Testimoni del nostro tempo: Giovanni Paolo II

Il mistero di un uomo innamorato della vita di Joaquin Navarro Valls La beatificazione di Giovanni Paolo II , ci dicono, potrebbe essere addirittura nell’autunno del prossimo anno, anche se non è ancora certo.
Non posso dire che mi abbia colpito la notizia del procedere spedito dell’iter previsto.
Cardinali e teologi della Congregazione per le cause dei santi hanno aperto il passo per il decreto sulle virtù eroiche di Karol Wojtyla.
E questa tappa rilevante mi fa tornare alla mente i tanti anni in cui ho avuto la possibilità di vedere da vicino il modo d’essere e di fare di Giovanni Paolo II, e di poter toccare con mano quello che adesso sarà sanzionato come santità.
Certamente, delle sue virtù sapremo qualcosa di esauriente quando usciranno gli atti nella loro interezza, e potremo leggere così il resoconto delle testimonianze.
Ma il ricordo personale, inevitabilmente parziale e soggettivo, si accompagna talmente tanto alle notizie relative ai talenti intellettuali e morali che ho visto presenti nella persona, che mi pare quasi impossibile non parlarne.
La ricostruzione delle virtù di Giovanni Paolo II apre la domanda fondamentale su che cosa sia stata in lui la santità.
È una domanda legittima, perché non esiste santità in generale.
Non esiste una santità cioè senza la singolarità di ogni santo, e senza le virtù normali e visibili attribuibili a qualcuno.
Il carattere individuale si mescola al lento lavoro di raffinamento che si compie in lui per tutta la vita, fino a costituire un capolavoro concreto ed esemplare, a noi non sempre del tutto chiaro e decifrabile La risposta specifica alla domanda relativa alla santità di Giovanni Paolo II direi che non si allontana molto dell’idea che la gente si è formata di lui.
Karol Wojtyla era nel privato esattamente come lo si vedeva in pubblico: un uomo innamorato, un cristiano che guardava oltre se stesso.
Perciò, non è difficile argomentare in suo favore.
La sua peculiarità personale appariva principalmente nel suo rapporto diretto con Dio.
Per questo la sua spiritualità era attraente e magnetica, quasi normalmente apostolica e costantemente convincente.
Sia che soffrisse e sia che ridesse – e delle due cose era ugualmente maestro ed allievo eccellente – egli non aveva un rapporto speculativo con una divinità distante e trascendente.
Nella sua giornata stare con Dio era la più grande passione, la più intensa priorità e, insieme, la cosa più normale del mondo.
Come affermava già San Giovanni della Croce – non a caso autore da lui sempre molto apprezzato – la relazione tra Dio e l’anima è quella di due amanti.
Dio non è un codice in cui esprimere una credenza, ma una Persona a cui credere, in cui sperare e con cui vivere un amore intenso, fedele, reciproco, per tutta la vita.
A Dio si può affidare la propria esistenza.
Ad un codice morale neanche una giornata.
Questa straordinaria concretezza, congeniale al suo modo d’essere molto diretto ed immediato, è la vera essenza della sua religiosità cristiana, della sua santità di vita.
L’architrave del castello era la vita ordinaria, interamente inserita in Dio e intensamente scandita dalla presenza di Dio.
Operativa e orante, sotto il medesimo riguardo.
In Wojtyla non vi era la minima manifestazione di manierismo e di retorica pseudo mistica.
Non c’erano nelle sue devozioni altro che il rigore della carità, la dedizione consapevole e partecipe della persona a quanto conta veramente per lei.
A Giovanni Paolo II non premeva apparire buono.
Forse avrebbe preferito – se si può parlare così, cosa di cui non sono del tutto sicuro – non esserlo piuttosto che fingere.
Benché sapesse di essere osservato dal mondo, il suo impegno costante era aprire tutto il suo cuore alle richieste che venivano direttamente da Dio.
Come ha spiegato Sant’Agostino nel De magistro «colui che viene chiamato e che insegna è Cristo che abita nell’uomo interiore».
In Wojtyla questa sicurezza non è mai venuta meno nelle tante difficoltà – e nelle tante gioie – che si è trovato ad affrontare.
