XXXII Domenica del tempo ordinario (Anno B).

Preghiere e Racconti   L’offerta della vedova Nell’attesa dell’ora, il Figlio dell’uomo non agisce quasi più.
Si limita a guardar passare la gente: gli scribi in lunghe vesti riveriti per tutto in grazia delle loro interminabili preghiere, i fedeli che gettano i loro doni nella cassa delle offerte.
Appoggiato a una colonna, nel recinto del Tempio, Gesù si inquieta, si fa beffe dei Farisei, e al tempo stesso s’intenerisce per una vedova che offre a Dio la sua stessa indigenza.
Che vale un’elemosina che non ci priva di nulla? Forse, noi non abbiamo mai dato nulla.
(E.
MAURIAC, Vita di Gesù, Milano, Mondadori, 1950, 123-124).
Essere dono Ognuno è chiamato ad essere dio.
Ma essere dio non vuol dire  avere tutto, servirsi di ogni cosa  e di ogni uomo; non vuol dire essere un “potente” per opprimere gli altri.
Essere dio vuol dire  essere un potente che dona agli altri il suo potere; vuol dire dare un senso di eternità a ciò che ci circonda, dare speranza ai disperati, gioia a chi piange, luce a chi non vede…Vuol dire indicare Dio a chi crede che Dio non esista.
(O.
OLIVIERO, L’amore ha già vinto.
Pensieri e lettere spirituali (1977-2005), Milano 2005, 22).
Il mendicante e il re Si racconta di un abate che, quando veniva criticato, era solito scrivere il nome del monaco su un foglietto e lo metteva nel cassetto.
In tal modo si ricordava che doveva contraccambiare il giudizio poco benevolo con una cortesia.
Si narra ancora di un mendicante che un giorno s’imbattè nel re, seduto su un cocchio dorato.
Con sua meraviglia e sorpresa, il re lo guardò e gli tese la mano, chiedendo l’elemosina.
Meravigliato, il mendicante frugò nella sua bisaccia ed estrasse un chicco di riso, il più piccolo che era riuscito a trovare.
Alla sera, quando svuotò la bisaccia trovò il piccolo chicco trasformato in pepita d’oro.
Si rammaricò.
Se avesse donato tutto il suo riso, sarebbe diventato ricco.
Si privò di tutto quanto aveva per vivere «Chi usa misericordia verso il povero, presta a interesse al Signore» (Pr 19,17).
[…] Colui che presta denaro ai poveri del Signore, attende dal Signore la ricompensa della vita eterna.
Del resto, anche il beato apostolo Paolo nel suo insegnamento attesta che, tra le preoccupazioni di tutte le chiese, quella che lui ha per i poveri non è di certo la più piccola.
Dice infatti: «Soltanto ricordiamoci dei poveri, cosa che mi sono preoccupato di fare» (Gal 2,10); e in un altro passo esclama: «Niente abbiamo portato venendo in questo mondo, e niente possiamo portar via» (1Tm 6,7); e ancora: «Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto?» (2Cor4,7).
[…] Ricordiamoci anche di quella vedova che, nella sua sollecitudine per i poveri, trascurando se stessa, si privò di tutto quello che aveva per vivere, memore soltanto della vita futura, come attesta il Giudice stesso, il quale dice che altri danno del loro superfluo, essa invece, che forse era più bisognosa di molti anche tra i poveri, pur possedendo solo due monete, fu in verità più ricca nell’animo di tutti quanti i ricchi, e rivolta ai soli doni della bontà divina, avara del solo tesoro celeste, donò tutto quello che possedeva, perché tutto ciò che si raccoglie sulla terra alla terra deve tornare.
Essa gettò nel tesoro del tempio quello che aveva per possedere ciò che non aveva ancora visto; vi gettò i beni destinati alla corruzione per procurarsi quelli immortali.
Quella povera donna non disprezzò il giudizio disposto e ordinato da Dio per essere accolti da lui quando ritornerà.
Per questo colui che tutto dispone e il Giudice del mondo anticipò la sua sentenza e lodò nel Vangelo la donna che avrebbe incoronata nel giudizio.
