La sentenza della Corte di Strasburgo sul crocifisso

Ancora una volta riesplode la polemica sul crocifisso.
Questa volta in seguito al pronunciamento della Corte Europea.
La redazione vuol fornire una rassegna delle diverse opinioni circolate sugli organi di stampa.
La sentenza della Corte di Strasburgo Il crocifisso, i giudici     e Natalia Ginzburg di Giuseppe Fiorentino e Francesco M.
Valiante 
Tra tutti i simboli quotidianamente percepiti dai giovani, la sentenza emessa ieri dalla Corte di Strasburgo – che proibisce l’esposizione del crocifisso dalle aule scolastiche italiane perché sarebbe contraria al diritto dei genitori di educare i figli in linea con le loro convinzioni e al diritto dei bambini alla libertà di religione – ha colpito quello che più rappresenta una grande tradizione, non solo religiosa, del Continente europeo.
“Il crocifisso non genera nessuna discriminazione.
Tace.
È l’immagine della rivoluzione cristiana che ha sparso per il mondo l’idea dell’eguaglianza tra gli uomini fino allora assente”.
A scrivere queste parole, il 22 marzo 1988, era Natalia Ginzburg sulle pagine de “l’Unità”, il quotidiano fondato da Antonio Gramsci, allora organo del Partito comunista italiano.
Le parole della scrittrice, a oltre vent’anni di distanza, esprimono un sentimento ancora ampiamente condiviso in Italia.
Ne sono dimostrazione le tante reazioni seguite al pronunciamento della Corte europea.
Mentre il Governo italiano ha annunciato di aver presentato ricorso contro la sentenza, il mondo politico ha evidenziato quasi unanimemente la mancanza di buon senso insita nel provvedimento, ribadendo come la laicità delle istituzioni sia un valore ben diverso dalla negazione del ruolo del cristianesimo.
“Stupore e rammarico” sono stati espressi in particolare dal direttore della Sala Stampa della Santa Sede, il gesuita Federico Lombardi, in una severa dichiarazione trasmessa dalla Radio Vaticana e dal Tg1.
“È grave – ha affermato – voler emarginare dal mondo educativo un segno fondamentale dell’importanza dei valori religiosi nella storia e nella cultura italiana”.
E ha continuato:  “Stupisce poi che una Corte europea intervenga pesantemente in una materia molto profondamente legata all’identità storica, culturale e spirituale del popolo italiano.
Non è per questa via che si viene attratti ad amare e condividere di più l’idea europea, che come cattolici italiani abbiamo fortemente sostenuto fin dalle sue origini”.
Di “visione parziale e ideologica” ha parlato la Conferenza episcopale italiana, sottolineando che nella decisione della Corte “risulta ignorato o trascurato il molteplice significato del crocifisso, che non è solo simbolo religioso ma anche segno culturale”.
Va ricordato che in Italia il Consiglio di Stato nel 2006 aveva già ritenuto legittime le norme che prevedono l’esposizione del crocifisso nelle scuole, affermando che questo non assume valore discriminatorio per i non credenti perché rappresenta “valori civilmente rilevanti e, segnatamente, quei valori che soggiacciono e ispirano il nostro ordine costituzionale”.
In effetti la sentenza della Corte di Strasburgo, con l’intento di voler tutelare i diritti dell’uomo, finisce per mettere in discussione le radici sulle quali quegli stessi diritti si fondano, disconoscendo l’importanza del ruolo della religione – e in particolare del cristianesimo – nella costruzione dell’identità europea e nell’affermazione della centralità dell’uomo nella società.
Sotto altro profilo, la decisione dei giudici di Strasburgo sembra ispirata a un’idea di laicità dello Stato che porta a emarginare il contributo della religione alla vita pubblica.
Si potrebbe così prefigurare un futuro non tanto lontano fatto di ambienti pubblici privi di qualunque riferimento religioso e culturale nel timore di offendere l’altrui sensibilità.
In realtà, non è nella negazione, bensì nell’accoglienza e nel rispetto delle diverse identità che si difende l’idea di laicità dello Stato e si favorisce l’integrazione tra le varie culture.
“Il crocifisso rappresenta tutti” – spiegava Natalia Ginzburg – perché “prima di Cristo nessuno aveva mai detto che gli uomini sono uguali e fratelli tutti, ricchi e poveri, credenti e non credenti,  ebrei  e  non  ebrei  e  neri  e bianchi”.
(©L’Osservatore Romano – 5 novembre 2009) Il cardinale Bertone:  una vera perdita  “Questa Europa del terzo millennio ci lascia solo le zucche delle feste recentemente ripetute e ci toglie i simboli più cari”.
Lo ha detto il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, commentando stamane la sentenza della Corte di Strasburgo sul crocifisso nelle aule scolastiche.
“Questa – ha aggiunto – è veramente una perdita.
Dobbiamo cercare con tutte le forze di conservare i segni della nostra fede per chi crede e per chi non crede”.
Dopo aver espresso “apprezzamento” per l’iniziativa del Governo italiano, che ha annunciato ricorso contro la decisione dei giudici europei, il porporato ha ricordato che il crocifisso “è simbolo di amore universale, non di esclusione ma di accoglienza”.
“Mi domando – ha concluso – se questa sentenza sia un  segno  di  ragionevolezza  oppure no”.
(©L’Osservatore Romano – 5 novembre 2009) Prova di accecata sentenziosità di Fabrizio D’Agostino in “Avvenire” del 4 novembre 2009 La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che condanna l’Italia per l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche, non si basa di certo su argomentazioni nuove o approfondite, ma si limita a ribadire il principio laicista, che vede in qualunque simbolo religioso cui venga dato rilievo in un’istituzione pubblica un attentato alla libertà religiosa e per quel che concerne le scuole alla libertà di educazione.
La sentenza richiama sommariamente, ma con una certa precisione, le argomentazioni in base alle quali la magistratura italiana, dopo qualche tentennamento, era giunta a concludere che nella tradizione del nostro Paese il crocifisso non è un simbolo esclusivamente religioso, ma culturale e civile: in esso si condensa gran parte della storia italiana, in esso si riassume una sensibilità diffusa e presente non solo nei credenti, ma anche nei non credenti.
In quanto icona dell’amore, della donazione gratuita di sé e della violenza estrema cui può soccombere l’innocente, quando le forze del male lo aggrediscono, il crocifisso è un simbolo universale, non confessionale.
Gli spiriti veramente grandi l’hanno sempre compreso: se non tutti credono in Gesù come Cristo, nell’umanità sofferente dell’uomo Gesù, appeso alla croce e che accetta il supplizio, dobbiamo se non credere, almeno avere tutti un profondo rispetto, se non vogliamo ridurre la convivenza tra gli uomini a un mero gioco di forze anonime e crudeli.
Tutto questo, evidentemente, non è stato percepito dalla signora Soile Lautsi, la madre che pur di fare eliminare il crocifisso dalle aule, ha iniziato (nel 2002) una lunga, complessa (e, presumo, anche costosa) procedura giudiziaria, né è stato percepito dai giudici che alla fine hanno accolto le sue ragioni.
La vicenda giudiziaria potrà riservarci ancora sorprese.
