Dal 10 al 12 dicembre si svolge a Roma la tre giorni di studi “Dio oggi: con lui o senza di lui cambia tutto” organizzata dal Progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana.
Alcuni interventi della prima giornata La grande prostrazione della modernità di Andrea Riccardi Non si tratta di una manifestazione religiosa, ma di un convegno che vuol essere culturale prima di tutto.
Per tre giorni si discuterà del Dio della fede e della filosofia, del Dio della cultura e della bellezza, del Dio delle religioni e di quello delle scienze.
In connessione, però, con i temi dell’anima, della vita, della violenza, della musica, del libro su Dio.
Quasi un festival su Dio, un evento culturale di dialogo e di pensiero.
Trent’anni fa non sarebbe stato possibile un evento simile.
Non perché allora qualcuno lo impedisse, ma per la struttura stessa della cultura pubblica.
Allora, a molti, sembrava che i credenti fossero una razza in estinzione: la secolarizzazione, intrecciata con l’avanzata irresistibile della modernità, avrebbe ridotto le religioni a retaggio del passato o al massimo a fatto interiore e privato di taluni.
La storia correva verso l’irrilevanza di Dio.
Freud lo spiega bene in Avvenire di un’illusione del 1927: “Dobbiamo credere perché i nostri antenati remoti hanno creduto.
Ma questi nostri avi erano di gran lunga più ignoranti di noi, hanno creduto cose che oggi ci sarebbe impossibile accettare”.
La fine della fede era la vittoria sull’ignoranza.
Così, se le religioni si presentavano in un dibattito pubblico e culturale, erano protese a dimostrare la loro utilità sociale, politica, più che a parlare di Dio.
Si poteva accettare di parlare del fatto che i cristiani fossero utili, ma Dio era un affare strettamente privato.
Oggi invece si tiene un grande evento culturale per discutere di Dio e l’interesse del pubblico sembra forte.
Il mondo non è divenuto “devoto”, ma si sono aperte crepe profonde nella sicurezza che la storia scorre verso il futuro che gli è promesso.
Sono scomparse le mappe ideologiche della storia, che davano il senso di dove si era e che indicavano o promettevano il futuro.
L’uomo si sente – come dice Todorov – spaesato in un mondo dalle frontiere infinite come quelle della globalizzazione.
L’uomo spaesato, abbagliato dalla vastità degli orizzonti del nostro mondo, non più protetto dal suo angolo di visuale o da un’ideologia, soffre l’irrilevanza.
Si sono corrose le certezze dell’ateismo, che si presentavano come profezia di una umanità emancipata.
L’uomo spaesato soffre: “L’uomo – diceva il poeta Wojtyla – soffre per mancanza di visione”.
Il problema e la presenza di Dio ritornano nella storia.
Certo talvolta il problema di Dio è ridotto a una o più spiritualità, considerate necessarie per trovare equilibrio in un’esistenza difficile e senza riferimenti.
Ma si manifesta sempre più la diffusa convinzione che sia necessario interrogarsi se questo nostro mondo non abbia bisogno di Dio.
E, d’altra parte, in modo complesso, vivo e chiaro ma anche impalpabile, si sente scorrere una storia di Dio, attraverso la testimonianza di una comunità credente.
Il problema di Dio ritorna perché i credenti lo pongono, ma anche perché se lo pongono, più o meno esplicitamente, uomini e donne che soffrono per mancanza di visione.
E forse perché obbiettivamente il problema c’è ed è stato rimosso.
Con molto acume Olivier Clément si interrogava su “come assumere e capovolgere…
il nichilismo, il cinismo, più semplicemente la grande prostrazione che determina oggi il nostro mondo e che pervade noi che siamo prigionieri del nulla”.
La grande prostrazione è quella del nostro Occidente, che ha molte risorse materiali, ma che sembra aver perso energie e voglia di vivere, spaesato in una storia divenuta troppo grande.
È la fine della storia, come scriveva Fukuyama, oppure il disperdersi della storia in mille insensati rivoli di storie? Il non senso della storia interroga sulla connessione tra la storia di Dio e la storia dell’uomo e dei popoli.
E, parlando di Dio, si torna al Dio della nostra storia, della rivelazione biblica, che connette la storia dei popoli, degli uomini con quella di Dio, fino a Gesù.
Per Clément, Dio è la risposta alla grande prostrazione di un mondo che ha rinunciato a cambiare, di un uomo che ha rinunciato a orientare la storia.
“Dio oggi.