[…] Rendiamo dunque al Signore i suoi doni; restituiamoli a lui che li riceve nella persona di ogni povero; diamoli, dico, con gioia per riceverli di nuovo da lui con esultanza, come egli stesso afferma.
(PAOLINO DA NOLA, Lettere 34,2-4, PL 61,345C.346A-C).
La pietra preziosa «Una volta, un monaco mentre era in viaggio trovò una pietra preziosa e la prese con sé.  Un giorno incontra un viaggiatore e, quando aprì la borsa per condividere con lui le sue provviste, il viaggiatore vide la pietra e gliela chiese.
Il monaco gliela diede immediatamente.
Il viaggiatore partì, pieno di gioia per l’inaspettato dono della pietra preziosa che sarebbe stata sufficiente a garantirgli il benessere e la sicurezza per il resto della vita.
Ma pochi giorni dopo tornò indietro alla ricerca del monaco e, trovatolo, gli restituì la pietra dicendogli: “ora dammi qualcosa di più prezioso di questa pietra, qualcosa di pari valore.
Dammi ciò che ti ha reso capace di donarmela”» (Anthony de Mello).
Le persone sono doni Qualche tempo fa, ho ricevuto un articolo non firmato intitolato Le persone sono doni.
Vorrei parafrasarne alcuni passi come segue: «Le persone sono doni di Dio che mi vengono fatti.
Sono già avvolti in una carta a volte bella, a volte meno attraente.
Alcuni vengono strapazzati durante l’invio postale; altri, invece, sono recapitati con riguardo per espresso; alcuni sono avvolti alla bell’ e meglio e sono facili da aprire, altri sono chiusi saldamente.
Ma il dono non è l’involucro ed è importante rendersene conto.
È così facile sbagliarsi al riguardo, e giudicare il contenuto dall’involucro esteriore.
Talvolta, il dono si apre con grande facilità; altre volte, c’è bisogno dell’aiuto altrui.
Forse ciò è dovuto al fatto che gli altri hanno paura; forse in precedenza sono stati feriti e non vogliono esserlo ancora; o, forse, in passato sono stati aperti e poi abbandonati.
Può darsi che adesso si sentano più una “cosa” che “persone”.
Io sono una persona: come chiunque altro, anch’io sono un dono.
Dio ha infuso in me una bontà che è solo mia.
E tuttavia, a volte, ho paura di guardare dentro il mio involucro: forse temo di essere deluso; forse non mi fido del mio contenuto; o forse non ho mai accettato veramente il dono che io stesso costituisco.
Ogni incontro e ogni condivisione con le persone è uno scambio di doni.
Il mio dono sono io; il tuo dono sei tu.
Siamo doni vicendevoli».
(J.
POWELL, Parlami di te.
So ascoltare il tuo Cuore, Milano, Gribaudi, 2005, 24-25).
I valorosi sono sempre tenaci? “I valorosi sono sempre tenaci?”.
Dal cielo, il Signore sorride contento, perché era ciò che Egli voleva: che ciascuno avesse nelle proprie mani la responsabilità della propria vita.
In fin dei conti aveva dato ai propri figli il più grande di tutti i doni: la capacità di scegliere e di decidere i propri atti.
Soltanto gli uomini e le donne segnati nel cuore dalla fiamma sacra avevano coraggio di affrontarLo.
E soltanto questi conoscevano il cammino per tornare al Suo amore, giacché capivano finalmente che la tragedia non era una punizione, ma una sfida.
Elia rivide a uno a uno tutti i suoi passi: dal momento in cui aveva lasciato la falegnameria, aveva accettato la propria missione senza discutere.
Anche se fosse stata vera, e lui pensava che lo fosse, Elia non aveva mai avuto l’opportunità di vedere che cosa accadeva nei cammini che aveva rifiutato di percorrere.
Perché aveva paura di perdere la fede, la dedizione, la volontà.
Riteneva che fosse molto rischioso sperimentare il cammino delle persone comuni: alla fine avrebbe potuto anche abituarsi e amare ciò che vedeva.
Non capiva che anche lui era una persona come tutte le altre, anche se udiva gli angeli e riceveva di tanto in tanto qualche ordine da Dio: era talmente convinto di sapere ciò che voleva da essersi comportato proprio come coloro che non avevano mai preso una decisione importante nella vita.