Quello che non ci sorprende più, purtroppo, è l’accecamento ideologico che sorregge questa vicenda, la completa indifferenza per le ragioni della storia e della cultura, l’illusoria pretesa che la mera presenza di un crocifisso possa fare violenza alla sensibilità degli scolari e giunga ad impedire ai genitori di esercitare nei loro confronti quella specifica missione educativa, che è loro dovere e loro diritto.
E non ci sorprende più, purtroppo, il fatto che i giudici della Corte europea non percepiscano di agire con queste loro sentenze contro l’Europa, contro il suo spirito, contro le sue radici, rendendo così l’Europa stessa sempre meno ‘amabile’ da parte di molti che, pure, ritengono l’europeismo un valore particolarmente alto.
Ancora: è sfuggito alla ricorrente e – cosa ancor più grave – è sfuggito ai giudici che hanno redatto la sentenza che la laicità non si garantisce moltiplicando gli interdetti o marginalizzando le esigenze di visibilità della religioni, ma impegnandosi per garantire la loro compatibilità nelle complesse società multietniche tipiche del tempo in cui viviamo.
La laicità non prospera nella freddezza delle istituzioni, nella neutralizzazione degli spazi pubblici, nell’abolizione di ogni riferimento, diretto o indiretto, a Dio.
Quando è così che la laicità viene pensata, propagandata e promossa si ottiene come effetto non una promozione di quello specifico bene umano che è la convivenza, ma una sua atrofizzazione.
La sensibilità religiosa, ci ha spiegato Habermas (un grande spirito laico) non è un residuo di epoche arcaiche, che la sensibilità moderna sarebbe chiamata a superare e a dissolvere, ma appartiene piuttosto e pienamente alla modernità, come una delle sue forze costitutive: tra sensibilità religiosa e sensibilità laica non deve mai istaurarsi una conflittualità, ma una dinamica di ‘apprendimento complementare’, alla quale non può che ripugnare ogni logica di esclusione.
Quanto tempo ancora ci vorrà perché simili verità vengano finalmente percepite dai tanti ottusi laicisti, che pensano ancora che sia dovere fondamentale degli educatori quello di indurre le giovani generazioni a vivere «come se Dio non ci fosse»? La Croce che non s’impone di Marco Politi in “il Fatto quotidiano” del 4 novembre 2009 La croce non si impone.
E’ il messaggio che viene da Strasburgo, dove la Corte europea dei diritti dell’uomo ha sancito che i crocifissi nelle aule scolastiche rappresentano una doppia violazione.
Perché negano la libertà dei genitori di educare i figli secondo le proprie convinzioni religiose o filosofiche e al tempo stesso violano la libertà degli alunni.
Il governo italiano, tanto attento alla fede cristiana nei suoi proclami quanto a-religioso nei comportamenti del suo leader, ha subito deciso di presentare ricorso.
Agitazione al centro e a destra, dove il ministro Frattini paventa un “colpo mortale all’Europa”, mentre l’Udc Rocco Buttiglione parla di “sentenza aberrante da respingere”.
Prudenza nel centrosinistra: il neo-segretario Pd Bersani si limita a definire la presenza del crocifisso nella aule una “tradizione inoffensiva”.
Eppure la Corte europea dei diritti dell’uomo è solo responsabile di chiarezza.
Non è la sua una scelta antireligiosa, come si affrettano a diffondere le prefiche che lamentano continuamente la perdita delle «radici cristiane d’Europa».
Al contrario è il limpido riconoscimento che i simboli religiosi sono segni potenti, che incidono sulle coscienze.
Da tempo l’Italia pseudo-religiosa della cattiva coscienza, per sfuggire alla questione della laicità delle istituzioni, si è inventata la spiegazione che il crocifisso sia soltanto un simbolo della tradizione italiana, un’espressione del suo patrimonio storico e ideale, un incoraggiamento alla bontà e a valori di umanità condivisibili da credenti e non credenti.
Non è così.
O meglio, tutto questo insieme di richiami è certamente comprensibile ma non può cancellare il significato profondo e in ultima istanza esplicito di un crocifisso esposto in un ambiente scolastico o nell’aula di un tribunale.
Il crocifisso sulla cattedra è il richiamo preciso ad una Verità superiore a qualsiasi insegnamento umano.
Il crocifisso sovrastante le toghe dei magistrati è il monito a ispirarsi e non dimenticare mai la Giustizia superiore che promana da Dio.
È accettabile tutto ciò da parte di chi non crede in “quel” simbolo? E’ lecito imporlo a quanti sono diversamente credenti sia che seguano un’altra religione sia che abbiano fatto un’opzione etica non legata alla trascendenza? La risposta non può che essere no.
Già negli anni Novanta nel paese natale di papa Ratzinger la Corte Costituzionale tedesca sancì con parole pregnanti che nessuno può essere costretto a studiare “sotto la croce”, perché la sua esposizione obbligata è lesiva della libertà di coscienza.
Persino la cattolicissima Baviera – lo riferì a suo tempo anche l’Avvenire non disdegnando la soluzione – ha affrontato il problema.
In quel Land tedesco il crocifisso è di norma esposto nelle aule scolastiche: se però degli studenti obiettano, le autorità scolastiche aprono un confronto che può condurre alla rimozione del simbolo.
Il messaggio di Strasburgo porta in Italia una ventata di chiarezza.
Non nega affatto la vitalità di una tradizione culturale.
Non “colpisce”, come lamenta l’Osservatore Romano, una grande tradizione.
Strade, piazze, monumenti continueranno a testimoniare il vissuto secolare di un’esperienza religiosa.
Edicole, crocifissi, statue di santi, chiese e oratori continueranno a parlare di una storia straordinaria.
(Ma meglio sarebbe che gli alfieri della difesa delle «radici cristiane» si chiedessero perché tante chiese vuote, perché tanta ignoranza religiosa negli alunni che escono da più di dieci anni di insegnamento della religione a scuola, perché sono semivuoti i seminari e deserti i confessionali).
Né viene toccato il diritto fondamentale dei credenti, come di ogni altro cittadino di diverso orientamento, di agire sulla scena pubblica.
La Corte europea dei diritti dell’uomo afferma invece un principio basilare: nessuna istituzione può essere sotto il marchio di un unico segno religioso.
Laicità significa apertura e neutralità, rifiuto del monopolio.
Ci voleva la tenacia di una madre finlandese trasferita in Italia, Soile Lautsi, per intraprendere insieme al marito Massimo Albertini la lunga marcia dal consiglio di classe di una scuola di Abano al Tar, al Consiglio di Stato, alla Corte costituzionale, alla Corte di Strasburgo perché l’Italia fosse ammonita a rispettare questo elementare principio.
Se si chiede alla coppia cosa le ha dato la tenacia di non arrendersi al conformismo delle autorità, la riposta è sobria: “L’amore per i figli, il desiderio di proteggerli.
E loro, cresciuti nel frattempo, ci hanno detto di andare avanti”.
Sostiene la conferenza episcopale italiana che la sentenza di Strasburgo suscita “amarezza e perplessità”, perché risulterebbe ignorato il valore culturale del simbolo religioso e il fatto che il Concordato riformato del 1984 riconosce i principi del cattolicesimo come “parte del patrimonio storico del popolo italiano”.