Credo di aver capito realmente quale debba essere il rapporto cristiano con Gesù, quando ho visto il modo in cui egli si rivolgeva al Crocifisso, nella concreta sicurezza di un guardarsi spirituale reciproco.
Dio non era per lui l’autore distaccato di un’anima estranea e indifferente, ma una Persona che ha creato la propria persona – quella di Giovanni Paolo II; una Persona con cui poter parlare personalmente e a cui dire perfino «Alle volte non ti capisco!».
Una Persona, però, da cui non potersi – né volersi – separare, perché legata da un rapporto più intimo con l’anima di quello che ciascuno ha con se stesso.
Una volta, credendo di essere solo nella sua cappella, l’ho visto cantare mentre fissava lo sguardo sul Tabernacolo.
Non intonava, certamente, un tema liturgico, ma stornellava in polacco canzoni popolari.
Mi è venuto in mente di nuovo Sant’Agostino, il quale affermava che «cantare è pregare due volte».
Nonostante tutto, non voglio assolutamente dire che vi fosse dell’ingenuità o, peggio ancora, della ritualità banale nel rapportarsi con tale spontaneità a Dio.
Semmai, vi era concretezza e coinvolgimento anche sentimentale nella sua devozione.
Mi sembrava – almeno questo veniva alla mia mente – che in lui trasparissero, al contempo, la ricchezza intellettuale di un teologo e l’innocenza spontanea di un bambino.
Queste due dimensioni non erano due tappe distinte di un diverso cammino, ma un’unica melodia composta da suoni diversi armoniosamente fusi in un solo atteggiamento e in una sola espressione di amore.
Un lato peculiare del suo atteggiamento spirituale mi ha sempre colpito.
Giovanni Paolo II non era un ascetico moralista, e neanche un esibizionista di eroismi accessori e inutili.
Il suo modo di fare non era l’arduo itinerario apatico di uno stoico.
Le sue mortificazioni erano solo il modo stimolante ed efficace di unirsi alla passione di Gesù, di partecipare insieme a Lui alle gioie e ai dolori che chiunque ama condividere con la persona che seriamente ama nel profondo.
La sua accortezza sembrava insegnare che è meglio soffrire con Dio che rallegrarsi da solo.
Molto spesso per Giovanni Paolo II si trattava soltanto di profittare di qualche occasione offerta dalle vicende quotidiane per offrire a Dio qualche piccolo o grande sacrificio.
Rifiutare in aereo il letto preparato per lui nei lunghi viaggi intercontinentali, e dormire invece sul sedile; diminuire il cibo di un pasto, con apparente noncuranza.
Oppure, talvolta, rinunciare a bere senza dir nulla e senza dare giustificazioni, unendo pudore e rinuncia in una delicata discrezione personale, che evita strane domande impertinenti.
Il fine di tutte queste accortezze sensibili era garantire alla sua anima la perfetta unione con Cristo, la totale disponibilità ad ascoltare il richiamo interiore di Dio, assecondandone la volontà in piena libertà.
Mi è capitato, in qualche rara occasione, di trovarlo perfino disteso per terra a pregare.
Bastava guardarlo per capire che non vi era un annichilimento di se stesso davanti all’infinita maestà del Creatore, ma il forgiarsi di una sottile analogia, con la quale la grandezza della creatura diveniva tutt’uno con Dio mentre la miseria della creatura pure si univa al Creatore.
Se Egli mi si avvicina e si apre a me – sembrava dire la sua vita – è perché io possa rivolgermi a lui allo stesso modo e con la stessa confidenza.
Ecco, in Giovanni Paolo II l’amore per Dio aveva questo volto nitido, estremamente consueto ed estremamente inconsueto al tempo stesso.
Uno sguardo penetrante e profondamente cristiano, regolarmente saturo di santità.
in “la Repubblica” del 19 novembre 2009 «Non è difficile essere santi» gli diceva Jan Tyranowski, il sarto che durante la guerra insieme agli abiti cuciva in mente a quel ragazzo il catechismo.
Da lui Karol Wojtyla imparava anche i mistici, le pagine infuocate di San Giovanni della Croce e di Santa Teresa di Gesù.