Era sfuggito al dubbio.
Alla sconfitta.
Ai momenti di indecisione.
Ma il Signore era generoso, e lo aveva condotto nell’abisso dell’inevitabile per dimostrargli che l’uomo deve scegliere, e non accettare, il proprio destino.
(Paulo COELHO, Monte Cinque, Bompiani, Milano, 1998, 206-207).
Preghiera Signore Gesù, che da ricco che eri ti sei fatto povero per arricchirci con la tua povertà, aumenta la nostra fede! È sempre molto poco ciò che abbiamo da offrirti, ma tu aiutaci a consegnarlo senza esitazione nelle tue mani.
Tu sei il Tesoro del Padre e il Tesoro dell’umanità: in te si riversa la pienezza della divinità, eppure tu attendi ancora, da noi, l’obolo di ciò che siamo, perfino del nostro peccato.
Crediamo che tu puoi trasformare la nostra miseria in beatitudine per molti, ma tu insegnaci la generosità e l’abbandono confidente dei poveri in spirito! Vogliamo accettare la sfida della tua parola e donarti tutto, anche il necessario per l’oggi e il domani: tu stesso fin d’ora sei la Vita per noi.
              * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cura di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
    Lectio – Anno B   Prima lettura: 1Re 17,10-16          In quei giorni, il profeta Elia si alzò e andò a Sarèpta.
Arrivato alla porta della città, ecco una vedova che raccoglieva legna.
La chiamò e le disse: «Prendimi un po’ d’acqua in un vaso, perché io possa bere».
Mentre quella andava a prenderla, le gridò: «Per favore, prendimi anche un pezzo di pane».
Quella rispose: «Per la vita del Signore, tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po’ d’olio nell’orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a prepararla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo».
Elia le disse: «Non temere; va’ a fare come hai detto.
Prima però prepara una piccola focaccia per me e portamela; quindi ne preparerai per te e per tuo figlio, poiché così dice il Signore, Dio d’Israele: “La farina della giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non diminuirà fino al giorno in cui il Signore manderà la pioggia sulla faccia della terra”».
Quella andò e fece come aveva detto Elia; poi mangiarono lei, lui e la casa di lei per diversi giorni.
La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì, secondo la parola che il Signore aveva pronunciato per mezzo di Elia.
           Dopo l’annuncio della siccità (v.
1) e la chiamata da parte di Dio con il ritiro al torrente Cherit (vv.
2-7), ora Elia deve spostarsi a Sarepta, circa 15 km a sud di Sidone, sulla costa fenicia, terra dalla quale proveniva Gezabele, nemica dichiarata di JHWH e dunque di Elia stesso.
In quel territorio Elia non si trova più sotto la giurisdizione di Acab.
L’ordine può essere stato dato da Dio a motivo della persecuzione, che ormai potrebbe essere aperta (cf.
18,10).
Proprio una vedova, che già per il suo stato sociale era condannata agli stenti, viene individuata come sostegno del profeta.
Umanamente questo è paradossale, ma è sempre Dio a garantire la vita al di là delle umane risorse e aspettative.
     Nell’antico vicino oriente le vedove erano riconoscibili per l’abito da lutto che esse indossavano, segno permanente della loro incompletezza dopo la perdita dello sposo (cf.
Gn 38,13; Gdt 10,3).
Entrato in città, Elia ne scorge una che raccoglie la legna destinata a cuocere le ultime poche risorse che sono rimaste per lei e suo figlio: un pugno di farina e una goccia d’olio.
La vedova a cui Elia è inviato è sul lastrico, rassegnata ormai alla morte e alla cui alternativa non vede esonerato neanche il proprio figlio.
     La donna esaudisce prontamente il desiderio di Elia in merito alla sete, come del resto prevede il grande senso di ospitalità orientale, ma recrimina per la richiesta di cibo.
Il fatto che la donna invochi JHWH nella sua risposta ad Elia può dipendere dal fatto di avere riconosciuto in lui un ebreo sia per l’abbigliamento che per la pronuncia.
Secondo l’uso orientale la donna giura per la divinità dell’ospite.
Il giuramento rivela che quanto viene asserito dalla donna è vero ed importante.
