare solo un cenno a una domanda forse ingenua ma affascinante: è possibile dire qualcosa di più sul volto di Dio, attraverso l’Incarnazione, così che l’arte abbia qualche canone figurativo? Il paradosso è nel fatto che i Vangeli non ci hanno lasciato neppure un rigo sul profilo fisico di Gesù di Nazaret, neppure il “pittore” (stando alla tradizione) Luca.
Le principali strade imboccate dalla cultura cristiana sono state due e antitetiche.
Eppure entrambe hanno una loro verità.
Da un lato, a partire dal III secolo i Padri della Chiesa hanno infranto quel silenzio visivo e hanno immaginato un viso sgraziato di Cristo fondandosi sulla sua sofferenza redentrice, sulla sua passione e morte e sulla rilettura cristologica del celebre passo isaiano del quarto canto del Servo del Signore: “Non ha apparenza né bellezza per attrarre il nostro sguardo, non splendore per poterne godere” (53, 1).
Lapidario era stato Origene: “Gesù era piccolo, sgraziato, simile a un uomo da nulla”.
È un po’ sorprendente, ma a questo punto dovremmo dire che anche la bruttezza (non la bruttura) può salvare il mondo, capovolgendo il celebre e citatissimo asserto di Dostoevskij.
La logica dell’Incarnazione comprende anche la sofferenza di Dio, il corpo martoriato, i posteriora Dei, come Lutero osava definire il profilo del Cristo crocifisso.
Un volto, quindi, che riflette i visi rigati di lacrime dei fratelli e delle sorelle del “primogenito tra molti fratelli”.
In questo senso c’è un “brutto” nobile che parla di Dio e che impedisce ogni kitsch devozionale, ogni estetismo trionfalistico, ogni ottimismo di maniera.
Tuttavia, bisogna riconoscere che l’approdo ultimo della vita di Cristo non ha come data il Venerdì Santo, bensì “la domenica della vita”, per usare liberamente una locuzione hegeliana, ossia l’alba di Pasqua che è per eccellenza il definitivo “giorno del Signore” (Apocalisse, 1, 10).
Non per nulla la Prima Lettera di Giovanni definisce Dio come Luce (1, 5).
Si è, così, aperta un’altra strada figurativa che i Padri della Chiesa, a partire dal IV secolo, hanno esaltato fino a farla prevalere nella tradizione artistica successiva.
Sulla base dell’estetismo greco-romano classico, attingendo spesso alla stessa tipologia figurativa delle divinità pagane o dei filosofi dell’antichità, si è proposto un Dio bello e radioso, un Cristo apollineo, irraggiante luce come il sole, incarnazione di un altro passo sottoposto a rilettura allegorico-messianica, il Salmo 45, 3: “Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo”.
E nonostante sant’Agostino ripetesse che “noi ignoriamo totalmente quale fosse il volto” reale di Cristo, fu questa l’immagine divina vincente, ribadita in mille e mille ritratti stupendi dei tanti secoli dell’arte cristiana, ma anche nella pletora delle stucchevoli oleografie.
In realtà, entrambi questi itinerari iconografici hanno un loro valore per raffigurare il Dio biblico che è, sì, trascendente e luce, ma è anche Emmanuele, pronto a incamminarsi sui percorsi della storia e a giungere nel cuore dell’umanità col Figlio suo fatto uomo.
In questa prospettiva diventa emblematica la sintesi operata dalle varie raffigurazioni del Pantokràtor poste nelle absidi delle grandi basiliche antiche: il Cristo trionfante e glorioso appare in tutto lo splendore della sua bellezza, ma reca ben visibili in sé ancora tutte le stimmate sanguinanti della sua passione.
Dio invisibile e visibile, trascendente e vicino, glorioso e sofferente.
Ecco, l’arte, che non ha come compito solo di presentare il fenomenico ma il mistero sotteso (l’Inconnu, come diceva il poeta francese Laforgue), quando si fa religiosa, deve sempre cercare di unire in un modo armonico l’Infinito e la carne, l’Eterno e la storia, il Figlio di Dio che è Gesù di Nazaret.
(©L’Osservatore Romano – 12 dicembre 2009)
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