In un’intervista dei primi anni Ottanta, Gabriele De Rosa rievocava la sua via alla storia: la faceva risalire al periodo intorno al 1950, quando era stato redattore dello “Spettatore italiano”, la rivista di Raimondo Craveri ed Elena Croce, di cui curava – con Franco Rodano – la parte politica.
Erano i primi difficili anni della democrazia italiana, di cui stavano emergendo come veri protagonisti i grandi partiti politici di massa, eredi di tradizioni culturali e politiche che erano state di opposizione “sistemica” rispetto allo Stato liberale prefascista.
Di questo retroterra la storiografia politica dell’epoca stentava a rendersi conto e valutava quelle realtà “come fossero nati dall’oggi al domani”.
De Rosa avvertiva invece che dietro la Democrazia cristiana (Dc) si dipanava una storia di più lunga durata, che imponeva una linea di ricerca che andasse non solo al di là del Partito popolare sturziano (di solito presentato come l’antecedente prossimo), ma si spingesse oltre lo stesso Risorgimento fino al periodo della Restaurazione.
Era allora che erano nate le prime espressioni organizzate del laicato cattolico (quelle che dopo il 1870 avrebbero costituito il movimento cattolico), per lo più espressioni di un’opposizione politico-culturale alla nuova società “borghese” che stava emergendo dai postumi della rivoluzione francese.
Rispetto alla tradizionale centralità del “cattolicesimo liberale”, riproposta in quegli anni da uno studioso come Arturo Carlo Jemolo, De Rosa venne perciò privilegiando, “tra tutte le correnti del movimento cattolico, quella degli “intransigenti”, perché (…) più ricca di socialità in confronto ad altre più ideologizzate e politicizzate, come il “cattolicesimo liberale”, e perché rispondente maggiormente alla nostra sensibilità di allora”.
Socialità: bisogno cioè di andare al di là dell’individualismo liberale, di sentirsi calato in una più ampia comunità (politica, sociale, religiosa), di dare alla propria attività culturale una proiezione sociale, di collegarla a un impegno politico.
Questa socialità è stata una delle cifre più originali della personalità di De Rosa, che aiuta a spiegare il suo periplo ideologico tra la fine degli anni Trenta e il 1953-54, quando appunto pubblicò il pionieristico lavoro su L’Azione cattolica.
Storia politica dal 1874 al 1904.
Come per non pochi della sua generazione (era nato nel 1917 a Castellammare di Stabia), fu il fascismo inteso come movimento di definitiva emancipazione della nazione italiana a costituire il suo primo sistema di valori politici e come altri appartenenti alla “generazione cattolica del Littorio” conobbe anche lui un dérapage antisemita nel periodo delle leggi razziali (La rivincita di Ario, Alessandria 1938).
Ma – anche qui siamo di fronte a una vicenda non solo sua – la crisi del fascismo giovanile dovuta alle tragiche esperienze di guerra (De Rosa partecipò come ufficiale dei granatieri alla campagna in Africa settentrionale) non comportò nel giovane cattolico un recupero dell’eredità “liberale” (magari filtrata dall’esperienza popolare e dai suoi eredi che allora si apprestavano a fondare la Dc), ma la ricerca di un altro tipo di socialità: la trovò nel Partito cristiano-sociale guidato da Gerardo Bruni e poi (novembre 1944) nella Sinistra cristiana di Franco Rodano, che seguì alla fine del 1945 nell’adesione al Pci, nella collaborazione alla stampa comunista e nell’esperienza, appunto, dello “Spettatore italiano”.
La crisi di questa esperienza si consumò proprio negli anni in cui preparava il libro sull’Azione cattolica: per De Rosa, comportò il definitivo trapasso a un’attività più propriamente culturale e l’incontro con nuovi interlocutori che avrebbero poi avuto una decisiva influenza sulla sua personalità.