     Alla comprensibile protesta della donna Elia risponde non trascurando i suoi legittimi bisogni, ma invitandola a farli precedere da un atto di fede attraverso l’oracolo che egli pronuncia.
Il contenuto delle parole di Elia non sono semplicemente un rovesciamento di prospettiva di futuro che aveva la vedova, la quale si sentiva ormai alla fine, ma anche una indicazione chiara di colui che offrirà la soluzione.
L’oracolo profetico è chiaramente forgiato sulla fede monoteista israelitica secondo la quale JHWH è l’unico Signore del creato dal quale la pioggia dipende.
Vi è qui un chiaro atteggiamento polemico verso il culto forestiero di cui Gezabele era promotrice e che riconosceva in Baal il dio della fecondità, manifestata appunto nei riguardi della terra con la pioggia.
     Colui che regola i cicli naturali, che detiene il controllo delle riserve celesti (Gb 38,22-30) ha certamente potere anche sulla dispensa della vedova.
Essa si fida della parola di Elia e il miracolo si compie.
Attraverso il suo profeta Dio stesso si è presentato a quella diseredata non per toglierle il poco che le era rimasto, ma per aggiungere vita e speranza.
     A causa di questo episodio Elia viene considerato nella pietà giudaica il patrono dei casi impossibili.
  Seconda lettura: Ebrei 9,24-28          Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore.
E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte.
Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso.
E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza.
       Già il v.
11 del nostro capitolo aveva parlato del santuario non fatto da mani di uomo.
Ora, riprendendo la liturgia del giorno dell’espiazione, si parla ancora del rapporto simbolico che intercorre tra il tempio di Gerusalemme, imponente costruzione umana, e il santuario celeste.
In 8,2 l’autore aveva già trattato di questo simbolo molto lontano dalla realtà che esso rappresenta, dal momento che il vero santuario in cui Cristo è entrato è il cielo stesso.
Lì Gesù si trova direttamente di fronte al Padre e diventa il nostro avvocato, come veniva ricordato nel passaggio della scorsa domenica in 7,25.
     Ritornando alla liturgia dello jom kippur, cioè del giorno della espiazione, Gesù viene paragonato al sommo sacerdote, ma per istituire un contrasto.
Mentre il primo doveva annualmente «comparire», in modo solenne per indicare l’entrata del gran sacerdote nella parte più sacra del tempio, il santo dei santi, per Gesù non è così.
Egli non ha bisogno di reiterare la sua offerta, perché per la purificazione dal peccato non si serve del sangue di terzi, che nel caso del sommo sacerdote era addirittura di animale, sangue di cui idealmente veniva rivestito e dal quale veniva protetto nel suo accesso al Santo dei santi; sangue che non era in grado di purificare dai peccati.
Per questo il sacrificio, anche se svolto con la maggiore solennità, aveva una scadenza annuale che già in se stessa era dichiarazione di limitatezza.
     Il v.
26 si apre con un ragionamento che procede per assurdo, per condurre alla comprensione della efficacia di quanto è stato compiuto da Cristo.
Se fossero valsi per Lui i criteri che regolavano l’espiazione nell’antico culto, egli avrebbe dovuto accompagnare tutta la storia umana, fin dalle sue origini, con il sacrificio.
Infatti la storia degli uomini è storia di peccatori e di miserie.
Al contrario, una sola volta, nella pienezza dei tempi, cioè nel momento stabilito dal Padre, Gesù è «apparso» prima nel tempo, dimensione in cui si commettono i peccati, e, dopo aver consumato in esso il sacrificio di se stesso, è «apparso» nel santuario celeste rivestito del proprio sangue che lo qualifica come efficace espiatore ed intercessore.
È pertanto sul sangue stesso di Gesù che si basa l’assoluta validità del suo sacrificio e dunque la sua non reiterabilità.
     Nei vv.
27-28 vi è un nuovo confronto tra Gesù e l’esperienza umana.
Per l’uomo dopo la morte viene il giudizio, per Gesù invece vi sarà una seconda «apparizione».
Il tratto più interessante di questi versetti è il modo in cui viene presentata la parusia, perché certamente di essa parla l’autore quando dice che Cristo «apparirà una seconda volta».
Il ritorno finale viene descritto rifacendosi ancora alla liturgia del giorno della espiazione.
