In una famosa lettera a Sugero, san Bernardo parla della abbazia di San Denis come di una “fucina di Vulcano” e di una “sinagoga di Satana”, stigmatizzando la “pompa e il fasto…
un po’ troppo insolenti” che lo stesso Sugero, nominato abate nel 1122, aveva avallato nei primi tempi della sua gestione, prima della radicale riforma varata nel 1127.
Se i rapporti umani tra i due religiosi dopo la riforma divennero persino affettuosi, non si avvicinarono però le loro idee sulla architettura monastica che possono collegarsi con il diversissimo rapporto che ciascuno di essi aveva verso la natura.
Una celebre affermazione di san Bernardo riguarda i boschi “nei quali si può trovare più che nei libri” ma in realtà i cronisti contemporanei lo descrivono, come scrive Panofsky, “semplicemente cieco di fronte al mondo visibile e alla sua bellezza” e narrano di una cavalcata di un giorno intero intorno al lago di Ginevra fatta senza che il suo sguardo si rivolgesse verso il paesaggio.
Sugero al contrario rivela nei suoi scritti una grande ammirazione per la bellezza del creato, le sue luci e i suoi colori.
Questa sensibilità naturale aveva trovato uno straordinario supporto negli scritti di Dionigi l’Areopagita che egli ancora identificava con il Dionigi amico di san Paolo e nello stesso tempo con il primo vescovo di Parigi, apostolo del cristianesimo in Francia, che aveva dato il suo nome all’abbazia in cui era custodito il suo corpo.
Negli scritti di Dionigi e nelle opere di Scoto Eriugena, suo traduttore e divulgatore, Sugero aveva trovato l’antidoto al rigorismo ascetico di san Bernardo e la giustificazione per la sua naturale inclinazione a vedere nelle bellezze del creato e delle materie preziose lo specchio della bellezza divina.
“Ogni creatura – si legge nel commento di Scoto Eriugena alla Gerarchia Celeste – visibile o invisibile, è una luce portata all’essere dal Padre delle luci.
Questa pietra (…) è una luce per me poiché io percepisco che esiste secondo le sue proprie regole, che cerca il suo luogo conforme alla sua specifica gravità.
Allorché in questa pietra percepisco tali e simili cose esse diventano luci per me, in altre parole mi illuminano.
Poiché io comincio a pensare donde la pietra sia investita da tali proprietà (…) e tosto, sotto la guida della ragione sono condotto, attraverso tutte le cose a quella causa di tutto che attribuisce alle cose luogo ed ordine, numero, specie e genere, bontà e bellezza, ed essenza”, universalis huius mundi fabbrica maximum lumen fit, ex multis partibus veluti ex lucernis compactum, dalle mille piccole luci che brillano nel mondo sensibile si deduce il fulgore compatto della luce divina, dal mondo materiale si ascende a quello immateriale delle gerarchie celesti.
Nel testo greco dello PseudoDionigi, conservato nell’abbazia, Sugero poteva leggere che la nostra natura è “incapace di salire immediatamente verso le contemplazioni spirituali e necessita dei graduali passaggi verso l’alto a lei consoni e naturali” e che “avendo anche la materia ricevuto l’esistenza da chi è veramente bello, possiede secondo tutta la sua disposizione alcune tracce della bellezza spirituale; ed è possibile risalire da queste verso gli archetipi immateriali” (Gerarchia Celeste, i, 3 e 4) Questa visione, tributaria del neo-platonismo enunciata dallo pseudo Dionigi nel V secolo, è ripresa da Ugo di San Vittore, contemporaneo e amico di Sugero che con intensità poetica celebra la luce e il colore.
“Cosa c’è di più bello della luce – si chiede – che pur non avendo in sé colore, nondimeno illuminandole colora le cose di tutti i loro colori? (…) Ecco la terra ornata di fiori, che spettacolo gioioso ci mostra, come diletta la vista, come provoca amore? Vediamo le rosseggianti rose, i candidi gigli, le purpuree viole, delle quali è mirabile non solo la bellezza ma l’origine stessa (…) E bello sopra ogni cosa per ultimo il verde, in che modo rapisce l’animo del contemplante, quando a primavera le gemme producono nuova vita ed erette in alto con le loro spighe erompono nella luce, quasi innestate sopra quelle morte come immagini di futura resurrezione”.