È questa parola “parte” che i vescovi dovrebbero non dimenticare.
Il cattolicesimo non è più religione di Stato né esiste nella Costituzione repubblicana un attestato di religione speciale, rispetto alla quale altre fedi o orientamenti filosofici sono di seconda categoria.
«Sentenza rispettosa delle pluralità culturali» intervista a Clara Gallini a cura di Iaia Vantaggiato in “il manifesto” del 4 novembre 2009 A Clara Gallini, docente di etnologia e protagonista dell’antropologia italiana, chiediamo di commentare la sentenza di Strasburgo.
Lei è autrice di due libri, pubblicati rispettivamente da Boringhieri e dalla manifestolibri, «Croce e delizia» e «Il ritorno delle croci».
Come valuta questa sentenza? A me turba sempre constatare che la questione dei crocifissi venga dibattuta e sancita in sede legislativa o comunque giuridica.
La sentenza, comunque, mi sembra giusta ed equa, rispettosa delle diversità culturali che attraversano da sempre la storia europea.
E il suo giudizio da antropologa? Il mio punto di vista di antropologa è un po’ diverso da quello giuridico-normativo.
Si parla molto di radici cristiane dell’Europa ma mi sono interrogata e mi interrogo sul rapporto reale e concreto che i soggetti sociali hanno con i loro simboli.
Non è un rapporto definito una volta per tutte.
I simboli significano messaggi diversi a seconda dei soggetti che si rapportano a loro e persino dei luoghi, degli spazi reali o immaginari in cui i simboli si collocano.
Da antropologa mi è stato possibile constatare che i crocifissi sono quasi del tutto spariti dalle abitazioni, dove era possibile incontrarli come presenze forti, collocati a capo del letto e accompagnati dal ramo d’ulivo pasquale, segno di resurrezione.
Crocifissi collocati a capo del letto.
Ma perché proprio lì? È un etica diversa quella che si costruisce, almeno in Italia, nel secondo dopoguerra.
Un’etica che connetteva anche spazialmente e visivamente la casa con la chiesa, un’etica che trasformava il letto in luogo sacrificale in cui tutto si consumava tragicamente, dal nascere al morire.
Ora si nasce e si muore in altri luoghi.
Il letto non è più un altare e il luogo dell’amplesso si va trasformando anche con una affermazione, in positivo, dell’etica del piacere, l’esatto contrario dell’etica sacrificale che vedeva nel morto in croce il proprio centro.
A un certo punto, però, i crocifissi sono spariti dalle nostre stanze da letto.
Quando e perché? L’espulsione dalle pareti domestiche è avvenuta parallelamente al boom dei consumi e alla costruzione di altri modelli di vita familiare e domestica.
Peraltro, sono state mani concrete di persone quelle che hanno staccato questi sacri simboli dai luoghi in cui si trovavano per riporli altrove e dimenticarli in qualche ripostiglio.
Di questo ho scritto in «Croce e delizia».
Di una delle facce della medaglia, cioè, che si connette – per differenziarsi – all’altro aspetto, quello severo, drammatico, ufficiale che consiste nell’imposizione per legge del simbolo sacro cristiano all’interno degli spazi pubblici, argomento trattato ne «Il ritorno delle croci».
Sono due chiavi molto diverse, quella del privato e quella del pubblico e quella del pubblico si afferma attraverso atti che sono essenzialmente di natura politica.
In molti commentano la sentenza di Strasburgo come un «attentato» alle radici cristiane dell’Europa.
Non crede che la questione delle «radici» sia più complessa? Io credo che le radici cristiane esistano ma sono fluide, morbide, acquatiche e si sono sviluppate in direzioni molto diverse concorrendo, ciascuna a modo suo, a costruire il nostro panorama culturale.
Vorrei aggiungere una cosa che mi sembra un po’ meno dibattuta.
Forse sbaglio ma mi sembra che chi parla di radici cristiane intenda sotto sotto e in modo mascherato dire radici cattoliche.
Radici cristiane verrebbero così a significare primato intellettuale e morale della chiesa cattolica.
Parlare di Europa cristiana senza tener conto delle guerre di religione, delle secessioni che hanno portato alla formazione di nuove chiese evangeliche, tacere tutto questo mi sembra un’operazione molto pericolosa.
Può farci un esempio? In questi giorni a Roma, a palazzo Venezia, è visitabile una grandiosa mostra titolata «Il potere e la grazia» che concerne il culto dei santi.
Non entro in merito ai discutibili criteri di scelta e organizzazione delle immagini.
Mi ha colpito però notare che già la prima fase di illustrazione ai materiali esposti concernesse le radici cristiane d’Europa.
Tutta la mostra espone una certa iconografia di santi cattolici più un certo numero di icone provenienti da chiese cristiane d’Oriente.
Termina inoltre con l’esposizione di uno splendido cavaliere armato che schiaccia la testa al Moro.
Sostenendo, sempre nelle spiegazioni, che l’immagine del cavaliere risignificasse le varie culture locali unificandole nelle diversità.
Bene, non ho visto in questa mostra alcun accenno al fatto che la grande contesa che dilaniò l’Europa opponendo i cosiddetti «protestanti» alla chiesa romana, toccò assieme alla questione della cristologia generale e del potere papale anche quella del culto dei santi, bollato di idolatria.
Torniamo al crocifisso.
Nel suo «Il ritorno delle croci», lei ricostruisce la storia di due grandi azioni simboliche compiute da Mussolini.
Ce ne parla? Sì, in quel libro parlo di quella che si chiamò «la restituzione delle croci», croci che erano state tolte dai luoghi laici più significativi della città di Roma quali il Campidoglio e il Colosseo.
Queste restituzioni si accompagnarono a grandi manifestazioni di folla – naturalmente organizzata – cui parteciparono autorità politiche e religiose e che segnarono la conclusione di tutta una storia pregressa che aveva visto togliere in vari modi il simbolo dai luoghi pubblici negli anni dell’affermazione di Roma capitale, quindi poco dopo il 1870.
Ancora una volta riesplode la polemica sul crocifisso.
Questa volta in seguito al pronunciamento della Corte Europea.
La redazione vuol fornire una rassegna delle diverse opinioni circolate sugli organi di stampa.
La sentenza della Corte di Strasburgo Il crocifisso, i giudici     e Natalia Ginzburg di Giuseppe Fiorentino e Francesco M.
Valiante 
Tra tutti i simboli quotidianamente percepiti dai giovani, la sentenza emessa ieri dalla Corte di Strasburgo – che proibisce l’esposizione del crocifisso dalle aule scolastiche italiane perché sarebbe contraria al diritto dei genitori di educare i figli in linea con le loro convinzioni e al diritto dei bambini alla libertà di religione – ha colpito quello che più rappresenta una grande tradizione, non solo religiosa, del Continente europeo.
“Il crocifisso non genera nessuna discriminazione.
Tace.
È l’immagine della rivoluzione cristiana che ha sparso per il mondo l’idea dell’eguaglianza tra gli uomini fino allora assente”.
A scrivere queste parole, il 22 marzo 1988, era Natalia Ginzburg sulle pagine de “l’Unità”, il quotidiano fondato da Antonio Gramsci, allora organo del Partito comunista italiano.