Innanzitutto don Giuseppe De Luca, per anni un referente del gruppo di Rodano, che lo introdusse nell’ambiente delle sue Edizioni di Storia e Letteratura, un’esperienza editoriale che allora si poneva al di là dello storicismo diffuso nella cultura italiana e riproponeva la centralità del lavoro filologico e documentario.
Fu proprio De Luca che fece il suo nome a Luigi Sturzo, che cercava un giovane studioso che facesse per lui alcune ricerche: così il 15 maggio 1954, nel convento delle suore canossiane di Roma, ebbe luogo il primo incontro fra lo storico e il sacerdote siciliano.
Quasi trent’anni dopo, De Rosa avrebbe sottolineato l’importanza di questi due preti nella sua ricerca storica anche da un altro punto di vista: essi gli avrebbero fatto sentire l’esigenza di superare progressivamente una storiografia événementielle dei fatti politico-sociali a vantaggio di “una “storia minore” di un popolo privo di grandi avvenimenti politici, ma che pure aveva avuto le sue periodizzazioni importanti sia a livello politico sia a livello sociale”: verso insomma una storia delle mentalità e dei comportamenti, che avevano contraddistinto la vita religiosa in Italia e dei quali – proprio negli studi sull’Azione cattolica – egli aveva potuto verificare i perduranti riflessi.
Sturzo (sociologo, non lo si dimentichi) lo avrebbe spinto dal politico al sociale, De Luca lo avrebbe fatto entrare nel “profondo religioso”, attingendo “i ritmi più lenti e duraturi della coscienza popolare e della vita di pietà”.
Questo passaggio avvenne alla metà degli anni Sessanta: nel 1966 pubblicava i due volumi della Storia del movimento cattolico in Italia, in cui rifondeva i suoi libri precedenti sull’Azione cattolica e sul Partito popolare.
Nello stesso anno fondava a Padova il Centro studi per la storia della Chiesa nel Veneto nell’età contemporanea, in cui avviava, fra l’altro, un’ampia ricerca sulle visite pastorali in area veneta, in cui il suo nuovo approccio ormai emergeva.
In questa storia delle strutture, delle mentalità, delle pratiche religiose, De Rosa si confrontava con suggestioni assai diverse, ma che allora in Italia erano di casa: Gramsci e le note dei Quaderni del carcere sul cattolicesimo popolare, la storiografia delle “Annales”, Lucien Febvre e Marc Bloch in particolare, l’indirizzo “sociologico” di Gabriel Le Bras.
Ma, a petto di queste indubbie presenze, la storiografia socio-religiosa di De Rosa mostra una sua originalità: non è pura storia della pietà, né della pratica religiosa e neppure storia del sociale.
Nemmeno si adatta a una storiografia meramente seriale e quantitativa.
Un elemento – si potrebbe dire – “storicistico” permane nel suo approccio, che lo induce a respingere una “storia “immobile”, che apparterrebbe alla storia di coloro che non hanno storia e che sarebbe costituita da permanenze culturali di lungo periodo” e lo fa parlare di “lenta e grandiosa processualità” come caratteristica del processo storico-religioso.
De Rosa è stato uno degli ultimi “maestri” della storiografia italiana, in cui la passione civile si è fatta lievito di ricerca storica, senza mai farla diventare lotta politica condotta con altri mezzi; l’apertura internazionale si è coniugata con un radicamento nella terra italiana, dal Veneto degli “intransigenti” ottocenteschi al Mezzogiorno delle plebi rurali; il rinnovamento metodologico non si è mai risolto in una sperimentazione fine a se stessa, ma è stato diretto all’approfondimento di temi e problemi emergenti nel concreto lavoro storico.
Come ebbe a dire un grande storico “laico” come Giuseppe Galasso, la sua vita è stata una valida testimonianza per la sua fede e per il suo mestiere.
(©L’Osservatore Romano – 9-10 dicembre 2009)
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