Per Ugo la teologia mondana che si serve della natura per accedere alle realtà spirituali deve integrarsi con la teologia più propriamente divina che utilizza il simulacro del verbo e, anche in questo Sugero si dimostra in sintonia per i continui riferimenti alla Sacra Scrittura di cui tutto il suo racconto è intessuto.
L’originalità di Sugero consiste nell’aver tradotto queste riflessioni filosofiche e teologiche in un programma di azione per estendere e rinnovare la chiesa abbaziale, considerata dalla monarchia francese come chiesa madre in quanto ospite delle sepolture reali.
A essa riuscì in pochi anni ad aggiunge il nartece-facciata e un magnifico coro con due deambulatori.
Spazio e luce erano i suoi obiettivi primari: lo spazio per evitare gli assembramenti nei giorni di festa, la luce per guidare la mente dei riguardanti dall’umano al divino.
“La potenza prodigiosa – così inizia lo Scriptum Consecrationis – di una ragione unica, singolare e suprema, egualizza armonizzandola la disparità tra il divino e l’umano e le cose che sembrano tra loro in contraddizione per l’inferiorità dell’origine e l’opposizione delle loro singole nature, essa sola le unisce per il felice accordo di una armonia misurata unica e suprema”.
Che Sugero abbia utilizzato per realizzare la sua visione un architetto – o due come suppongono alcuni studiosi – non toglie nulla alla funzione determinante che egli ebbe nella scelta delle forme che potevano tradurre le sue idee, con le quali nel suo scritto dimostra di aver avuto stretta confidenza.
D’altra parte, come affermò Filarete nel suo trattato, se l’architetto è la madre della sua opera in quanto l’ha generata, essa non esisterebbe senza l’azione di un padre-committente che l’ha voluta.
La trasformazione della chiesa iniziò con la demolizione del corpo occidentale costruito da Carlo Magno e la costruzione di una nuova facciata concepita come porta urbis e porta Coeli, sul modello delle porte romane fiancheggiate da due torri.
Nel nuovo portico e nella cappella superiore Sugero sperimentò la volta ogivale in progressive forme di leggerezza e nella facciata compresa tra le torri introdusse per la prima volta il motivo glorioso della finestra centrale a forma di rosone che si diffonderà rapidamente in tutta l’Europa.
Ma è nel rinnovamento della zona absidale che l’abate riesce a esprimere compiutamente la sua visione estetica e teologica puntando sulla trasparenza e sul colore.
“Ora che la nuova parte di fondo – commenta nel suo Scriptum – si congiunge a quella anteriore, la chiesa rifulge illuminata nella sua parte mediana.
Viva luce infatti illumina ciò che luminosamente si unisce a ciò che è luminoso, e luminoso è il nuovo edificio che è profuso di luce nuova”.
Il meditato gioco di parole intorno alla claritas fa capire l’importanza che viene attribuita nella costruzione al colloquio delle parti attraverso la luce, mentre l’allusione alla lux nova allude alla carica innovativa del Nuovo Testamento mostrando chiaramente come il suo metodo anagogico – letteralmente, “che conduce in alto” – si basi sulla trasmissione al linguaggio architettonico di alcune caratteristiche del linguaggio poetico, come la similitudine, la metafora e l’allegoria.
La parte certamente costruita da Sugero nella zona absidale della chiesa – completata poi mirabilmente dall’architetto Pierre de Montreuil – è il doppio deambulatorio e la corona di cappelle che lo circonda illuminate ciascuna da finestre che fiancheggiano gli altari: “Grazie alle quali tutta la chiesa brillerà per la luce ammirevole e continua delle vetrate risplendenti che scrutano la bellezza interiore” (quo tota, clarissimarum vitrearum luce mirabili et continua interiorem perlustrante pulchritudinem eniteret).
Alcuni studiosi hanno voluto vedere nel doppio ambulatorio un riflesso della soluzione absidale di Saint Martin-des-Champs a Parigi, di qualche anno precedente, ma il confronto tra le due opere non fa che sottolineare la profonda differenza tra uno sviluppo meramente funzionalistico – le cappelle comunicanti che si aggiungono deformandosi al deambulatorio – e una idea nuova di fluidità e trasparenza che, proprio perché ispirata da una nuova sensibilità, fa esplodere letteralmente la spazialità compressa della zona absidale secondo il modello irraggiante del flusso luminoso che proviene da un unico punto.
Segno evidente, questa svolta innovatrice, del ruolo lievitante delle idee, indispensabile nutrimento della ricerca architettonica che quando diventa autoreferenziale subito si isterilisce.
La verità è che Sugero conosceva benissimo le chiese della Normandia e della Borgogna che prefiguravano il gotico, ma nella ricchezza della sua memoria con essi convivevano i ricordi di Roma, di Montecassino e l’immagine mitica di Santa Sofia, come era stata descritta da Paolo Silenziario.
L’ammirazione per la luce e il colore delle vetrate si estende alle meravigliose decorazioni immaginate dall’abate per le suppellettili liturgiche, la grande croce, il paliotto dell’altare, il tempietto dei reliquiari.
Oro, perle e pietre preziose sono considerati da Sugero materie necessarie in questi oggetti di venerazione per due ordini di ragioni.
La prima è quella di manifestare la gratitudine verso Dio per aver creato materie di suprema bellezza che innalzano il pensiero verso le bellezze spirituali, la seconda è il richiamo alla Scrittura, all’Esodo, ai Salmi, al libro di Ezechiele e all’Apocalisse di san Giovanni (che Sugero non cita ma dimostra di aver ben presente).
Oltre alle perle, le pietre scelte per il paliotto, la grande Croce e i reliquiari sono il sardonico, il topazio, lo jaspide, il crisolito, l’onice, il berillo, lo zaffiro, il carbuncolo e lo smeraldo, le stesse pietre, con poche varianti, del pettorale di Aronne o delle vesti del re di Tiro, ma anche le pietre del basamento della Gerusalemme celeste descritta nell’Apocalisse (21, 19-21): “Le fondamenta delle mura della città sono adorne di ogni sorta di pietre preziose: il primo fondamento è diaspro, il secondo zaffiro, il terzo calcedonio, il quarto smeraldo, il quinto sardonico, il sesto sardo, il settimo crisolito, l’ottavo berillo, il nono topazio, il decimo crisopraso, l’undecimo giacinto, il dodicesimo ametista.
E le dodici porte sono dodici perle”. La fede profonda che permea di sé ogni azione del monaco costruttore gli fa riconoscere l’amore provvidenziale e miracoloso del Creatore in ogni felice evento della costruzione: dal rinvenimento di una cava di pietra, a quello delle pietre preziose o degli alberi necessari per ricavarne delle travi, alla resistenza insperata delle strutture incompiute alla furia di una tempesta.
“Ma una notte, rientrato dal mattutino, cominciai a pensare a letto che io stesso avrei dovuto percorrere tutte le foreste di queste zone (…) Mi liberai in fretta da altri impegni e uscii prestissimo; ci dirigemmo rapidamente, portando con noi i nostri carpentieri e le misure delle travi, alla foresta chiamata Iveline (…) radunammo i guardaboschi e tutti quelli che conoscevano le altre foreste e chiedemmo loro sotto giuramento se fosse possibile trovare anche con grandi difficoltà, tronchi di quelle misure.
A questa domanda si misero a ridere, o meglio ci avrebbero riso in faccia se avessero osato farlo; si meravigliarono che ignorassimo che nulla del genere si poteva trovare in tutta la regione (…) Ma noi cominciammo con il coraggio della fede, per così dire, a cercare per i boschi, e dopo un’ora avevamo trovato un tronco rispondente alle misure.
Che dire di più? Dopo otto ore, o forse meno, per macchie, folti, recessi spinosi invalicabili, avevamo già contrassegnato dodici tronchi”.
La certezza di essere amato da Dio e la speranza nella sua misericordia e quindi “il coraggio della fede” accompagna il racconto in ogni riga del suo svolgimento e dà all’indubbio protagonismo del suo autore che volle il suo nome ricordato infinite volte nelle iscrizioni della chiesa, un carattere diverso dal protagonismo individualistico, tipico del nostro tempo.
La bellezza della chiesa, che definisce madre come aveva fatto Agostino, non è fine a se stessa ma si compie nella solenne bellezza del rito in cui la luce, il colore, il suono, il gesto si fondono ma che solo nella parola, nel verbo, raggiunge la pienezza.
Anche quando dirige il coro, fa da duce al gruppo degli artigiani esecutori, l’abate se ne sente parte integrante e solo nella “coralità” del popolo di Dio riconosce il suo ruolo e i suoi meriti.
“Quando – scrive Sugero – l’incanto delle pietre multicolori mi ha strappato alle cure esterne, e una degna meditazione mi ha indotto a riflettere, sulla diversità delle sacre virtù, trasferendo ciò che è materiale a ciò che è immateriale, allora mi sembra di trovarmi, per così dire, in una strana regione dell’universo che non sta del tutto chiusa nel fango della terra né è del tutto librata nella purezza del Cielo; e mi sembra che, per grazia di Dio, io possa essere trasportato da questo mondo inferiore a quello superiore per via anagogica”.
Quell’incanto delle pietre multicolori, capace di trasportare chi l’osserva in “un altro mondo”, da immagine intima e personale era destinata a tradursi, a partire dal coro di Saint-Denis, passando dalla scala della decorazione a quella dell’architettura, in una inesauribile pluralità di immagini spaziali vibranti di luce e di colore nel percorso, durato cinque secoli, dell’architettura gotica: una delle massime espressioni artistiche dell’Europa cristiana.
(©L’Osservatore Romano – 19 novembre 2009) Il dilemma se l’architettura sacra debba essere umile e spoglia o debba rispecchiare la ricchezza e lo splendore della creazione, attraversa tutta la storia della Chiesa cattolica ed è ancora oggetto di animate discussioni.
Due grandi personalità del medioevo rappresentano al più alto livello questo conflitto ideale: san Bernardo da Chiaravalle e l’abate Sugero, il primo, più giovane del secondo di nove anni, sostenitore del rigorismo che aveva ispirato l’architettura cistercense, il secondo considerato il realizzatore di un edificio, la chiesa abbaziale di Saint-Denis, nei pressi di Parigi, che si può definire il manifesto della architettura gotica.
Di umili origini, Sugero, che il padre Elinando volle donare come oblato al convento di Saint-Denis, svolse nella sua vita una quantità di ruoli diversi: l’abate, il consigliere di due re, il mediatore tra la monarchia e la Chiesa di Roma, il reggente del regno di Francia durante la seconda crociata, l’amministratore, il riformatore della vita monastica, raggiungendo in tutti – in contrasto con la piccolezza del suo corpo – una eccezionale statura.
Il ruolo tuttavia al quale deve maggiormente la sua fama è quella del committente, costruttore e cronista della sua opera, perché l’ampliamento da lui voluto della chiesa di Saint-Denis non è solo un capolavoro ma una delle opere di architettura di cui è meglio nota la genesi ideale in virtù degli scritti che Sugero stesso ci ha lasciato e in modo particolare dello Scriptum consecrationis ecclesiae sancti Dionysii di cui si conserva una copia manoscritta nella Biblioteca Apostolica Vaticana (Codice Reg.
Lat.
571.
Le citazioni dalle opere di Sugero sono tratte dai due volumi delle edizioni Les Belles Lettres, Paris 2001).
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