Ora che anche per Giovanni Paolo II si avvicina l’aureola di Beato della Chiesa (possibile entro il 2010, dopo il riconoscimento delle virtù eroiche appena deciso dai cardinali) la domanda si pone: perché un altro papa sugli altari e perché con tanta rapidità? In un’ora di crisi dell’ecumenismo, rafforzare la figura del papa di Roma, anzi farlo oggetto di culto è una buona soluzione? La risposta che si raccoglie in Vaticano è che, prima che papa, Wojtyla era un cristiano che amava il mondo e spalancava frontiere all’umanità.
«Se potessi, farei il papa da qui» mormorò una mattina sconvolto dopo essere passato tra i corpi disfatti della Casa dei Moribondi di Madre Teresa, a Calcutta.
Un altro caso di santità al naturale, che trascende e precede gli schemi della santità canonica.
Da viva era già venerata da indù, musulmani, anche da non credenti, semplicemente per il suo amore senza misura.
Poteva valere per lei il tipo di santità che Simone Weil era pronta a riconoscere a quanti anche se atei «posseggono allo stato puro l’amore per il prossimo e l’accettazione della sventura».
Wojtyla non ebbe dubbi ad aprire a Madre Teresa la via degli altari, appena due anni dopo che era morta, invece del minimo di cinque stabiliti dalla regola.
Santi e beati a migliaia, nei 25 anni del suo regno, una facilitazione da stagione dei saldi per le anticamere dei postulanti.
Strategico il ridimensionamento sostanziale dell'”Avvocato del Diavolo” che nel vecchio processo canonico svolgeva il ruolo implacabile della Ragione.
Le critiche per l’inflazione delle corti celesti non gli mancavano, quella di Ratzinger era la meno tenera.
Gli rispose con ironia: “E’ colpa dello Spirito Santo”.
Ma non trattenne lo sdegno quando gli riferirono in Segreteria di Stato che affluivano rapporti di nunzi e di vescovi, con racconti di guarigioni e grazie ricevute per intercessione delle sue preghiere: “E’ tutta opera di Dio!” si schermì troncando il discorso.
In realtà provava fastidio – dice il cardinale Stanislao Dziwisz, suo segretario – per ogni pratica che confondesse la santità con l’eroismo sovrumano, con il miracolismo.
La sua era una santità ordinaria, fisica.
Racconta Gianfranco Svidercoschi, un giornalista che per anni lo seguì da vicino: “Gli piaceva un canto polacco, che amava cantare fin da ragazzo.
Dice: “Se vuoi seguirmi, prendi la tua croce di tutti i giorni e vieni con me a salvare il mondo in questo secolo”.
Lui si è fatto santo su quella canzone”.
La relazione di Wojtyla col Crocifisso è un capitolo biografico appassionante da attraversare.
Non è solo il rapporto con una Icona.
Quando abbraccia il crocifisso del Giubileo sull’altare della Confessione in San Pietro, la mattina dei “mea culpa”, l’icona sembra diventare di carne, sul viso già malato del papa che gli bacia le piaghe dei piedi.
E’ dalla debolezza di quella vittima che attinge la propria forza.
E’ una condivisione che passa attraverso le sue infermità, fino al Parkinson finale che incide sul suo corpo un rovesciamento drammatico.
Con una domanda che incombe sulla sua aureola: l’auto-umiliazione dei mea culpa come si accordava alla strategia spettacolare di rilancio della cristianità di regime che riempiva le piazze e massificava la missione della Chiesa? Ma il processo di santità prescinde quasi sempre dai risvolti strategici di un pontificato e limita l’analisi ai vissuti interiori.
Per cui prendono rilievo per Wojtyla le virtù private, su cui l’aneddotica raccolta dall’istruttoria canonica è traboccante.
Quando fu dimesso dopo l’attentato, disse che era grato a Dio per avergli salvato la vita, ma anche perché gli era stato concesso di “appartenere alla comunità degli ammalati”.
Durante il viaggio in Corea nel 1981 andò a visitare un lebbrosario, fece il giro a piedi del viale, passò davanti a un lebbroso che in quel momento non riuscì a trattenere fra i moncherini la bandierina e andò oltre ma per poco.