Con lui o senza di lui cambia tutto”: il dibattito di questi tre giorni è percorso dalla convinzione che parlare di Dio e credere in Dio cambia in profondità l’esistenza umana e la storia.
Sul filo di questa convinzione, interverranno molti che, in prospettive e con conclusioni diverse, si sono posti il problema di Dio.
I risultati del convegno saranno importanti, ma fin da ora è già notevole convergere su questo tema.
Anche perché non si tratta solo di un convegno di addetti ai lavori, ma di un evento a molte dimensioni, che ha già registrato l’interesse di tanti.
È il segno di una ricerca e di un movimento profondo nel nostro tempo.
Pasternak fa dire a un personaggio del Dottor Zivago.
“Qualcosa si è messo in movimento nel mondo…
la persona, la predicazione della libertà…
La vita umana personale è diventata la storia di Dio”.
Che sia possibile dire qualcosa di simile anche per questo nostro tempo? Anima e destino il ritorno di due parole tabù di Michele Lenoci Finalmente si torna a parlare dell’anima, anche in ambito filosofico e teologico, dopo che questo termine, a vari livelli e per diversi motivi, sembrava destinato a essere dimenticato o bandito: i motivi parevano tanti e certamente non privi di una qualche plausibilità.
Da un lato, il confronto con la ricerca scientifica, e in particolare con i metodi e i risultati delle neuroscienze, ha indotto a parlare della mente, la cui ammissione risultava, peraltro, già assai problematica di fronte alla pretesa di molte impostazioni fisicaliste, secondo cui la stessa mente sarebbe superflua, giacché la struttura del cervello sarebbe sufficiente a spiegare le cosiddette attività superiori degli esseri umani, come la conoscenza, i sentimenti, gli atti di volontà.
D’altro lato, sul versante più propriamente teologico, le critiche da molte parti avanzate contro il processo di ellenizzazione del cristianesimo hanno spinto a tornare a una lettura fedele al testo biblico, mirante a salvaguardarne la peculiarità linguistica e culturale, che sarebbe stata insidiata o cancellata dalla concettualizzazione greca, in particolare di ispirazione platonica: ne sarebbe risultato un dualismo nella concezione antropologica, una visione dell’anima come sostanza autonoma e separata dal corpo e una sua destinazione intrinseca all’immortalità, contro una prospettiva unitaria, più autenticamente scritturistica, in cui la dominante dinamica soteriologica ed escatologica sarebbe determinata dall’azione di Dio e l’esito finale consisterebbe nella risurrezione del corpo.
Infine, ad accrescere la diffidenza verso l’anima, anche da parte filosofica, in epoca contemporanea, si muoveva il rilievo che un tale concetto sarebbe proprio della teologia, implicherebbe un contesto di fede rivelata e sarebbe, in qualche modo, estraneo a una considerazione prettamente razionale; per caratterizzare la peculiarità dell’uomo si preferiva ricorrere alle nozioni di coscienza, sia pure incarnata, di io, di spirito o anche di persona.
Inoltre, la dimensione trascendentale talora veniva interpretata secondo una curvatura universalistica, in cui la peculiarità del singolo individuo, conoscente, agente e volente, rischiava di andare smarrita.
Di recente sono apparsi numerosi testi, di diversa impostazione e differente prospettiva, che pongono al centro l’anima, per indagarne criticamente il “destino”, cioè sia per capire se un tale concetto può resistere alle sfide lanciate dalle neuroscienze, sia per interrogarsi su ciò che attende l’uomo dopo la morte e in che senso si possa parlare di una vita futura.
Quest’ultima domanda, al di là di tante infatuazioni di marca orientaleggiante che alludono a forme possibili di reincarnazione, nella prospettiva cristiana, intende approfondire, in termini attuali e concettualmente adeguati, il tema dei novissimi, che talora appare un po’ trascurato nella riflessione teologica e nelle proposte pastorali.
Si tratta certamente di testi che hanno peso e valore assai diversi, ma sono comunque significativi, poiché rimettono al centro dell’indagine filosofica e teologica un concetto, che non solo ha avuto una storia complessa, ricca e feconda nella cultura occidentale, ma tuttora sembra rivestire un’importanza e un ruolo particolari.
Solo per alludere a un esempio, molte questioni di natura bioetica relative all’inizio e alla fine della vita, che tanto angustiano le discussioni di questi anni, possono essere meglio affrontate partendo proprio da un’adeguata concezione dell’anima e certe soluzioni o certi vincoli possono essere proposti e giustificati in modo plausibile solo facendo riferimento a una dimensione dell’uomo, la quale può rinvenire nell’anima una collocazione teoricamente soddisfacente.
Certamente alcune precisazioni sono necessarie: spesso il richiamo all’anima è servito, sia nella riflessione filosofica, sia, soprattutto, nelle mediazioni del senso comune, a veicolare una prospettiva antropologica dualistica, quasi che anima e corpo siano due sostanze separate, capaci di coesistere nell’essere umano, ma eterogenee e legate da una relazione solo esterna ed estrinseca.
In tal modo, diventa assai arduo individuare le modalità del legame tra esse e spiegare i fenomeni che attestano un’influenza reciproca; inoltre, indulgendo a una concezione cartesiana, si riserva all’anima l’intera componente spirituale dell’uomo, mentre il corpo, inteso nella sua autonomia quasi fosse una macchina, si esaurisce nell’esclusiva dimensione materiale, cosicché potrebbe legittimamente essere sottoposto a tutte le trasformazioni rese possibili dalla moderna tecnologia.
Un’interpretazione ispirata alla prospettiva di Aristotele e Tommaso, che salvaguardi anche la peculiarità e l’originalità del secondo rispetto al primo, va, invece, in un’altra direzione, che oggi trova numerosi riscontri in diverse impostazioni olistiche e sistemiche della ricerca.
Qui l’uomo è concepito come un ente strutturalmente unitario, in cui l’anima è l’unica forma, vale a dire è principio dell’essere e dell’attività complessiva, stratificata a diversi livelli gerarchicamente ordinati e connessi; e il corpo non va inteso come la materia della moderna fisica, privo di determinazioni qualitative, ma, proprio in quanto animato, come Leib, è tale solo grazie alla sua conformazione ottenuta tramite l’anima.
E tale forma, che, da un lato, è totalmente intrinseca alla corporeità, dall’altro, sporge rispetto a essa e la trascende, avendo una sua autonomia ontologica, attestata da certe particolari attività (come la conoscenza astratta e la libertà) e possedendo, poi, un destino ulteriore a quello della vita fisica.
Alcune acute riflessioni teologiche recenti vedono in una tale concezione dell’anima anche un presupposto teorico valido a rendere comprensibile la risurrezione, proprio perché garantisce l’originalità dell’uomo rispetto alla creazione e la sua disponibilità a cogliere e accogliere l’invito di Dio.
Occhio alla metafisica travestita da scienza di Giorgio Israel È perfettamente comprensibile che i passati tumultuosi rapporti tra scienza e fede – in buona sostanza il “caso Galileo” – inducano alla prudenza e al desiderio di non aprire nuovi conflitti e anzi di stabilire un terreno di concordia.
Ma spesso si dimentica che quei conflitti furono tali soprattutto per motivi d’intolleranza nei confronti del libero pensiero, mentre, nella sostanza, le posizioni di fondo che si confrontavano erano perfettamente legittime.
Il timore che nascano nuove accuse d’intolleranza – nel contesto dell’ostilità diffusa in occidente nei confronti del “proprio” pensiero religioso – non può però indurre ad accettare come “verità scientifiche” indiscutibili, da prendere per buone come tali e da “conciliare” con la fede, quelle che sono soltanto credenze metafisiche contrabbandate come fatti oggettivi sperimentalmente accertati.
Le neuroscienze contemporanee hanno aperto terreni nuovi di ricerca e permettono di approfondire tanti aspetti del funzionamento del cervello prima inaccessibili e di descrivere, in prima approssimazione, ciò che accade nel cervello quando si pensa.
Ma è assolutamente arbitrario sostenere che le neuroscienze stiano chiarendo – o addirittura abbiano chiarito – la formazione del pensiero e abbiano dissolto il concetto “metafisico-teologico” di anima in quello oggettivo-naturalistico di mente-cervello.
Al contrario, la transizione senza soluzione di continuità dalle neuroscienze alle neurofilosofie, facendo credere che le seconde siano la logica conseguenza delle prime, è indebita e rappresenta un modo inelegante di far passare per verità oggettive basate sul metodo sperimentale una vecchia metafisica materialistica che ha le sue origini nella rilettura unilaterale del cartesianesimo da parte di Lamettrie, d’Holbach, Cabanis, Hélvetius e altri.
Non a caso, anche i riduzionisti più radicali ma attenti a un approccio serio, come Jean-Pierre Changeux, si guardano dal ricorrere a terminologie del tipo “il cervello pensa”, ammettendo con Paul Ricoeur trattarsi di un vero e proprio ossimoro.