Le parole della scrittrice, a oltre vent’anni di distanza, esprimono un sentimento ancora ampiamente condiviso in Italia.
Ne sono dimostrazione le tante reazioni seguite al pronunciamento della Corte europea.
Mentre il Governo italiano ha annunciato di aver presentato ricorso contro la sentenza, il mondo politico ha evidenziato quasi unanimemente la mancanza di buon senso insita nel provvedimento, ribadendo come la laicità delle istituzioni sia un valore ben diverso dalla negazione del ruolo del cristianesimo.
“Stupore e rammarico” sono stati espressi in particolare dal direttore della Sala Stampa della Santa Sede, il gesuita Federico Lombardi, in una severa dichiarazione trasmessa dalla Radio Vaticana e dal Tg1.
“È grave – ha affermato – voler emarginare dal mondo educativo un segno fondamentale dell’importanza dei valori religiosi nella storia e nella cultura italiana”.
E ha continuato:  “Stupisce poi che una Corte europea intervenga pesantemente in una materia molto profondamente legata all’identità storica, culturale e spirituale del popolo italiano.
Non è per questa via che si viene attratti ad amare e condividere di più l’idea europea, che come cattolici italiani abbiamo fortemente sostenuto fin dalle sue origini”.
Di “visione parziale e ideologica” ha parlato la Conferenza episcopale italiana, sottolineando che nella decisione della Corte “risulta ignorato o trascurato il molteplice significato del crocifisso, che non è solo simbolo religioso ma anche segno culturale”.
Va ricordato che in Italia il Consiglio di Stato nel 2006 aveva già ritenuto legittime le norme che prevedono l’esposizione del crocifisso nelle scuole, affermando che questo non assume valore discriminatorio per i non credenti perché rappresenta “valori civilmente rilevanti e, segnatamente, quei valori che soggiacciono e ispirano il nostro ordine costituzionale”.
In effetti la sentenza della Corte di Strasburgo, con l’intento di voler tutelare i diritti dell’uomo, finisce per mettere in discussione le radici sulle quali quegli stessi diritti si fondano, disconoscendo l’importanza del ruolo della religione – e in particolare del cristianesimo – nella costruzione dell’identità europea e nell’affermazione della centralità dell’uomo nella società.
Sotto altro profilo, la decisione dei giudici di Strasburgo sembra ispirata a un’idea di laicità dello Stato che porta a emarginare il contributo della religione alla vita pubblica.
Si potrebbe così prefigurare un futuro non tanto lontano fatto di ambienti pubblici privi di qualunque riferimento religioso e culturale nel timore di offendere l’altrui sensibilità.
In realtà, non è nella negazione, bensì nell’accoglienza e nel rispetto delle diverse identità che si difende l’idea di laicità dello Stato e si favorisce l’integrazione tra le varie culture.
“Il crocifisso rappresenta tutti” – spiegava Natalia Ginzburg – perché “prima di Cristo nessuno aveva mai detto che gli uomini sono uguali e fratelli tutti, ricchi e poveri, credenti e non credenti,  ebrei  e  non  ebrei  e  neri  e bianchi”.
(©L’Osservatore Romano – 5 novembre 2009) Il cardinale Bertone:  una vera perdita  “Questa Europa del terzo millennio ci lascia solo le zucche delle feste recentemente ripetute e ci toglie i simboli più cari”.
Lo ha detto il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, commentando stamane la sentenza della Corte di Strasburgo sul crocifisso nelle aule scolastiche.
“Questa – ha aggiunto – è veramente una perdita.
Dobbiamo cercare con tutte le forze di conservare i segni della nostra fede per chi crede e per chi non crede”.
Dopo aver espresso “apprezzamento” per l’iniziativa del Governo italiano, che ha annunciato ricorso contro la decisione dei giudici europei, il porporato ha ricordato che il crocifisso “è simbolo di amore universale, non di esclusione ma di accoglienza”.
“Mi domando – ha concluso – se questa sentenza sia un  segno  di  ragionevolezza  oppure no”.
(©L’Osservatore Romano – 5 novembre 2009) Prova di accecata sentenziosità di Fabrizio D’Agostino in “Avvenire” del 4 novembre 2009 La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che condanna l’Italia per l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche, non si basa di certo su argomentazioni nuove o approfondite, ma si limita a ribadire il principio laicista, che vede in qualunque simbolo religioso cui venga dato rilievo in un’istituzione pubblica un attentato alla libertà religiosa e per quel che concerne le scuole alla libertà di educazione.
La sentenza richiama sommariamente, ma con una certa precisione, le argomentazioni in base alle quali la magistratura italiana, dopo qualche tentennamento, era giunta a concludere che nella tradizione del nostro Paese il crocifisso non è un simbolo esclusivamente religioso, ma culturale e civile: in esso si condensa gran parte della storia italiana, in esso si riassume una sensibilità diffusa e presente non solo nei credenti, ma anche nei non credenti.
In quanto icona dell’amore, della donazione gratuita di sé e della violenza estrema cui può soccombere l’innocente, quando le forze del male lo aggrediscono, il crocifisso è un simbolo universale, non confessionale.
Gli spiriti veramente grandi l’hanno sempre compreso: se non tutti credono in Gesù come Cristo, nell’umanità sofferente dell’uomo Gesù, appeso alla croce e che accetta il supplizio, dobbiamo se non credere, almeno avere tutti un profondo rispetto, se non vogliamo ridurre la convivenza tra gli uomini a un mero gioco di forze anonime e crudeli.
Tutto questo, evidentemente, non è stato percepito dalla signora Soile Lautsi, la madre che pur di fare eliminare il crocifisso dalle aule, ha iniziato (nel 2002) una lunga, complessa (e, presumo, anche costosa) procedura giudiziaria, né è stato percepito dai giudici che alla fine hanno accolto le sue ragioni.
La vicenda giudiziaria potrà riservarci ancora sorprese.
Quello che non ci sorprende più, purtroppo, è l’accecamento ideologico che sorregge questa vicenda, la completa indifferenza per le ragioni della storia e della cultura, l’illusoria pretesa che la mera presenza di un crocifisso possa fare violenza alla sensibilità degli scolari e giunga ad impedire ai genitori di esercitare nei loro confronti quella specifica missione educativa, che è loro dovere e loro diritto.
E non ci sorprende più, purtroppo, il fatto che i giudici della Corte europea non percepiscano di agire con queste loro sentenze contro l’Europa, contro il suo spirito, contro le sue radici, rendendo così l’Europa stessa sempre meno ‘amabile’ da parte di molti che, pure, ritengono l’europeismo un valore particolarmente alto.
Ancora: è sfuggito alla ricorrente e – cosa ancor più grave – è sfuggito ai giudici che hanno redatto la sentenza che la laicità non si garantisce moltiplicando gli interdetti o marginalizzando le esigenze di visibilità della religioni, ma impegnandosi per garantire la loro compatibilità nelle complesse società multietniche tipiche del tempo in cui viviamo.
La laicità non prospera nella freddezza delle istituzioni, nella neutralizzazione degli spazi pubblici, nell’abolizione di ogni riferimento, diretto o indiretto, a Dio.
Quando è così che la laicità viene pensata, propagandata e promossa si ottiene come effetto non una promozione di quello specifico bene umano che è la convivenza, ma una sua atrofizzazione.
La sensibilità religiosa, ci ha spiegato Habermas (un grande spirito laico) non è un residuo di epoche arcaiche, che la sensibilità moderna sarebbe chiamata a superare e a dissolvere, ma appartiene piuttosto e pienamente alla modernità, come una delle sue forze costitutive: tra sensibilità religiosa e sensibilità laica non deve mai istaurarsi una conflittualità, ma una dinamica di ‘apprendimento complementare’, alla quale non può che ripugnare ogni logica di esclusione.
Quanto tempo ancora ci vorrà perché simili verità vengano finalmente percepite dai tanti ottusi laicisti, che pensano ancora che sia dovere fondamentale degli educatori quello di indurre le giovani generazioni a vivere «come se Dio non ci fosse»? La Croce che non s’impone di Marco Politi in “il Fatto quotidiano” del 4 novembre 2009 La croce non si impone.
E’ il messaggio che viene da Strasburgo, dove la Corte europea dei diritti dell’uomo ha sancito che i crocifissi nelle aule scolastiche rappresentano una doppia violazione.
Perché negano la libertà dei genitori di educare i figli secondo le proprie convinzioni religiose o filosofiche e al tempo stesso violano la libertà degli alunni.
Il governo italiano, tanto attento alla fede cristiana nei suoi proclami quanto a-religioso nei comportamenti del suo leader, ha subito deciso di presentare ricorso.
Agitazione al centro e a destra, dove il ministro Frattini paventa un “colpo mortale all’Europa”, mentre l’Udc Rocco Buttiglione parla di “sentenza aberrante da respingere”.
Prudenza nel centrosinistra: il neo-segretario Pd Bersani si limita a definire la presenza del crocifisso nella aule una “tradizione inoffensiva”.
Eppure la Corte europea dei diritti dell’uomo è solo responsabile di chiarezza.
Non è la sua una scelta antireligiosa, come si affrettano a diffondere le prefiche che lamentano continuamente la perdita delle «radici cristiane d’Europa».
Al contrario è il limpido riconoscimento che i simboli religiosi sono segni potenti, che incidono sulle coscienze.
Da tempo l’Italia pseudo-religiosa della cattiva coscienza, per sfuggire alla questione della laicità delle istituzioni, si è inventata la spiegazione che il crocifisso sia soltanto un simbolo della tradizione italiana, un’espressione del suo patrimonio storico e ideale, un incoraggiamento alla bontà e a valori di umanità condivisibili da credenti e non credenti.
Non è così.
O meglio, tutto questo insieme di richiami è certamente comprensibile ma non può cancellare il significato profondo e in ultima istanza esplicito di un crocifisso esposto in un ambiente scolastico o nell’aula di un tribunale.
Il crocifisso sulla cattedra è il richiamo preciso ad una Verità superiore a qualsiasi insegnamento umano.
Il crocifisso sovrastante le toghe dei magistrati è il monito a ispirarsi e non dimenticare mai la Giustizia superiore che promana da Dio.
È accettabile tutto ciò da parte di chi non crede in “quel” simbolo? E’ lecito imporlo a quanti sono diversamente credenti sia che seguano un’altra religione sia che abbiano fatto un’opzione etica non legata alla trascendenza? La risposta non può che essere no.
Già negli anni Novanta nel paese natale di papa Ratzinger la Corte Costituzionale tedesca sancì con parole pregnanti che nessuno può essere costretto a studiare “sotto la croce”, perché la sua esposizione obbligata è lesiva della libertà di coscienza.
Persino la cattolicissima Baviera – lo riferì a suo tempo anche l’Avvenire non disdegnando la soluzione – ha affrontato il problema.
In quel Land tedesco il crocifisso è di norma esposto nelle aule scolastiche: se però degli studenti obiettano, le autorità scolastiche aprono un confronto che può condurre alla rimozione del simbolo.
Il messaggio di Strasburgo porta in Italia una ventata di chiarezza.
Non nega affatto la vitalità di una tradizione culturale.
Non “colpisce”, come lamenta l’Osservatore Romano, una grande tradizione.
Strade, piazze, monumenti continueranno a testimoniare il vissuto secolare di un’esperienza religiosa.
Edicole, crocifissi, statue di santi, chiese e oratori continueranno a parlare di una storia straordinaria.
(Ma meglio sarebbe che gli alfieri della difesa delle «radici cristiane» si chiedessero perché tante chiese vuote, perché tanta ignoranza religiosa negli alunni che escono da più di dieci anni di insegnamento della religione a scuola, perché sono semivuoti i seminari e deserti i confessionali).
Né viene toccato il diritto fondamentale dei credenti, come di ogni altro cittadino di diverso orientamento, di agire sulla scena pubblica.
La Corte europea dei diritti dell’uomo afferma invece un principio basilare: nessuna istituzione può essere sotto il marchio di un unico segno religioso.
Laicità significa apertura e neutralità, rifiuto del monopolio.
Ci voleva la tenacia di una madre finlandese trasferita in Italia, Soile Lautsi, per intraprendere insieme al marito Massimo Albertini la lunga marcia dal consiglio di classe di una scuola di Abano al Tar, al Consiglio di Stato, alla Corte costituzionale, alla Corte di Strasburgo perché l’Italia fosse ammonita a rispettare questo elementare principio.
Se si chiede alla coppia cosa le ha dato la tenacia di non arrendersi al conformismo delle autorità, la riposta è sobria: “L’amore per i figli, il desiderio di proteggerli.
E loro, cresciuti nel frattempo, ci hanno detto di andare avanti”.
Sostiene la conferenza episcopale italiana che la sentenza di Strasburgo suscita “amarezza e perplessità”, perché risulterebbe ignorato il valore culturale del simbolo religioso e il fatto che il Concordato riformato del 1984 riconosce i principi del cattolicesimo come “parte del patrimonio storico del popolo italiano”.
È questa parola “parte” che i vescovi dovrebbero non dimenticare.
Il cattolicesimo non è più religione di Stato né esiste nella Costituzione repubblicana un attestato di religione speciale, rispetto alla quale altre fedi o orientamenti filosofici sono di seconda categoria.
«Sentenza rispettosa delle pluralità culturali» intervista a Clara Gallini a cura di Iaia Vantaggiato in “il manifesto” del 4 novembre 2009 A Clara Gallini, docente di etnologia e protagonista dell’antropologia italiana, chiediamo di commentare la sentenza di Strasburgo.
Lei è autrice di due libri, pubblicati rispettivamente da Boringhieri e dalla manifestolibri, «Croce e delizia» e «Il ritorno delle croci».
Come valuta questa sentenza? A me turba sempre constatare che la questione dei crocifissi venga dibattuta e sancita in sede legislativa o comunque giuridica.
La sentenza, comunque, mi sembra giusta ed equa, rispettosa delle diversità culturali che attraversano da sempre la storia europea.
E il suo giudizio da antropologa? Il mio punto di vista di antropologa è un po’ diverso da quello giuridico-normativo.
Si parla molto di radici cristiane dell’Europa ma mi sono interrogata e mi interrogo sul rapporto reale e concreto che i soggetti sociali hanno con i loro simboli.
Non è un rapporto definito una volta per tutte.
I simboli significano messaggi diversi a seconda dei soggetti che si rapportano a loro e persino dei luoghi, degli spazi reali o immaginari in cui i simboli si collocano.
Da antropologa mi è stato possibile constatare che i crocifissi sono quasi del tutto spariti dalle abitazioni, dove era possibile incontrarli come presenze forti, collocati a capo del letto e accompagnati dal ramo d’ulivo pasquale, segno di resurrezione.
Crocifissi collocati a capo del letto.
Ma perché proprio lì? È un etica diversa quella che si costruisce, almeno in Italia, nel secondo dopoguerra.
Un’etica che connetteva anche spazialmente e visivamente la casa con la chiesa, un’etica che trasformava il letto in luogo sacrificale in cui tutto si consumava tragicamente, dal nascere al morire.
Ora si nasce e si muore in altri luoghi.
Il letto non è più un altare e il luogo dell’amplesso si va trasformando anche con una affermazione, in positivo, dell’etica del piacere, l’esatto contrario dell’etica sacrificale che vedeva nel morto in croce il proprio centro.
A un certo punto, però, i crocifissi sono spariti dalle nostre stanze da letto.
Quando e perché? L’espulsione dalle pareti domestiche è avvenuta parallelamente al boom dei consumi e alla costruzione di altri modelli di vita familiare e domestica.
Peraltro, sono state mani concrete di persone quelle che hanno staccato questi sacri simboli dai luoghi in cui si trovavano per riporli altrove e dimenticarli in qualche ripostiglio.
Di questo ho scritto in «Croce e delizia».
Di una delle facce della medaglia, cioè, che si connette – per differenziarsi – all’altro aspetto, quello severo, drammatico, ufficiale che consiste nell’imposizione per legge del simbolo sacro cristiano all’interno degli spazi pubblici, argomento trattato ne «Il ritorno delle croci».
Sono due chiavi molto diverse, quella del privato e quella del pubblico e quella del pubblico si afferma attraverso atti che sono essenzialmente di natura politica.
In molti commentano la sentenza di Strasburgo come un «attentato» alle radici cristiane dell’Europa.
Non crede che la questione delle «radici» sia più complessa? Io credo che le radici cristiane esistano ma sono fluide, morbide, acquatiche e si sono sviluppate in direzioni molto diverse concorrendo, ciascuna a modo suo, a costruire il nostro panorama culturale.
Vorrei aggiungere una cosa che mi sembra un po’ meno dibattuta.
Forse sbaglio ma mi sembra che chi parla di radici cristiane intenda sotto sotto e in modo mascherato dire radici cattoliche.
Radici cristiane verrebbero così a significare primato intellettuale e morale della chiesa cattolica.
Parlare di Europa cristiana senza tener conto delle guerre di religione, delle secessioni che hanno portato alla formazione di nuove chiese evangeliche, tacere tutto questo mi sembra un’operazione molto pericolosa.
Può farci un esempio? In questi giorni a Roma, a palazzo Venezia, è visitabile una grandiosa mostra titolata «Il potere e la grazia» che concerne il culto dei santi.
Non entro in merito ai discutibili criteri di scelta e organizzazione delle immagini.
Mi ha colpito però notare che già la prima fase di illustrazione ai materiali esposti concernesse le radici cristiane d’Europa.
Tutta la mostra espone una certa iconografia di santi cattolici più un certo numero di icone provenienti da chiese cristiane d’Oriente.
Termina inoltre con l’esposizione di uno splendido cavaliere armato che schiaccia la testa al Moro.
Sostenendo, sempre nelle spiegazioni, che l’immagine del cavaliere risignificasse le varie culture locali unificandole nelle diversità.
Bene, non ho visto in questa mostra alcun accenno al fatto che la grande contesa che dilaniò l’Europa opponendo i cosiddetti «protestanti» alla chiesa romana, toccò assieme alla questione della cristologia generale e del potere papale anche quella del culto dei santi, bollato di idolatria.
Torniamo al crocifisso.
Nel suo «Il ritorno delle croci», lei ricostruisce la storia di due grandi azioni simboliche compiute da Mussolini.
Ce ne parla? Sì, in quel libro parlo di quella che si chiamò «la restituzione delle croci», croci che erano state tolte dai luoghi laici più significativi della città di Roma quali il Campidoglio e il Colosseo.
Queste restituzioni si accompagnarono a grandi manifestazioni di folla – naturalmente organizzata – cui parteciparono autorità politiche e religiose e che segnarono la conclusione di tutta una storia pregressa che aveva visto togliere in vari modi il simbolo dai luoghi pubblici negli anni dell’affermazione di Roma capitale, quindi poco dopo il 1870.
Il cardinale Kasper ai credenti: “Non dormite, alzate la voce” intervista al cardinale Walter Kasper, a cura di Gian Guido Vecchi in “Corriere della Sera” del 4 novembre 2009 «Sa cosa penso, tutto sommato? Che noi cristiani stiamo dormendo.
Questa manifestazione di secolarismo aggressivo dovrebbe essere un segnale per svegliarci e alzare un po’ la voce».
Il cardinale Walter Kasper, 76 anni, presidente del pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani, è una persona mite, finissimo teologo che fu assistente di Leo Scheffczyk e di Hans Küng e ha guidato le facoltà di Münster e Tubinga, insegnato a Washington, pubblicato opere tradotte in tutto il mondo come Il Dio di Gesù Cristo , un uomo di dialogo (da anni tiene per la Chiesa i rapporti con le altre confessioni cristiane e con gli ebrei) aperto al mondo laico e ai non credenti.
Essere miti, però, non significa dormire, sorride: «In alcuni ambienti europei, a Strasburgo e Bruxelles, vogliono costruire una realtà che non sarebbe più Europa, perché senza cristianesimo l’Europa non è.
Tale tendenza antistorica esiste, ha potere, e questo non si può tollerare: anche i politici che si dicono cristiani dovrebbero parlare…».
Per dire cosa, eminenza? «Nel centro di tutte le antiche città d’Europa c’è una cattedrale, vogliono abolire anche le cattedrali? Sono costernato all’idea che un tribunale europeo abbia potuto prendere una decisione del genere.
È radicalmente antieuropea.
Se si viaggia dalla Spagna all’Estonia e fino a Mosca, dappertutto si trova la Croce: dice la nostra cultura, è l’eredità comune che ha unito il continente, non si possono negare così le proprie radici».
La sentenza parla di «violazione della libertà religiosa»…
«Togliere il crocifisso dalle aule, semmai, è una violazione del sentire della maggioranza: i cristiani sono e restano la gran parte, soprattutto in Italia, e la maggioranza non può essere orientata dalla minoranza.
Ma non si tratta tanto di questo.
È chiaro che per noi cristiani è essenzialmente un simbolo religioso.
Oltre a questo, però, la Croce è un simbolo culturale».
A quanto pare, però, c’è chi si sente offeso…
«Il crocifisso è un segno di carità e di benevolenza, non può essere offensivo, non minaccia nessuno.
Dice l’amore e la misericordia di Dio, una misericordia che è per tutti, anche per i non credenti».
Ma la laicità? «La laicità è legittima, viviamo in una società pluralista nella quale convivono diverse fedi e idee, dobbiamo avere tolleranza e rispetto verso gli altri.
Questa decisione, tuttavia, è molto strana, non esprime laicità ma ideologia, un laicismo che si fa intollerante: voler togliere il crocifisso è intollerante».
Non c’è anche una responsabilità di chi ha stravolto e usato la Croce come un segno «contro» gli altri? «È vero, spesso nella storia è stata usata in questo modo.
Ma non credo che oggi nessuno possa intenderla così.
No, ciò che resta dopo aver tolto i simboli è il vuoto.
Il vuoto! È questo il senso della secolarizzazione? Che non c’è più nulla? Ma che cosa vuol dire?».
Il Papa, in volo verso Praga, diceva che le «minoranze creative determinano il futuro» e la Chiesa «deve comprendersi come minoranza creativa».
È questo il destino dei cristiani in Europa? «La Repubblica Ceca è un caso straordinario, ma nel resto d’Europa i cristiani non sono una minoranza: restano una grande maggioranza con una grande eredità culturale.
La Croce dice da dove veniamo, ha unito il continente, ci sono Stati come la Svizzera o la Svezia che l’hanno nella bandiera, un simbolo religioso divenuto simbolo nazionale! Ripeto: che cosa sarebbe l’Europa se i cristiani non ci fossero più? Non sarebbe più Europa».
Diceva che i cristiani devono «svegliarsi».
In che modo? «Mostrando la loro presenza.
La tolleranza verso gli altri è doverosa, ma ci siamo anche noi e abbiamo i nostri diritti.
Del resto siamo in democrazia, no ? Abbiamo le elezioni.
Io mi sono sempre lamentato che così poche persone vadano a votare per eleggere il Parlamento europeo.
E i parlamentari devono rispondere a coloro che li hanno eletti».
La condanna del cardinal Re “Sentenza che lascia sgomenti” intervista al cardinale Giovanni Battista Re, a cura di Orazio La Rocca in “la Repubblica” del 4 novembre 2009 «Sorpreso, perplesso, deluso e profondamente addolorato».
Lo smarrimento con cui Oltretevere è stata accolta la notizia della sentenza di Strasburgo contro l’esposizione del crocifisso nelle scuole pubbliche italiane è sintetizzabile nelle parole con cui il cardinale Giovanni Battista Re, prefetto della Congregazione dei vescovi, esprime tutta la sua «delusione mista a stupore, per un pronunciamento – confessa a Repubblica pur puntualizzando di parlare a titolo personale – incomprensibile, imprevisto e che non può non lasciare sgomenti».
Inequivocabili parole di condanna che il porporato – uno dei più influenti e riservati cardinali della Curia pontificia – pronunzia con estrema fermezza, senza tuttavia nascondere la speranza che il ricorso alla sentenza subito annunciato dal governo italiano possa vanificare in un futuro più o meno prossimo il pronunciamento della Corte europea.
«E meno male – commenta infatti il porporato riferendosi alle reazioni che sono state fatte a caldo dopo il pronunciamento di Strasburgo – che almeno le autorità governative italiane hanno immediatamente fatto sapere che si opporranno a questa decisione.
Ora occorrerà vedere come, in concreto, tutta la questione evolverà».
Cardinale Giovanni Battista Re, si sarebbe mai aspettato una sentenza che impone alle autorità del nostro paese di togliere i crocifissi dalle scuole pubbliche? Senza escludere che analoghe richieste si potranno fare anche per altri luoghi pubblici «No.
In verità, non me lo aspettavo proprio, come del resto qualsiasi persona di buon senso.
Per questo dico che è una sentenza che non riesco a capire.
Quando penso, poi, che qui si parla di un simbolo, il crocifisso, immagine che non può non essere emblema di umanità condivisa universalmente, nel mio animo accanto alla delusione prendono forma anche sentimenti di tristezza e dolore».
Perché così deluso? I giudici di Strasburgo forse hanno semplicemente preso atto del carattere multietnico e multireligioso verso cui si sta evolvendo la società europea.
«E invece io non posso non ribadire il mio grande stupore per quanto è stato deciso.
Dico questo perché temo che i giudici non hanno tenuto conto che il crocifisso è un simbolo universale di valori che stanno alla base della nostra identità europea.
E’ l’emblema della tradizione cristiana su cui si fonda la nostra civiltà».
Ma – al di là degli aspetti religiosi – il crocifisso cosa può rappresentare oggi per chi cristiano non è, segue altre religioni o non professa nessuna fede? «Il crocifisso è il segno di un Dio che ama l’uomo fino a dare la sua vita per lui.
E’ un Dio che ci educa all’amore, alla attenzione per ogni uomo, specialmente il più debole ed indifeso, e al rispetto verso gli altri, anche verso coloro i quali appartengono a culture o religioni diverse.
Come non condividere un simbolo così pieno di senso e di significato che ogni uomo di buona volontà in coscienza non può non capire e accettare?».
I giudici di Strasburgo fanno, però, riferimento al fatto che negli edifici pubblici, e quindi anche nelle scuole, la laicità è un valore da tutelare per il bene di tutti, credenti e non credenti.
«I veri sostenitori della laicità non devono dimenticare che l’autore del primo messaggio di laicità è stato proprio Gesù Cristo quando ha detto: ‘Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio’.
Non va poi ulteriormente dimenticato il fatto che la sana laicità include anche il rispetto profondo della coscienza di tutti e di ciascuno, e che il difensore della coscienza umana è stato proprio Cristo, crocifisso e risorto per l’umanità intera».
La battaglia su un simbolo di Stefano Rodotà in “la Repubblica” del 4 novembre 2009 Ancora una volta una sentenza prevedibile, ben argomentata giuridicamente, non suscita le riflessioni che meritano le difficili questioni affrontate, ma induce a proteste sopra le righe, annunci di barricate, ambigue sottovalutazioni.
Dovremmo ricordare che le precedenti decisioni italiane, che avevano ritenuto legittima la presenza del crocifisso nelle aule, erano state assai criticate per la debolezza del ragionamento giuridico, per il ricorso ad argomenti che nulla avevano a che fare con la legittimità costituzionale.
E, considerando il fatto che la nostra Corte costituzionale aveva ritenuto inammissibile per ragioni formali un ricorso in materia, s’era parlato addirittura di una “fuga della Corte”, nelle cui sentenze si potevano ritrovare molte indicazioni nel senso della illegittimità della esposizione del crocifisso.
Nella decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, che ha ritenuto quella esposizione in contrasto con quanto disposto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, non v’è traccia alcuna di sottovalutazione della rilevanza della religione, della quale, al contrario, si mette in evidenza l’importanza addirittura determinante per quanto riguarda il diritto dei genitori di educare i figli secondo le loro convinzioni e la libertà religiosa degli alunni.
La sentenza, infatti, sottolinea come la scuola sia un luogo dove convivono presenze diverse, caratterizzate da molteplici credenze religiose o dal non professare alcuna religione.
Si tratta, allora, di evitare che la presenza di un “segno esteriore forte” della religione cattolica, quale certamente è il crocifisso, “possa essere perturbante dal punto di vista emozionale per gli studenti di altre religioni o che non ne professano alcuna”.
