Minareti: perché l´Occidente non deve averne paura

L´esito del referendum svoltosi in Svizzera la scorsa domenica circa la costruzione di nuovi minareti è il risultato eclatante della superficialità culturale con cui le nostre società stanno affrontando uno dei fenomeni più ingenti e sfidanti del nostro tempo.
Ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi – e le analisi sociologiche e i dati statistici, insieme alla cronaca quotidiana, ce ne danno evidente documentazione – è un profondo rimescolamento delle carte per quanto concerne la relazione e la coabitazione tra i popoli, le culture, le esperienze sociali, le religioni.
Un fatto che c´è sempre stato, ma che oggi assume dei connotati inediti e pervasivi, oltre che un ritmo accelerato.
Il disagio nell´affrontare questa sfida, molto concreta e oltremodo impegnativa, è comprensibile.
Ma non lo è l´assenza, a livello pubblico, di un approfondimento e di un dialogo serio e responsabile, capace di aiutarci ad andare al di là della reattività immediata e di leggere il significato profondo di quanto accade e ci interpella, al fine d´individuare strategie culturalmente attrezzate e operativamente praticabili.
L´esito e, prima ancora, la proposizione di un referendum come quello di domenica in Svizzera denuncia in modo grave e inequivocabile quest´assenza.
E c´è solo da augurarsi che provochi quello choc salutare capace d´innescare un processo ponderato di discernimento della vera questione che è in ballo.
L´esperienza di questo referendum ci dice infatti che cosa non dobbiamo e non possiamo fare, in virtù della tradizione culturale e giuridica su cui si regge la civiltà occidentale e in riferimento all ´inedito che bussa alla nostra porta e che chiede di dar nuova forma – senza rinnegare assolutamente il positivo delle acquisizioni con fatica sin qui raggiunte – alla convivenza civile e all´assetto giuridico delle nostre società.
Innanzi tutto, non è più possibile – pena il ritorno a un passato che è improponibile – legiferare impedendo la legittima espressione pubblica delle diverse fedi religiose.
Le quali non possono in nulla derogare dalle norme fondamentali e riconosciute della società in cui si esplicano, ma che altrettanto non possono esser relegate nella sfera del privato.
È questo un guadagno irrinunciabile della civiltà occidentale, cui non è estraneo l´apporto per molti versi decisivo della fede cristiana e della cultura che ad essa s´ispira.
C´è voluto tempo e si sono combattute aspre battaglie, con chiusure e resistenze su ambedue i fronti, ma alla fine il principio secondo cui occorre dare a Dio ciò che è di Dio e a Cesare ciò che è di Cesare è diventato, per lo Stato moderno e per la Chiesa, un principio almeno formalmente inderogabile.
Tanto che il Concilio Vaticano II ha emanato una dichiarazione sulla libertà civile e sociale in materia religiosa, la Dignitatis humanae.
Dichiarazione per nulla scontata, sino a quel momento, nello stesso ambito cristiano, e che proprio per questo – al dire di Paolo VI – «resterà senza dubbio uno dei più grandi documenti di questo Concilio».
Un´altra cosa che è non solo strategicamente sbagliata, ma culturalmente del tutto inadeguata oltre che controproducente, è contrapporre rozzamente Occidente e Islam, facendo loro vestire i panni di due civiltà inconciliabili.
Certo, le differenze non mancano e sono anche rilevanti: ma la contrapposizione escludente non favorisce mai l´evoluzione dei dati positivi presenti in un dato sistema culturale e sociale.
Senza dire che l´identità sana e matura non si promuove contro quella dell´altro, chiunque egli sia, ma nella fatica di stabilire con lui il giusto rapporto.
E senza sottovalutare il fatto che una presa di posizione come quella che si è espressa nel referendum sui minareti segnala un´insuperabile contraddizione: quella di chi vuol godere di tutti i benefici della globalizzazione a livello materiale, senza aprirsi al rischio ma anche al guadagno culturale che essa può produrre.
Detto questo, si può guardare con serenità e spirito costruttivo alla delicata questione di che cosa necessitino gli atteggiamenti fondanti della nostra cultura e le regole procedurali e sostanziali della nostra convivenza per farsi capaci di apparecchiare uno spazio pubblico condiviso e accogliente.
Insomma, se, per me che sono cristiano, il campanile e il suono delle campane fanno casa e nutrono il sentimento della mia identità, perché non debbo riconoscere che il minareto e l´invito alla preghiera del muezzin fanno altrettanto per gli amici musulmani? L´essenziale è che il suono della campana e l´invito del muezzin non siano assordanti e impositivi.
Del resto, non sono stati pochi né brevi i periodi della storia passata né a tutt´oggi sono del tutto spariti i luoghi ove sinagoghe, chiese e moschee convivono pacificamente e arricchiscono le rispettive identità del dono prezioso che viene dall´altro.
Dobbiamo senz´altro essere realisticamente consapevoli che tutto ciò non è scontato né facile.
Ma è questa la frontiera culturale che dobbiamo attraversare insieme.
Aiutandoci gli uni gli altri, con apertura e insieme con rigore, a disinnescare in radice ogni forma di tentazione fondamentalista e omologatrice.
Promuovendo, di concerto con coloro – e non sono pochi – che non aderiscono a nessuna tradizione religiosa, una laicità matura che si faccia spazio propizio di dialogo e incontro, nella cornice del rispetto della dignità e dei diritti/doveri inalienabili della persona.
Senza indulgere a quel falso irenismo che mettendo sullo stesso piano tutte le convinzioni, in realtà le rende indifferenti l´una verso l´altra inibendo quell´inesausta ricerca di bene, di verità e di pace che muove la coscienza e la libertà verso orizzonti sempre più ricchi e condivisibili.
Riuscire a convivere così, nei Paesi europei così come in quelli islamici, non è, per chi aderisce a una fede religiosa, abdicare alla propria identità né sognare idealisticamente un´utopia, ma testimoniare con coerenza e senza sconti la propria apertura verso Dio e la propria responsabilità verso l´altro.
in “la Repubblica” del 3 dicembre 2009

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