Tornò subito indietro ad abbracciare e a baciare il malato.
Ma rifuggiva dal dolorismo, ironizzava sulla retorica del “papa straziato dal destino”.
Da mistico viveva il dolore come un fattore purgatoriale.
Nell’ultima fase, persino poche ore prima di morire quel 2 aprile 2005, volle fare dal letto l’ultima “via crucis”, quando ormai l’immedesimazione tra lui e la croce sembrava compiuta, malgrado gli schiamazzi speculativi dei suoi fans.
In realtà anche l’esperienza della caducità del suo corpo aveva una proiezione pubblica sui modi del suo corpo regale, se riapriva questioni canoniche irrisolte per il governo della Chiesa, con il sistema che si inceppa se un papa precipita in condizioni psicofisiche incompatibili con la funzione.
Lui fece chiamare Francesco, il pulitore dell’appartamento papale, e non poteva altro, senza parole com’era, che porgli la mano sulla testa: “Non me la sono più lavata per una settimana”, dirà.
Di fronte al letto il quadro di un Cristo sofferente, legato con le corde.
Fece un altro gesto degli occhi e arrivò al capezzale suor Tobiana, che sapeva quel linguaggio.
L’ultima persona a cui voleva tentare di dire qualcosa era una donna: “Lasciatemi andare dal Signore” era, più che un congedo, un soffio.
La cultura cattolica e anche laica si lasciava catturare troppo facilmente in quei giorni dalla teologia del potere e della gloria.
Si preferiva eclissare la lezione di Urs von Balthasar secondo il quale lo statuto del papato è fondato sulla figura della crocifissione di Pietro con i piedi in alto: è la croce, diceva il teologo, ma una croce rovesciata, il simbolo di una umiliazione permanente, di una deficienza, anzi “il simbolo definitivo della situazione gerarchica”.
E’ emerso dall’istruttoria, e lo conferma Svidercoschi nel suo ultimo libro “Un Papa che non muore” (San Paolo editrice) che fin da ragazzo Karol pregava spesso disteso sul pavimento, facendo assumere al suo corpo la forma della croce.
Nel 1944 seminarista in clandestinità era in questa postura quando la casa venne invasa da squadre naziste alla caccia di imboscati.
Nemmeno si accorsero di lui appiattito a terra.
Fu la preghiera in quella riproduzione crocifissa a salvarlo.
Per Svidercoschi fu un trauma una sera nella cappella dell’appartamento privato, dove Wojtyla si era ritirato alla notizia del ritrovamento del corpo massacrato di don Popielusko.
In ginocchio, alle spalle del papa, aveva chiuso gli occhi anche lui per concentrarsi.
Li riaprì e ciò che vide di fronte a lui “mi privò letteralmente della preghiera” ricorda.
“Lo vedevo di spalle, curvo sul suo silenzio, sullo sfondo dell’altare.
Sapevo che era in costante dialogo con Dio.
Ma non avevo mai sentito prima di allora quanto fosse reale la sua intimità con lui.
Sprigionava una forza di attrazione cui non si poteva resistere.
Assorbiva anche le nostre modeste preghiere nella sua”.
Fu perché credeva nella forza anche politica della preghiera che riunì ad Assisi nel 1986 il primo summit delle religioni mondiali per la pace.
Gorbaciov lo ha dichiarato: ad abbattere il Muro furono anche le sue preghiere.
“Una mano ha sparato, un’altra ha deviato il colpo” era la sua spiegazione dell’attentato del 13 maggio 1981, festa della Madonna di Fatima.
E niente provava quanto la realtà trascendente fosse per lui chiave della storia e crocevia necessario della politica come la decisione di andare a Fatima un anno dopo lo sparo di Agca a conficcare la pallottola nel diadema della statua della Vergine.
Ma si assicura che prima dell’attentato egli non sapeva quasi nulla del “terzo segreto”, se ne fece portare le carte all’ospedale e solo allora comprese il senso profetico di quell’evento.
in “la Repubblica” del 19 novembre 2009

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *