Quel che è di Cesare

ROSY BINDI – GIOVANNA CASADIO, Quel che è di Cesare, Laterza, Bari, 2009,  pp.127,  € 10.00 “Quel che è di Cesare” è una lunga intervista di Giovanna Casadio a Rosy Bindi, in cui la vicepresidente della Camera, incalzata dalle domande della giornalista, riflette sul rapporto tra fede, politica e religione nel tentativo di superare quel reciproco pregiudizio tra credenti e non credenti che ruota intorno al valore della laicità.
«Un pregiudizio – dice Rosy Bindi – che è tempo di archiviare, originato dal conflitto tra potere temporale e potere spirituale, che la storia ha già superato e la cui permanenza, tutta ideologica, rende più difficile affrontare le sfide della modernità.
La contrapposizione tra laici e credenti nasce da qui: i credenti sono sempre sospettati della loro laicità e i non credenti sono sempre sospettati della loro eticità».
Nel libro, edito da Laterza, Rosy Bindi racconta il suo impegno di cattolica che ha scelto la politica e va al cuore del principio di laicità.
In un colloquio franco e diretto affronta le questioni cruciali della nostra democrazia.
Scommette sul dialogo tra credenti e non credenti per superare reciproche scomuniche e afferma l’attualità del cattolicesimo democratico.
Rilancia la dimensione etica della politica come servizio e ricerca del bene comune.
Rosy Bindi, la sciabola laica e il vizio del compromesso di Michele Ainis Rosy Bindi non è donna che le mandi a dire.
Lei cattolica, che da giovane fu sul punto d’entrare in monastero, non ha mai parlato la lingua velata e un po’ allusiva della Curia.
Lei giurista, allieva di Vittorio Bachelet, ha sempre rifiutato gli alambicchi lessicali così familiari a chi maneggia codici e pandette.
Lei politica di lungo corso, e adesso fresca di nomina come presidente del Partito democratico, non ha mai amato il linguaggio involuto dei politici.
La schiettezza è una virtù evangelica («Sia il vostro dire: Sì sì, no no; il di più viene dal maligno»: Matteo 5, 37).
Ma in Italia è anche scarsamente praticata, vuoi per l’impero del politically correct, vuoi per opportunismo, per non farsi nemici.
Eppure se non sei franco – con gli altri e con te stesso – ti sarà impossibile mettere a profitto le tue relazioni con il mondo.
Perché chi canta in falsetto rifiuta a ben vedere il dialogo, si rende muto e sordo.
E invece il dialogo è sempre necessario, probabilmente oggi più di ieri.
Nelle guerre di religione che divampano su e giù lungo la penisola, nella rinnovata sfida tra guelfi e ghibellini, ciò vale innanzitutto sul fronte della laicità.
E alla laicità Rosy Bindi, intervistata da Giovanna Casadio, ha appena dedicato un libro (Quel che è di Cesare, Laterza, pp.
127, euro 10).
Lo sfogli, e incontri giudizi taglienti come altrettante sciabolate.
La posizione dell’Osservatore Romano contro la morte cerebrale? Oscurantista.
I divieti papali sull’uso della contraccezione? Già da ministro del governo Prodi, Bindi confezionò uno slogan: «Se non usi la testa, usa almeno il preservativo».
La battaglia sui Dico, creatura poi abortita di Rosy Bindi e Barbara Pollastrini? Davanti alla prospettiva di riscattare le coppie di fatto dalla clandestinità giuridica, i vescovi risposero: «Non possumus».
E lei disse a sua volta che un ministro della Repubblica italiana non è tenuto a conoscere il latino.
L’opposizione del Vaticano alla proposta – formulata in un consesso delle Nazioni Unite – di depenalizzare l’omosessualità? Una pagina triste.
Il ruolo del cardinal Ruini? Un panettiere al lavoro su due forni, destra e sinistra, che professava la «cultura dello scambio».
Inalberando la bandiera d’una Chiesa giudicante, che assolve nel confessionale e spara veti in piazza.
Non che Bindi sia diventata all’improvviso un’accanita mangiapreti.
Se è per questo, difende l’ortodossia cattolica su molte altre questioni, dall’eutanasia alla fecondazione assistita, e più in generale all’indisponibilità della vita per ogni essere vivente.
Arriva perfino a spalleggiare le pretese più mondane delle gerarchie ecclesiastiche, dall’8 per mille (un sistema «trasparente») al finanziamento delle scuole private (benché una norma costituzionale lo precluda).
Anche in questi casi usa parole nette, senza infingimenti.
Nel merito, potremo senz’altro dissentire.
Non però nel metodo: dopo tutto fu proprio il nitore delle rispettive posizioni – come ricorda Bindi – a permettere l’incontro fra laici e cattolici in Assemblea costituente.
Un miracolo che non si è poi ripetuto, nella storia della Repubblica italiana.
Qui c’è il punto cruciale di questo volumetto, però c’è anche il suo punto critico.
Perché vi si teorizza che ogni idea debba sempre stemperarsi nell’idea dell’altro, sino a forgiare un «meticciato», una contaminazione sistematica tra fede e ragione.
Ma davvero il compromesso su ogni singola questione è la nostra via d’uscita? E davvero per siglarlo dobbiamo rinunziare alla cultura del conflitto? Tuttavia quest’ultima costituisce il sale dei sistemi liberali; non per nulla la nostra Carta regola l’istituto del conflitto tra i poteri dello Stato, affidando alla Consulta ogni giudizio sulle ragioni e i torti.
D’altra parte non sempre è possibile raggiungere un’intesa.
Per esempio sul crocifisso nelle scuole: o lo espongo o non lo espongo, non posso appenderlo al muro e poi coprirlo con un velo.
Il compromesso, casomai, deriva dall’insieme, dal fatto che non tutte le decisioni soddisfino il medesimo uditorio.
Esattamente come avvenne all’atto di redigere la Costituzione, dove s’incontrano disposizioni di matrice liberale (per esempio quella sulla libertà d’impresa) accanto ad altre di marca socialista (il veto ai latifondi).
E quando viceversa i nostri padri fondatori misero il diavolo insieme all’acqua santa – come nell’art.
7 sui Patti lateranensi, che Rosy Bindi indica a modello – timbrarono «un errore logico e uno scandalo giuridico», per usare le parole di Benedetto Croce.
Oggi come allora, meglio un bisticcio di un pasticcio.
in “La Stampa” del 12 novembre 2009

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