Quando il sommo sacerdote entrava nel Santo dei Santi tutto il popolo rimaneva fuori in attesa di lui che uscendo avrebbe portato il perdono divino.
Così nel suo ritorno finale Cristo uscirà come vero sommo ed eterno sacerdote dal santuario celeste per portare la salvezza a coloro che lo attendono.
Prevale qui un aspetto positivo della venuta finale descritta come il compimento dell’attesa della sospirata, completa assoluzione.
        Vangelo: Marco 12,38-44          In quel tempo, Gesù [nel tempio] diceva alla folla nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti.
Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere.
Essi riceveranno una condanna più severa».
Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete.
Tanti ricchi ne gettavano molte.
Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo.
Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri.
Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo.
Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».
    Esegesi      Il brano evangelico è diviso in due sezioni.
La prima è costituita dai vv.
38-40 che contengono l’ultimo insegnamento impartito da Gesù nel capitolo 12 di Marco.
La seconda, introdotta da un cambiamento di luogo, occupa i vv.
41-44 con la vedova additata ad esempio di vera pietà.
     Uno sguardo d’insieme alla tradizione sinottica ci avvertirebbe che l’atteggiamento polemico di Gesù verso gli scribi fu forte e non raro; basterebbe ricordare il capitolo 23 di Matteo.
La comunità primitiva si preoccupò subito di conservare memoria degli insegnamenti di Gesù in questa materia per ricavare anche da essi uno stile nuovo di vita al suo interno.
Il vangelo di Marco ha conservato poco materiale a questo proposito, e la parte che ci tocca leggere in questa domenica è la più polemica.
Gli scribi vengono presi di mira a causa della loro preoccupazione per l’esteriorità.
Probabilmente la loro condizione di studiosi e di esperti del testo sacro era manifestata nell’abbigliamento da un mantello apposito che essi si ponevano sulle spalle.
Altri segni di distinzione ai quali erano particolarmente attaccati erano gli atti di omaggio e di riguardo che venivano loro riservati in pubblico, innanzitutto nelle piazze, dove un gran numero di persone potevano assistere agli atti di deferenza che ricevevano.
Anche nelle case private, in occasione di banchetti, e persino nei luoghi di culto, le sinagoghe, desideravano essere in rilievo occupando i primi posti.
L’ultima apostrofe che Gesù riserva loro riguarda la vita di pietà vissuta in pubblico come atto di esibizionismo religioso.
     Staccata dal piano esteriore è la loro avidità che prende di mira le persone meno tutelate: le vedove.
Professionalmente gli scribi offrivano la loro consulenza in materia legale, il che equivaleva in una società e cultura come quella giudaica, ad una competenza religiosa perché tutto veniva regolato alla luce della Thorà.
Essi però erano esosi per le loro prestazioni persino con i meno abbienti.
Le parole con le quali Gesù conclude le considerazioni a loro riguardo sono assai dure.
All’affermazione alla quale essi tanto tengono per il presente farà seguito una condanna più pesante di quella riservata al popolo.
Forse si può notare qui una fine ironia: a queste persone esasperatamente preoccupate di primeggiare sarà data loro la possibilità di farlo persino nella dimensione definitiva, ma in un modo negativo.
     La seconda sessione del nostro brano (vv.
41-44) narra un episodio che si svolge in un ambiente specifico del grande complesso del tempio.
Si tratta di un corridoio dell’atrio, luogo in cui anche le donne potevano recarsi.
In questo corridoio vi erano tredici urne nelle quali venivano deposte le offerte dei devoti.
Ad introdurre il denaro nel contenitore era un sacerdote al quale l’offerente indicava lo scopo di quanto consegnava.
Le urne si distinguevano proprio anche per la speciale destinazione data all’offerta e dunque all’uso che ne sarebbe stato fatto.
Anche in questo ambiente non manca l’ostentazione che fa da legame narrativo con la sezione precedente: i ricchi gettano molto danaro.
Proprio questo filo conduttore ci porta a scoprire che la pericope liturgica si gioca sul contrasto.
     All’esteriorità e all’avidità di cui si è parlato si contrappone la generosità e la pochezza della vedova.
Di proposito viene detto che la somma in suo possesso è cost

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