Sono ancor oggi perfettamente appropriate le parole scritte quasi un secolo fa da Henri Bergson: “È comprensibile che degli scienziati che filosofeggiano oggi sulla relazione tra fisico e psichico si schierino con l’ipotesi parallelista: i metafisici non hanno fornito loro nient’altro.
Ammetto pure che preferiscano la dottrina parallelista a tutte quelle che si potrebbero ottenere con lo stesso metodo di costruzione a priori: trovano in questa filosofia un incoraggiamento ad andare avanti.
Ma se qualcuno di loro ci verrà a dire che questa è scienza, che è l’esperienza che ci rivela un parallelismo rigoroso e completo tra vita cerebrale e mentale, ah no!, lo fermeremo e gli risponderemo: potete senz’altro, voi scienziati, sostenere questa tesi, come la sostiene il metafisico, ma non è più lo scienziato che parla in voi, è il metafisico.
Ci restituite semplicemente quel che vi abbiamo prestato.
La dottrina che ci offrite la conosciamo: esce dalle nostre botteghe, siamo noi filosofi ad averla fabbricata; ed è merce vecchia, molto vecchia.
Non per questo vale di meno, ma neppure per questo è migliore.
Datela per quel che è, e non fatela passare per un risultato della scienza, per una teoria modellata sui fatti e capace di rimodellarsi su di essi: una dottrina che ha potuto assumere, prima che si sviluppasse la nostra fisiologia e la nostra psicologia, la forma perfetta e definitiva in cui si riconosce una “costruzione metafisica”.
Una lettura intellettualmente libera delle ricerche e dei risultati delle neuroscienze contemporanee deve saper discernere criticamente i risultati oggettivi dalle indebite estrapolazioni metafisiche.
Tanto per fare un solo esempio, la dimostrazione di Changeux che, mentre una persona acquisisce l’idea che due forme geometriche diversamente poste sono congruenti mediante una rotazione, lo stesso fenomeno geometrico accade in ambito neuronale, è di grande interesse ma non costituisce – come si pretende – una dimostrazione dell’ipotesi parallelista mediante la descrizione di come si producano nel cervello le rappresentazioni.
Difatti, la rappresentazione scelta è del tutto particolare e la “dimostrazione” non contraddice, anzi è coerente con l’idea bergsoniana che gli stati cerebrali descrivano soltanto gli aspetti locomotori dell’attività mentale.
Si conferma la difficoltà di descrivere la formazione di pensieri non riconducibili a fenomeni spazio-temporali rappresentabili nei termini della spazio-temporalità matematica.
Né alcuno sa indicare come superarla se non attraverso la semplice affermazione apodittica della riducibilità di ogni aspetto della realtà a relazioni quantitative.
Ma questa è una mera ipotesi metafisica.
Il punto è che non appena si accetta l’ideologia naturalistica, non vi è più “dialogo”: la conciliazione tra scienza e fede avviene per sparizione del secondo “dialogante”.
Nessun pensiero religioso vivo può convivere con il naturalismo, che ne costituisce la negazione radicale.
Il naturalismo ha come progetto la riduzione del pensiero e dell’anima a mere manifestazioni di processi fisico-chimici.
Entro questa riduzione i temi della libertà, della finalità, della morale si dissolvono.
Ma – ripeto – opporsi risolutamente al naturalismo non significa opporsi alla scienza.
Al contrario.
Significa opporsi a qualcos’altro: alla pretesa ontologica, ovvero di costruire una scienza oggettiva dell’essere.
Questa filosofia si è impantanata nella diatriba tra dualismo e monismo che non poteva non condurre al prevalere di quest’ultimo in versione materialistica: ne fa testo la facilità con cui il cartesianesimo è stato riletto in chiave materialistica e, come tale, è stato sussunto a filosofia fondativa della scienza.
Chi ha a cuore i temi che sono al centro dell’esperienza e del pensiero religiosi non dovrebbe dialogare con le neurofilosofie, bensì, da un lato guardare alla scienza (alla neuroscienza) nei precisi confini in cui essa ha un valore indiscutibile e, dall’altro, dialogare (e far dialogare la teologia) con le filosofie che hanno tentato nel corso del Novecento di superare le aporie dei grandi sistemi ontologici.
Penso in particolare a filosofi come Bergson e Husserl che hanno affrontato questo obbiettivo, in modi assai diversi ma con una preoccupazione comune, come ha ben messo in luce Emmanuel Lévinas.
(©L’Osservatore Romano – 9-10 dicembre 2009
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