Matteo Ricci: dialogando col Dragone

«Possiamo imparare a essere saggi in tre modi.
Il primo è quello « dell’imparare a riflettere, ed è il migliore.
Il secondo è l’imitazione, ed è il più facile.
Il terzo è affidarsi all’esperienza, ed è il più doloroso».
Non sappiamo se Matteo Ricci conoscesse questo frammento dei Dialoghi (Lün-yü) di K’ung futzu, il “maestro K’ung” che, col nome latinizzato di Confutius, egli aveva considerato come una guida per condurre – attraverso la riflessione, l’esempio e la maturazione umana – anche il cinese verso l’uomo nuovo cristiano.
Certo è che egli studiò e seguì quei percorsi di sapienza per compiere una delle esperienze più alte e intense di dialogo interculturale e interreligioso.
La mostra e i saggi di questo catalogo sono quasi la cristallizzazione simbolica di un simile itinerario che ha reso il gesuita maceratese un precursore e un emblema anche nei secoli successivi.
La sua forte consapevolezza apostolica La sua forte consapevolezza apostolica e missionaria, la poliedrica formazione che spaziava nello stesso orizzonte scientifico (egli, tra l’altro, era contemporaneo di Galileo), la straordinaria capacità di ermeneutica del messaggio profondo sotteso alla tradizione confuciana e alla cultura cinese, la sua acuta disponibilità a riflettere, imitare e vivere la realtà cinese (per usare la trilogia sopra evocata da Confucio) lo rendono un importante testimone di un fenomeno che è capitale anche ai nostri giorni per il cristianesimo, quello dell’inculturazione o acculturazione.
Alcuni considerano i due termini come sinonimi, altri operano tra essi sottili distinzioni, altri poi li oppongono tra loro: ad esempio, nell’Enciclopedia Europea (III, 956) il termine “acculturazione” è inteso nel senso negativo di assorbimento e dissoluzione distruttiva delle diversità etnico-culturali dei vari popoli a causa della globalizzazione imposta dall’Occidente.
È indiscutibile che questo rischio esiste ed è da imputare a un’inculturazione o acculturazione di implicita impronta “coloniale”, impositiva e non propositiva e dialogica, lontana quindi dall’atteggiamento di Ricci.
Noi usiamo ora il più comune termine “inculturazione”, apparso per la prima volta nel linguaggio ecclesiale nel Messaggio al popolo di Dio (n.
5) del Sinodo dei Vescovi del 1977.
In realtà, già nel 1953 il missiologo Pierre Charles intitolava così un articolo apparso sulla «Nouvelle Revue Théologique»: Missiologie et acculturation (optando, però, per l’altro termine, “inculturazione”).
Il Concilio Vaticano II esprimeva la stessa idea ricorrendo a due termini tardo-latini, adaptatio e accommodatio (si veda, ad esempio, Ad gentes n.
22).
In pratica potremmo definire questo approccio missionario-pastorale-culturale come una scelta che riconosce la differenziazione delle culture e sceglie di innestare in esse il seme del Vangelo così che, sulla base di una mutua fecondazione (tra seme e terreno fertile), si compia un’autentica incarnazione e una rigenerazione benefica dello stesso Vangelo nel nuovo contesto.
Questa scelta pastorale, teologica e culturale fu così formalizzata da Giovanni Paolo II in un discorso tenuto in Kenya nel1980: «L’acculturazione o inculturazione sarà realmente un riflesso dell’incarnazione del Verbo, quando una cultura, trasformata e rigenerata dal Vangelo, produce dalla sua propria tradizione espressioni originali di vita, di celebrazione, di pensiero cristiano».
Questa impostazione – come sottolineava il Papa – appartiene alla stessa logica dell’Incarnazione.
Non solo perché il messaggio evangelico dev’essere sale, lievito, seme, luce, per usare note metafore bibliche, ma anche perché la stessa Parola di Dio non è un aerolito piombato dal cielo, uno scrigno di teoremi teologici preconfezionati, una fredda pietra preziosa da custodire, bensì un seme che è cresciuto nella terra della sarx, ossia della “carne” della storia e della cultura umana.
Si pensi solo al confronto dinamico che intercorre tra la Rivelazione anticotestamentaria e le varie civiltà, dalla nomadica alla fenicio-cananea, dalla mesopotamica all’egizia, dall’hittita alla persiana e alla greco-ellenistica, mentre il cristianesimo si è vivacemente confrontato e anche affrontato col giudaismo palestinese e della Diaspora, con la cultura greco-romana, con le forme gnostiche e cultuali pagane.
Giovanni Paolo II, nel 1979, affermava davanti alla Pontificia Commissione Biblica che, ancor prima di farsi carne «la stessa Parola divina s’era fatta linguaggio umano, assumendo i modi di esprimersi delle diverse culture che da Abramo al Veggente dell’Apocalisse hanno offerto al mistero adorabile dell’amore salvifico di Dio la possibilità di rendersi accessibile e comprensibile alle varie generazioni, malgrado la molteplice diversità delle loro situazioni storiche».
La scelta dell’inculturazione non è, quindi, di tattica missionaria o al massimo di larga strategia pastorale, ma è strutturale alla stessa fede cristiana.
La Rivelazione biblica è, infatti, frutto del congiungimento tra Logos e sarx, in analogia a quanto accade nel Cristo, Figlio di Dio e figlio dell’umanità.
Diventano, così, molto meno paradossali certe espressioni dei Padri, come quella della Prima Apologia di s.
Giustino che nel II secolo affermava: «Del Logos divino fu partecipe tutto il genere umano e coloro che vissero secondo il Logos sono cristiani, anche se furono giudicati atei, come, fra i Greci, Socrate ed Eraclito e altri come loro» (46, 2-3).
È naturale che questa imprescindibile inculturazione deve, però, custodire l’autenticità del messaggio, senza deformarlo o stingerlo col rischio di estinguerlo.
In questa luce si comprende quanto sia al tempo stesso necessario, ma anche rischioso e delicato, il processo di evangelizzazione interculturale che ancor oggi è programmatico per la Chiesa e che ha in Matteo Ricci quasi l’alfiere e il testimone più incisivo e significativo.
in “Il Sole-24 Ore” del 25 ottobre 2009

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