Inoltre, il rispetto delle convinzioni religiose di alcuni genitori non può prescindere dalle convinzioni degli altri genitori.
È in questo crocevia che si colloca la decisione dei giudici di Strasburgo che, in ossequio al loro mandato, devono garantire equilibri difficili, evitare ingiustificate prevaricazioni, assicurare la tutela d’ogni diritto.
Non si può ricorrere, infatti, all’argomento maggioritario, come incautamente aveva fatto il Tar del Veneto, che per primo aveva respinto la richiesta di togliere il crocifisso dalle aule, ricorrendo ai risultati di un sondaggio che sottolineava come la grande maggioranza degli interpellati fosse a favore del mantenimento di quel simbolo.
Un grande teorico del diritto, Ronald Dworkin, ha ricordato che «l’istituzione dei diritti è cruciale perché rappresenta la promessa della maggioranza alla minoranza che la sua dignità ed eguaglianza saranno rispettate.
Quando le divisioni tra i gruppi sono molto violente, allora questa promessa, se si vuole far funzionare il diritto, dev’essere ancor più sincera».
La garanzia del diritto, fosse pure quella di uno solo, è sempre un essenziale punto di riferimento per misurare proprio la tenuta di uno Stato costituzionale.
Guai a considerare la sentenza di ieri come un documento che apre un insanabile conflitto, che nega l’identità europea, che è “sintomo di una dittatura del relativismo”, addirittura “un colpo mortale all’Europa dei valori e dei diritti”.
Soprattutto da chi ha responsabilità di governo sarebbe lecito attendersi un linguaggio più sorvegliato.
Non vorrei che, abbandonandosi a queste invettive e parlando di una “corte europea ideologizzata”, si volesse trasferire in Europa lo stereotipo devastante dei giudici “rossi”, che tanti guai sta procurando al nostro paese.
Allo stesso modo sarebbe sbagliato se il fronte “laicista” cavalcasse il pronunciamento per rilanciare una battaglia anti-cristiana.
Mantenendo lucidità di giudizio, si dovrebbe piuttosto concludere che la sentenza della Corte europea vuole sottrarre il crocifisso a ogni contesa.
In questo è la sua superiore laicità.
Viviamo tempi in cui la difesa della libertà religiosa non può essere disgiunta dal rispetto del pluralismo, da una riflessione più profonda sulla convivenza tra diversi.
L’ossessione identitaria, manifestata anche in questa occasione e che percorre pericolosamente i territori dell’Unione europea, era lontanissima dai pensieri e dalla consapevolezza che ispirarono i padri fondatori dell’Europa, tra i quali i cattolici Alcide De Gasperi e Konrad Adenauer, che proprio quando si scrisse la Convenzione sui diritti dell’uomo nel 1950, quella sulla quale è fondata la sentenza di ieri, mai cedettero alla tentazione di ancorarla a “radici cristiane”, che avrebbero introdotto un elemento di divisione nel momento in cui si voleva unificare l’Europa, anche intorno all’eguale diritto di tutti e di ciascuno.
Dobbiamo rimpiangere quella lungimiranza? Questa sentenza ci porta verso un’Europa più ricca, verso un’Italia in cui si rafforzano le condizioni della convivenza tra diversi, dove acquista pienezza quel diritto all’educazione dei genitori che i cattolici rivendicano, ma che deve valere per tutti.
Libera anche il mondo cattolico da argomentazioni strumentali che, pur di salvare quella presenza sui muri delle scuole, riducevano il simbolo drammatico della morte di Cristo a una icona culturale, ad una mediocre concessione compromissoria ai partiti d’ispirazione cristiana (così è scritto nella memoria presentata a Strasburgo della nostra Avvocatura dello Stato).
L’Europa ci guarda e, con il voto unanime dei suoi giudici, ci aiuta.
Nessuna legge lo prevede di Michele Ainis in “La Stampa” del 4 novembre 2009 Doveva arrivare un giudice d’Oltralpe per liberarci da un equivoco che ci portiamo addosso da settant’anni e passa.
In una decisione che s’articola lungo 70 punti (non proprio uno scarabocchio scritto in fretta e furia) ieri la Corte di Strasburgo ha messo nero su bianco un elenco di ovvietà.
Primo: il crocifisso è un simbolo religioso, non politico o sportivo.
Secondo: questo simbolo identifica una precisa religione, una soltanto.
Terzo: dunque la sua esposizione obbligatoria nelle scuole fa violenza a chi coltiva una diversa fede, o altrimenti a chi non ne ha nessuna.
Quarto: la supremazia di una confessione religiosa sulle altre offende a propria volta la libertà di religione, nonché il principio di laicità delle istituzioni pubbliche che ne rappresenta il più immediato corollario.
Significa che fin qui ci siamo messi sotto i tacchi una libertà fondamentale, quella conservata per l’appunto nell’art.
9 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo? Non sarebbe, purtroppo, il primo caso.
Ma si può subito osservare che nessuna legge della Repubblica italiana impone il crocifisso nelle scuole.
Né, d’altronde, nei tribunali, negli ospedali, nei seggi elettorali, nei vari uffici pubblici.
Quest’obbligo si conserva viceversa in regolamenti e circolari risalenti agli Anni Venti, quando l’Italia vestiva la camicia nera.
Fu introdotto insomma dal Regime, ed è sopravvissuto al crollo del Regime.
Non è, neppure questo, un caso solitario: basta pensare ai reati di vilipendio, agli ordini professionali, alle molte scorie normative del fascismo che impreziosiscono tutt’oggi il nostro ordinamento.
Ma quantomeno in relazione al crocifisso, la scelta normativa del Regime deve considerarsi in sintonia con la Costituzione all’epoca vigente.
E infatti lo Statuto albertino, fin dal suo primo articolo, dichiarava che «la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato».
Da qui figli e figliastri, come sempre succede quando lo Stato indossa una tonaca in luogo degli abiti civili.
Ma adesso no, non è più questa la nostra divisa collettiva.
L’art.
8 della Carta stabilisce l’eguale libertà delle confessioni religiose, e stabilisce dunque la laicità del nostro Stato.
Curioso che debba ricordarcelo un giudice straniero.
Domanda: ma l’art.
7 non cita a sua volta il Concordato? Certo, e infatti la Chiesa ha diritto a un’intesa normativa con lo Stato italiano, a differenza di altre religioni (come quella musulmana) che ancora ne risultano sprovviste.
Però senza privilegi, neanche in nome del seguito maggioritario del cattolicesimo.
D’altronde il principio di maggioranza vale in politica, non negli affari religiosi.
E d’altronde la stessa Chiesa venne fondata da Cristo alla presenza di non più di 12 discepoli.
Se una religione è forte, se ha fede nella sua capacità di suscitare fede, non ha bisogno di speciali protezioni.
Il crocifisso e la caccia ai simboli che provoca soltanto danni di Alberto Melloni in “Corriere della Sera” del 4 novembre 2009 Torna per la millesima volta la querelle del crocifisso in aula.
Stavolta per una sentenza europea che arriva dopo che la Corte Costituzionale e la giustizia amministrativa avevano stroncato anni fa l’ennesimo tentativo di fare di quella scultura in stile Guido Reni l’oggetto di un c

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